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mercoledì 25 luglio 2018

N. 170 SENTENZA 4 - 20 luglio 2018 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Ordinamento giudiziario - Illeciti disciplinari dei magistrati - Iscrizione o partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici anche per i magistrati fuori dal ruolo organico della magistratura perche' collocati in aspettativa per motivi elettorali. - Decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilita', nonche' modifica della disciplina in tema di incompatibilita', dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», art. 3, comma 1, lettera h), come sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d), numero 2), della legge 24 ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell'efficacia nonche' modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario). - (GU n.30 del 25-7-2018 )





N. 170 SENTENZA 4 - 20 luglio 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Ordinamento giudiziario -  Illeciti  disciplinari  dei  magistrati  -
  Iscrizione o partecipazione sistematica e  continuativa  a  partiti
  politici anche per i magistrati  fuori  dal  ruolo  organico  della
  magistratura  perche'   collocati   in   aspettativa   per   motivi
  elettorali.
- Decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109,  recante  «Disciplina
  degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni
  e della procedura per  la  loro  applicabilita',  nonche'  modifica
  della disciplina in tema di incompatibilita', dispensa dal servizio
  e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1,
  comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150»,  art.  3,
  comma 1, lettera h), come sostituito dall'art. 1, comma 3,  lettera
  d), numero 2), della legge 24 ottobre  2006,  n.  269  (Sospensione
  dell'efficacia  nonche'  modifiche  di  disposizioni  in  tema   di
  ordinamento giudiziario).


(GU n.30 del 25-7-2018 )

 

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO',

     
    ha pronunciato la seguente

                              SENTENZA

    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1,
lettera h), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante
«Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei   magistrati,   delle
relative sanzioni e  della  procedura  per  la  loro  applicabilita',
nonche'  modifica  della  disciplina  in  tema  di  incompatibilita',
dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio  dei  magistrati,  a
norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f),  della  legge  25  luglio
2005, n. 150» come sostituito  dall'art.  1,  comma  3,  lettera  d),
numero  2),  della  legge  24  ottobre  2006,  n.  269   (Sospensione
dell'efficacia  nonche'  modifiche  di  disposizioni   in   tema   di
ordinamento giudiziario), promosso  dalla  sezione  disciplinare  del
Consiglio superiore della magistratura nel procedimento relativo a M.
E. con ordinanza del 28 luglio 2017, iscritta al n. 155 del  registro
ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2017.
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  M.  E.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    udito nella  udienza  pubblica  del  3  luglio  2018  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon;
    uditi l'avvocato Aldo Loiodice per M. E. e l'avvocato dello Stato
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.-  La  sezione  disciplinare  del  Consiglio  superiore   della
magistratura, con ordinanza del 28  luglio  2017,  ha  sollevato,  in
riferimento agli  artt.  2,  3,  18,  49  e  98  della  Costituzione,
questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  3,  comma  1,
lettera h), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante
«Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei   magistrati,   delle
relative sanzioni e  della  procedura  per  la  loro  applicabilita',
nonche'  modifica  della  disciplina  in  tema  di  incompatibilita',
dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio  dei  magistrati,  a
norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f),  della  legge  25  luglio
2005, n. 150», nel testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d),
numero  2),  della  legge  24  ottobre  2006,  n.  269   (Sospensione
dell'efficacia  nonche'  modifiche  di  disposizioni   in   tema   di
ordinamento giudiziario), nella parte in cui prevede  quale  illecito
disciplinare  l'iscrizione  o   la   partecipazione   sistematica   e
continuativa a partiti politici anche  per  i  magistrati  fuori  del
ruolo organico della magistratura perche'  collocati  in  aspettativa
«per motivi elettorali».
    1.1.-  La  sezione  disciplinare  rimettente  premette   che   il
Procuratore generale presso la  Corte  di  cassazione  ha  esercitato
l'azione disciplinare nei confronti di M. E. - magistrato attualmente
fuori del ruolo organico della magistratura per  lo  svolgimento  del
mandato amministrativo di sindaco del Comune di Bari (dal giugno 2004
al giugno 2014), di assessore «esterno» del Comune di  San  Severo  e
del mandato elettivo di Presidente della Regione Puglia  (dal  giugno
2015 sino alla data odierna) -  contestandogli  la  violazione  degli
artt. 1, comma 1, e 3, comma 1, lettera h), del  d.lgs.  n.  109  del
2006, come modificato dalla legge n. 269 del 2006, per aver ricoperto
gli incarichi di segretario regionale del Partito  Democratico  -  PD
della Puglia (dall'ottobre 2007 all'ottobre 2009), di Presidente  del
Partito Democratico - PD della Puglia (dal novembre 2009  al  gennaio
2014), nuovamente di segretario del Partito Democratico  -  PD  della
Puglia (dal febbraio 2014 al 21 maggio 2016), e, con  una  successiva
contestazione, per  aver  presentato,  nel  marzo  2017,  la  propria
candidatura  per  l'elezione  a  segretario  nazionale  del   Partito
Democratico. Secondo il titolare dell'iniziativa  disciplinare  tutte
le cariche ricoperte  -  «non  coessenziali  con  l'espletamento  dei
mandati amministrativi presso gli enti territoriali» - presuppongono,
per statuto, l'iscrizione al partito politico di riferimento; in  tal
modo, M. E., «iscrivendosi ad  un  partito  e  svolgendovi  attivita'
partecipativa e  direttiva  in  forma  sistematica  e  continuativa»,
avrebbe violato l'art. 3, comma 1, lettera h), del d.lgs. n. 109  del
2006, che appunto configura quale illecito disciplinare  l'iscrizione
o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti  politici  a
garanzia dell'esercizio  indipendente  e  imparziale  della  funzione
giudiziaria, «valevole anche  in  relazione  ai  magistrati  che  non
svolgano temporaneamente detta funzione per  essere  collocati  fuori
del ruolo organico della magistratura».
    1.2.- Premette ancora il giudice a quo che deve essere  disattesa
l'eccezione di estinzione del procedimento disciplinare  per  decorso
del termine annuale formulata dalla difesa ai sensi dell'art. 15  del
d.lgs. n. 109 del 2006, in quanto la conoscenza dei fatti che ha dato
origine all'azione disciplinare avviata il 30 ottobre 2014  e'  stata
ricondotta ad un articolo di stampa del  2  dicembre  2013  e  ad  un
esposto del 7 marzo 2014, mentre non sono emersi profili che  possono
assumere  un  concreto  rilievo  ai  fini   della   formulazione   di
circostanziate contestazioni in epoca precedente.
    1.3.- Quanto al merito delle censure sollevate, il giudice a  quo
ricorda il contenuto della sentenza n. 224 del 2009, con cui la Corte
costituzionale si e' gia' pronunciata sulla compatibilita'  dell'art.
3, comma 1, lettera h), del  d.lgs.  n.  109  del  2006  rispetto  ai
parametri evocati. Il rimettente sottolinea pero' la  diversita'  tra
il caso da cui avevano avuto origine le questioni  allora  dichiarate
non fondate e quello ora al giudizio della sezione  disciplinare  del
Consiglio superiore della magistratura: mentre in quella occasione il
magistrato nei cui confronti era stata avviata l'azione  disciplinare
era stato collocato fuori ruolo «per svolgere  funzioni  tecniche  di
consulenza a favore di una Commissione parlamentare»,  nel  caso  ora
alla sua attenzione  il  magistrato  e'  collocato  fuori  ruolo  per
l'esercizio  di  funzioni  elettive  «che  determinano  una  fase  di
sospensione delle funzioni giudiziarie  per  un  arco  temporale  non
definibile  e  che  potrebbe  finanche   superare   il   periodo   di
appartenenza del magistrato all'Ordine Giudiziario».
    Inoltre - secondo il rimettente - poiche'  le  funzioni  elettive
sono per  loro  natura  connotate  da  sicuro  rilievo  politico,  la
compatibilita' della disposizione  censurata  rispetto  ai  parametri
evocati deve essere esaminata  in  una  diversa  prospettiva,  quella
della tutela dei diritti politici riconosciuti dalla Costituzione.
    A tal fine, la sezione disciplinare rimettente ricorda  tutte  le
disposizioni normative che attualmente consentono  ai  magistrati  di
candidarsi alle elezioni  politiche  e  amministrative  e  di  essere
nominati assessori negli organi esecutivi.
    Ricorda anche che  -  «[i]n  coerente  applicazione  del  portato
precettivo dell'art. 51 della Costituzione  -  quale  previsione  che
assicura  in  via  generale  il  diritto   di   elettorato   passivo,
riconducibile alla sfera dei "diritti inviolabili della  persona"  di
cui all'art. 2 Cost. - il Consiglio Superiore della  Magistratura  ha
ritenuto che  l'accesso  al  pubblico  ufficio  non  e'  soggetto  ad
autorizzazione, trattandosi di un diritto politico costituzionalmente
riconosciuto in capo  ad  ogni  cittadino  senza  alcuna  distinzione
derivante  dall'attivita'  o  dalle  funzioni  svolte».  Il  medesimo
Consiglio ha anche  ripetutamente  affermato  la  possibilita'  della
contemporanea assunzione  di  incarichi  politico-amministrativi  (in
forza di mandato elettorale o di incarico di assessore)  in  capo  ai
magistrati,  fermo  restando  l'obbligo  di  ricorrere   all'istituto
dell'aspettativa ove vi sia coincidenza tra l'ambito territoriale  di
svolgimento   della   funzione   giurisdizionale   e   quello   della
circoscrizione elettorale, e cio' in base al rilievo che le cause  di
ineleggibilita' ed incompatibilita' hanno carattere tassativo  e  che
tra esse non e' inclusa l'appartenenza all'ordine giudiziario.
    Osserva, quindi, il giudice a quo come la normativa vigente - che
consente, a certe condizioni,  lo  svolgimento  di  compiti  che  non
possono non  manifestare  caratteristiche  collegate  alle  dinamiche
politico-partitiche  -  incida  sulla  corretta  interpretazione  del
significato del divieto disciplinare di  cui  all'art.  3,  comma  1,
lettera h), del d.lgs. n. 109 del 2006, conducendo  ad  escludere  la
rilevanza disciplinare in tutti quei casi in  cui  la  partecipazione
del magistrato ad aspetti e momenti della vita politico-partitica sia
proporzionalmente e ragionevolmente  collegata  alle  caratteristiche
della funzione legittimamente ricoperta dal magistrato  fuori  ruolo.
Secondo   il   rimettente,   sarebbe,    infatti,    irrazionale    e
contraddittorio consentire, da una parte, l'assunzione di tali  ruoli
e,  dall'altra,  sostanzialmente  vietare  -   ed   anzi   sanzionare
disciplinarmente  -  alcune  manifestazioni  e  situazioni,  ritenute
«sintomo  di  organico   schieramento   partitico»,   che   risultino
strettamente legate all'essenza di quei ruoli.
    1.4.- Posto  che  attualmente  (e  nonostante  le  sollecitazioni
rivolte  al  legislatore  dallo  stesso  Consiglio  superiore   della
magistratura ad intervenire in materia) e' consentito  ai  magistrati
di essere eletti al Parlamento nelle liste di  partiti  politici,  di
iscriversi ai  relativi  gruppi  parlamentari  e  di  contribuire  ad
attuarne la linea politica a livello nazionale, il rimettente ritiene
che il «confine tra la militanza e  la  candidatura  indipendente  e'
spesso incerto» ed e', pertanto, difficile risolvere  «la  discrasia»
fra  una  norma  che,  vietando  l'iscrizione  e  la   partecipazione
sistematica  e  continuativa  all'attivita'  dei  partiti,   mira   a
preservare   l'imparzialita'   del   magistrato   e   la   disciplina
dell'esercizio del diritto  di  elettorato  passivo  dei  magistrati,
soprattutto nei casi in cui la candidatura e' proposta da un  partito
oppure presuppone la previa iscrizione del candidato al  partito  che
presenta la lista, nel pieno esercizio, peraltro, di quanto  previsto
dall'art. 49 Cost.
    Pur non  ignorando  la  sezione  disciplinare  rimettente  che  i
magistrati   sono   generalmente   chiamati   a    candidarsi    come
«indipendenti», essa ritiene che la candidatura non possa prescindere
da una valutazione della storia professionale del magistrato  e  che,
comunque, e' la stessa  candidatura  a  consentire  l'identificazione
dell'area politica di riferimento. D'altro canto - osserva il giudice
a quo -  la  liberta'  di  associazione  politica  in  capo  ad  ogni
cittadino costituisce un'espressione della liberta' di associazione e
rappresenta, insieme alle liberta' consacrate  negli  artt.  2  e  18
Cost., un cardine essenziale del sistema democratico: di conseguenza,
se la liberta' di associazione,  e  in  particolare  la  liberta'  di
associazione in partiti,  possono  trovare  delle  limitazioni,  esse
pero' non possono essere completamente eliminate, «tantomeno nei casi
in cui il collocamento  in  aspettativa  del  magistrato  per  motivi
elettorali assume un peso particolare nel giudizio  di  bilanciamento
tra l'esigenza di salvaguardare l'indipendenza esterna del magistrato
ed il diritto del cittadino-magistrato di non  essere  escluso  dalla
vita politica del proprio Paese».
    1.5.- In punto di rilevanza, la sezione  disciplinare  rimettente
riferisce che M. E. e'  collocato  fuori  del  ruolo  organico  della
magistratura da ormai dodici anni e che  in  tale  periodo  e'  stato
dapprima sindaco del Comune di Bari e, in seguito,  Presidente  della
Regione Puglia. Si tratta di organi elettivi di  natura  politica  ai
quali  e'  assegnato  il  compito  -  dalla  Costituzione   e   dalla
legislazione di rango primario - di imprimere un indirizzo politico e
una linea di governo. Sarebbe, percio', «problematico» -  secondo  il
rimettente - sostenere che un magistrato che esercita  legittimamente
le funzioni di sindaco o di Presidente di  Regione  debba  (e  possa)
limitarsi a  beneficiare,  nell'attuazione  della  propria  linea  di
governo, di un mero appoggio esterno ed incondizionato  da  parte  di
una  entita'  politica  organizzata  con  la   quale   non   potrebbe
confrontarsi in sede partitica e politica, se  non  incorrendo  nelle
sanzioni disciplinari previste  dalla  disposizione  censurata.  Tali
organi possono, invero, governare solo attuando  una  linea  politica
concordata con i partiti che lo sostengono e che,  prima  ancora,  lo
hanno candidato.
    Il rimettente precisa,  infine,  che  l'incolpato  ha  svolto  un
prolungato impegno politico e che non e',  dunque,  ipotizzabile  una
assoluzione per scarsa rilevanza del fatto, ai sensi dell'art.  3-bis
del d.lgs. n. 109 del 2006.
    2.- E'  intervenuto  in  giudizio,  con  atto  depositato  il  28
novembre  2017,   il   Presidente   del   Consiglio   dei   ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.
    In primo  luogo,  l'Avvocatura  generale  ritiene  che  la  Corte
costituzionale, con  la  sentenza  n.  224  del  2009,  si  sia  gia'
pronunciata sulla compatibilita' dell'art. 3, comma  1,  lettera  h),
del d.lgs. n. 109 del 2006 in riferimento agli artt. 2, 3, 18,  49  e
98  Cost.,  e  sottolinea   come   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale  fossero  state  allora  sollevate  «sulla   base   di
argomenti   perfettamente   sovrapponibili   a    quelli    contenuti
nell'ordinanza indicata in epigrafe».
    Dopo  aver  riportato   ampi   stralci   di   quella   pronuncia,
l'Avvocatura rileva come la natura  assoluta  del  divieto  contenuto
nella  disposizione  censurata  non  incida  sulla  legittimita'   di
quest'ultima, poiche' - come  gia'  statuito  dalla  citata  sentenza
della Corte costituzionale - tale divieto si correla ad un dovere  di
imparzialita', e questo grava sul  magistrato,  coinvolgendo  il  suo
operare da  semplice  cittadino,  in  ogni  momento  della  sua  vita
professionale,  anche  quando  egli   sia   stato,   temporaneamente,
collocato fuori ruolo per lo svolgimento di un compito tecnico,  come
nel caso gia' vagliato, o per aver assunto un incarico elettivo, come
in quello ora all'esame del giudice disciplinare.
    La difesa statale  riporta,  sul  punto,  un  altro  passo  della
sentenza  n.  224  del  2009,  in  cui  si  legge  che  «ne'  vi   e'
contraddizione con il diritto  di  elettorato  passivo  spettante  ai
magistrati, e cio' sia per la diversita'  delle  situazioni  poste  a
raffronto (un conto e'  l'iscrizione  o  comunque  la  partecipazione
sistematica e continuativa alla vita di un partito politico, altro e'
l'accesso alle cariche elettive), sia perche'  quel  diritto  non  e'
senza limitazioni».
    In secondo luogo, l'Avvocatura generale dello Stato osserva  come
la disposizione censurata costituisca attuazione dell'art. 98,  terzo
comma, Cost., che attribuisce al legislatore ordinario la facolta' di
introdurre norme che limitano il diritto dei magistrati di iscriversi
a partiti politici e, quindi, di esercitare il diritto di  associarsi
in partiti politici, in deroga all'art. 49 Cost.,  e  come  essa  non
operi alcuna distinzione con riferimento ai magistrati  fuori  ruolo.
La Corte costituzionale, nella gia' citata sentenza n. 224 del  2009,
avrebbe gia' affermato che i magistrati  devono  poter  godere  degli
stessi diritti di liberta' garantiti agli altri  cittadini,  ma  che,
per le delicate funzioni che svolgono, non possono essere  del  tutto
equiparati ad essi, cosi' giustificando  «l'imposizione  di  speciali
doveri» a loro carico.
    Poiche' la stessa Corte costituzionale ha affermato che i  valori
di indipendenza e di imparzialita' vanno tutelati «anche come  regola
deontologica da osservarsi in ogni comportamento, al fine di  evitare
che  possa  fondatamente  dubitarsi   della   loro   indipendenza   e
imparzialita'», non  vi  sarebbero  elementi  sufficienti  -  secondo
l'Avvocatura generale - per distinguere la situazione del  magistrato
collocato  temporaneamente  fuori  ruolo  che  esercita  un   mandato
elettivo da quella gia' scrutinata dalla Corte  costituzionale  nella
sentenza n. 224 del 2009.
    In  conclusione,  l'Avvocatura   ritiene   che   la   fattispecie
disciplinare contenuta nell'art. 3, comma 1, lettera h),  del  d.lgs.
n. 109 del 2006 debba essere  «interpretata  in  modo  conforme  alle
esigenze costituzionali  di  integrita'  del  diritto  di  elettorato
passivo», ma che detta interpretazione debba «in  ogni  caso  restare
ancorata al dato formale della disposizione che vieta  al  magistrato
l'iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti
politici, in coerenza con la portata  precettiva  della  norma  cosi'
come delineata dalla Corte Costituzionale nella  citata  sentenza  n.
224/2009».
    3.- In data 12 giugno 2018, l'Avvocatura generale dello Stato  ha
depositato, in vista dell'udienza pubblica, una memoria in  cui  sono
ribadite le argomentazioni gia' contenute nell'atto di intervento.
    L'Avvocatura  aggiunge  che  il  rimettente  chiede  alla   Corte
costituzionale di escludere dal divieto previsto all'art. 3, comma 1,
lettera h), del  d.lgs.  n.  109  del  2006  solo  i  magistrati  che
ricoprono incarichi elettivi, ma rileva che - a suo avviso - limitare
l'accoglimento ad una sola  categoria  di  magistrati,  operando  una
distinzione   all'interno   della    magistratura,    significherebbe
introdurre  una  disciplina  «del   tutto   nuova»   riservata   alla
discrezionalita' del legislatore.
    4.- Si e' costituito in  giudizio,  con  atto  depositato  il  28
settembre  2017,  M.  E.,  parte  del  giudizio  a   quo,   chiedendo
l'accoglimento  delle  questioni   di   legittimita'   costituzionale
sollevate dalla sezione disciplinare del  Consiglio  superiore  della
magistratura.
    5.- In prossimita' dell'udienza pubblica, in data 11 giugno 2018,
la difesa di M. E. ha depositato articolata memoria.
    5.1.- Eccepisce in primo luogo  la  difesa  della  parte  che  le
questioni di  legittimita'  costituzionale  sollevate  dalla  sezione
disciplinare del Consiglio  superiore  della  magistratura  sarebbero
inammissibili  per  irrilevanza,  in  quanto  mancherebbe  «uno   dei
presupposti processuali condizionanti  la  valida  instaurazione  del
giudizio principale». Secondo la parte, il procedimento  disciplinare
avrebbe dovuto essere dichiarato estinto  per  mancato  rispetto  dei
termini dell'azione disciplinare. In base a quanto stabilisce  l'art.
15, commi 1 e 7, del d.lgs. n. 109 del 2006,  l'azione  disciplinare,
infatti, deve essere promossa entro un anno dalla notizia  del  fatto
della quale il Procuratore generale presso la Corte di cassazione  ha
conoscenza  a  seguito   dell'espletamento   di   sommarie   indagini
preliminari o  di  denuncia  circostanziata  o  di  segnalazione  del
Ministro della giustizia; se  tale  termine  non  e'  rispettato,  il
procedimento si estingue.
    Rileva la difesa di M. E. che la procura  generale  assume,  come
notizia circostanziata, un breve articolo di stampa pubblicato il  27
novembre 2013 e un esposto del  22  febbraio  2014,  mentre  i  fatti
contestati  sarebbero  stati  notori  in  periodo  antecedente,  come
dimostrerebbe il numero degli articoli di stampa, risalenti agli anni
precedenti, depositati nel giudizio a quo dalla difesa della parte.
    Nonostante la sezione  disciplinare  rimettente  abbia  rigettato
l'eccezione di tardivita' dell'esercizio dell'azione disciplinare, la
difesa di M. E. evidenzia come la  Corte  costituzionale  possa,  nel
valutare la rilevanza delle questioni, controllare la sussistenza  di
uno  dei  presupposti  processuali   che   condizionano   la   valida
instaurazione del giudizio  principale,  arrestandosi  tale  giudizio
solo se il rimettente abbia offerto una motivazione non  implausibile
in ordine alla sussistenza delle condizioni dell'azione.
    5.2.- Prima di affrontare nel merito le questioni di legittimita'
costituzionale sollevate dalla sezione disciplinare, la difesa  della
parte osserva che, nella prassi, i  magistrati  fuori  ruolo  per  lo
svolgimento di  un  mandato  elettivo  sono  stati  sempre  coinvolti
nell'attivita' dei partiti, anche  dopo  l'introduzione  del  divieto
disciplinare previsto dall'art. 3, comma 1, lettera h), del d.lgs. n.
109 del 2006, senza che sia mai stata avviata,  nei  loro  confronti,
un'azione disciplinare. Il primo e unico caso sarebbe quello che  ora
vede coinvolto M. E.  Secondo  la  difesa  della  parte,  la  sezione
disciplinare avrebbe sollevato le questioni ora all'esame della Corte
proprio per «rimarcare la diversa natura giuridica intercorrente  fra
il collocamento fuori ruolo del magistrato per lo svolgimento di  una
funzione tecnica o per l'esercizio di un mandato politico».
    Cio' spiegherebbe anche perche' la sezione  disciplinare  avrebbe
deciso  di  promuovere  l'incidente  di  costituzionalita',  anziche'
ricorrere all'interpretazione conforme: per chiarire,  con  efficacia
erga omnes, «i termini di una questione prima pacifica e ora divenuta
cruciale   per   il   riconoscimento   dei   diritti   politici   del
cittadino-magistrato».
    5.3.- A sostegno della fondatezza delle questioni di legittimita'
costituzionale sollevate dalla sezione  disciplinare  rimettente,  la
difesa della parte ritiene, anzitutto, che la  Corte  costituzionale,
nella sentenza n. 224 del  2009,  si  sarebbe  pronunciata  solo  con
riferimento alla posizione del magistrato fuori  ruolo  per  incarico
tecnico, evidenziando,  con  ampiezza  di  argomenti,  la  differente
condizione in cui versa quest'ultimo rispetto a un  magistrato  fuori
ruolo per mandato elettorale.
    Osserva, in secondo luogo, in base  ai  principi  regolatori  del
sistema delle fonti, che l'art. 98, terzo comma, Cost. facoltizza,  e
non obbliga, il legislatore ad introdurre il divieto di iscrizione ai
partiti politici, e cio' affinche' l'indipendenza  e  l'imparzialita'
dei magistrati siano bilanciate con le liberta' garantite dagli artt.
18 e  49  Cost.  «a  seconda  delle  esigenze  della  sperimentazione
storica». Tale interpretazione sarebbe  confermata  dall'analisi  dei
lavori preparatori dell'art. 98, terzo comma, Cost.
    La  parte  evidenzia  quindi  come,  opportunamente,  la  sezione
disciplinare non abbia  lamentato  la  lesione  dell'art.  51  Cost.,
bensi' il contrasto con quei parametri (artt.  2,  3,  18,  49  e  98
Cost.) che garantiscono la realizzabilita' delle condizioni effettive
per  il  pieno  espletamento  del  mandato  elettorale   e,   dunque,
l'ammissibilita' della partecipazione del magistrato-eletto alla vita
del partito di riferimento.
    Ritiene  la  difesa  di  M.  E.  che  le  cause  di   limitazione
dell'iscrizione ad un partito politico dovrebbero essere  considerate
di  stretta  interpretazione,   al   pari   di   quelle   riguardanti
l'ineleggibilita'.  Le  due  situazioni,  infatti,  se  pur  diverse,
sarebbero  «intimamente  collegate»,  a  meno  di  ritenere  che   la
candidatura e il seguito dell'attivita' dell'eletto possano  derivare
da un rapporto occulto tra quest'ultimo e il partito di riferimento.
    La facolta' del legislatore di stabilire limitazioni  al  diritto
di  iscrizione  al  partito  politico   sottenderebbe,   dunque,   il
bilanciamento tra il diritto del  magistrato-eletto  a  svolgere  con
pienezza il proprio mandato rappresentativo, da un lato, e la  tutela
dei  valori  di  indipendenza  e  di  imparzialita'  del  magistrato,
dall'altro, valori che - secondo la difesa della  parte  -  sarebbero
«di per se' gia' tutelati dal collocamento fuori ruolo del magistrato
eletto».
    La difesa della parte illustra, quindi, le ragioni per le quali -
a suo avviso - sulla base dei principi della rappresentanza  politica
e della forma di governo, l'assunzione di  cariche  dirigenziali  nel
partito sarebbero coessenziali  al  pieno  espletamento  del  mandato
elettorale. A tal fine, osserva come la tesi della  procura  generale
nell'atto di incolpazione contrasti  con  il  sistema  costituzionale
delle garanzie  politiche  riconosciute  al  singolo  rappresentante,
esprimendo «un'insostenibile scissione fra attivita' istituzionale  e
attivita'  politica».  Sul  punto,  sono  ricordate  le  regole   che
impongono a ciascun eletto di iscriversi ad  un  gruppo  politico  di
riferimento e il fatto che la partecipazione  dell'eletto  al  gruppo
presuppone, e non esclude, la necessaria partecipazione sistematica e
continuativa alla vita del partito di riferimento. Ricorda  anche  la
circostanza che molti statuti di partito prevedono la  partecipazione
di diritto dei propri eletti agli organi direttivi  del  partito.  Ad
avviso  della   difesa   della   parte,   l'attivita'   istituzionale
dell'eletto,  proprio   perche'   espressiva   della   rappresentanza
politica, non potrebbe essere separata «atomisticamente»  dal  gruppo
politico presente nell'organo rappresentativo,  ne'  potrebbe  essere
«impermeabilizzata» rispetto all'interpretazione delle  esigenze  del
collegio  elettorale  di  provenienza  formulata   dal   partito   di
riferimento, ne', infine,  potrebbe  prescindere  dalla  condivisione
sistematica  e  continuativa  delle  ragioni   fondanti   l'indirizzo
politico perseguito dal medesimo partito. Peraltro, in un contesto di
trasformazione dei partiti  politici,  l'autorevolezza  dei  titolari
degli incarichi di governo sarebbe a tal punto  connessa  alla  forza
politica ad essi riconosciuta dalla maggioranza da richiedere un loro
diretto coinvolgimento nelle attivita' di  partito.  Per  contro,  il
divieto     di     iscrizione     al     partito     politico     del
cittadino-magistrato-eletto avrebbe  l'effetto  di  scindere  la  sua
attivita'  istituzionale  da   quella   politica,   «senza   tuttavia
corroborare in alcun modo l'indipendenza e  l'imparzialita'  reale  e
apparente della funzione giudiziaria».
    Osserva ancora la difesa di M. E. che  la  soluzione  prospettata
dal rimettente sarebbe conforme al principio  di  ragionevolezza,  in
quanto  consentirebbe  di  regolare  in  maniera  diversa  situazioni
diverse, quali sono l'iscrizione al  partito  del  giudice  collocato
fuori ruolo per motivi tecnici e politici.
    Precisa, da ultimo, la difesa della parte che  il  sindaco  e  il
Presidente della Giunta  regionale  non  possono  essere  qualificati
organi tecnici  preposti  allo  svolgimento  di  funzioni  di  natura
professionale, bensi' organi di vertice dell'indirizzo  politico,  da
cui    promanano    programmi    e    obiettivi    che     l'apparato
tecnico-amministrativo e' chiamato ad attuare.

                       Considerato in diritto

    1.-  La  sezione  disciplinare  del  Consiglio  superiore   della
magistratura ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 18,  49  e
98  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 23 febbraio
2006, n. 109, recante «Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei
magistrati, delle relative sanzioni e della  procedura  per  la  loro
applicabilita',  nonche'  modifica  della  disciplina  in   tema   di
incompatibilita', dispensa dal servizio e  trasferimento  di  ufficio
dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera  f),  della
legge 25 luglio 2005, n. 150»,  nel  testo  sostituito  dall'art.  1,
comma 3, lettera d), numero 2), della legge 24 ottobre 2006,  n.  269
(Sospensione dell'efficacia nonche' modifiche di disposizioni in tema
di  ordinamento  giudiziario),  nella  parte  in  cui  prevede  quale
illecito disciplinare l'iscrizione o la partecipazione sistematica  e
continuativa a partiti politici anche  per  i  magistrati  fuori  del
ruolo organico della magistratura perche'  collocati  in  aspettativa
«per motivi elettorali».
    Il rimettente ritiene non  conferente,  per  la  soluzione  delle
odierne questioni, la sentenza di questa Corte n. 224 del  2009,  che
dichiaro'  non  fondate  questioni  di  legittimita'   costituzionale
sollevate  in  relazione  alla  medesima   disposizione   attualmente
censurata e con riferimento agli stessi parametri costituzionali  ora
evocati.  In  quella  occasione,  sostiene  il  giudice  a  quo,   il
magistrato  incolpato  era  stato  collocato  fuori  ruolo   per   lo
svolgimento di un  incarico  tecnico,  non  gia'  per  esercitare  il
diritto di elettorato passivo; sicche' quel precedente  non  potrebbe
essere ora invocato.
    Cio' premesso, ritiene  la  sezione  disciplinare  del  Consiglio
superiore   della   magistratura   che    sarebbe    irrazionale    e
contraddittorio, e percio' in lesione dell'art. 3  Cost.,  consentire
ai magistrati di essere eletti o  di  assumere  incarichi  di  natura
politica e, nel  contempo,  vietare,  attraverso  la  minaccia  della
sanzione  disciplinare,  lo  svolgimento  di  alcune   attivita'   di
partecipazione alla vita dei partiti politici, ritenute  «sintomo  di
organico  schieramento  partitico»,  particolarmente  quando   quelle
attivita' risultino strettamente legate alla natura  degli  incarichi
assunti.
    Il giudice  rimettente  osserva,  inoltre,  che  la  liberta'  di
associazione politica,  garantita  ad  ogni  cittadino  dall'art.  49
Cost.,  costituisce  un'espressione  della  piu'  ampia  liberta'  di
associazione di cui  all'art.  18  Cost.  e,  insieme  alle  liberta'
consacrate nell'art. 2  Cost.,  un  cardine  essenziale  del  sistema
democratico. Essa, pertanto,  nel  bilanciamento  con  l'esigenza  di
garantire l'indipendenza dei magistrati, potrebbe essere limitata, ma
non  completamente  soppressa,  soprattutto  nei  casi  in   cui   il
magistrato sia stato collocato in aspettativa per motivi  elettorali.
Per tale ragione, la vigenza del divieto disciplinare anche in questi
casi si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 18, 49 e 98 Cost.
    2.-  Deve  essere  preliminarmente   rigettata   l'eccezione   di
inammissibilita' per difetto di rilevanza, formulata dalla difesa  di
M. E. Secondo quest'ultima, il procedimento principale avrebbe dovuto
essere dichiarato  estinto  per  mancato  rispetto  dei  termini  per
l'esercizio dell'azione disciplinare stabiliti dall'art. 15, commi  1
e 7, del d.lgs. n. 109 del  2006;  mancherebbe,  pertanto,  «uno  dei
presupposti processuali condizionanti  la  valida  instaurazione  del
giudizio principale».
    Secondo un costante orientamento, l'accertamento della  validita'
dei presupposti di esistenza del giudizio principale  e'  prerogativa
del giudice rimettente (sentenza n. 61 del  2012),  mentre  a  questa
Corte spetta verificare esclusivamente che la valutazione del giudice
a quo sia avvalorata da «una motivazione non implausibile»  (sentenza
n. 270 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 34 del 2010) e che i
presupposti di esistenza del giudizio «non risultino manifestamente e
incontrovertibilmente carenti» nel momento in  cui  la  questione  e'
proposta (sentenze n. 262 del 2015 e n. 62 del 1992).
    Pertanto, il rigetto  dell'eccezione  consegue  alla  circostanza
che, nel giudizio a quo, la sezione disciplinare ha  gia'  rigettato,
con  argomentazione  non  implausibile,  l'eccezione  di   tardivita'
dell'azione disciplinare avanzata dalla difesa di M. E.
    3.- Le questioni non sono fondate.
    4.- Questa Corte ha gia' affermato  che,  in  linea  generale,  i
magistrati debbono godere degli stessi diritti di liberta'  garantiti
ad ogni altro cittadino, ma ha al contempo precisato che le  funzioni
esercitate  e  la  qualifica  rivestita  dai  magistrati   non   sono
indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale,  al
fine di stabilire i limiti che possono essere  opposti  all'esercizio
di quei diritti (sentenze n. 224 del 2009 e n. 100  del  1981).  Tali
limiti sono giustificati sia dalla particolare qualita' e delicatezza
delle  funzioni  giudiziarie,  sia  dai  principi  costituzionali  di
indipendenza e imparzialita' (artt. 101, secondo  comma,  104,  primo
comma, e 108, secondo comma, Cost.) che le caratterizzano.
    I principi costituzionali appena  richiamati,  del  resto,  vanno
tutelati non  solo  con  specifico  riferimento  all'esercizio  delle
funzioni giudiziarie, ma anche quali  criteri  ispiratori  di  regole
deontologiche  da  osservarsi  in  ogni  comportamento   di   rilievo
pubblico, al fine di evitare che  dell'indipendenza  e  imparzialita'
dei magistrati i cittadini possano fondatamente dubitare.
    Il  rapporto  tra  titolarita',  da  un  lato,   e   ampiezza   e
giustificazione  dei  limiti  opponibili  all'esercizio  dei  diritti
fondamentali dei magistrati, dall'altro, si  pone  secondo  modalita'
particolari per i diritti fondamentali di natura politica, dei  quali
e' questione nel giudizio a quo. In tale  materia,  la  Costituzione,
all'art. 98, terzo comma,  demanda  al  legislatore  la  facolta'  di
bilanciare la liberta' di associarsi in partiti,  tutelata  dall'art.
49 Cost., con l'esigenza di assicurare l'indipendenza dei  magistrati
(nonche' di alcune altre categorie di funzionari pubblici). E se tale
facolta' viene utilizzata, come e' accaduto,  il  bilanciamento  deve
essere condotto  secondo  un  preciso  obbiettivo,  cioe'  quello  di
impedire i condizionamenti all'attivita' giudiziaria  che  potrebbero
derivare  dal  legame  stabile  che   i   magistrati   contrarrebbero
iscrivendosi ad un partito o  partecipando  in  misura  significativa
alla sua attivita'. Questo e' il senso della  facolta'  di  stabilire
con legge  limitazioni  al  diritto  dei  magistrati  d'iscriversi  a
partiti politici.
    La Costituzione, in tal  modo,  mostra  il  proprio  sfavore  nei
confronti  di  attivita'  o  comportamenti  idonei  a  creare  tra  i
magistrati e i soggetti politici legami di  natura  stabile,  nonche'
manifesti  all'opinione  pubblica,  con  conseguente  compromissione,
oltre  che  dell'indipendenza  e  dell'imparzialita',   anche   della
apparenza di queste ultime: sostanza e apparenza  di  principi  posti
alla base della fiducia di cui deve godere  l'ordine  giudiziario  in
una societa' democratica.
    Quale risultato dell'esercizio, da parte del  legislatore,  della
facolta'  demandatagli  dall'art.  98,   terzo   comma,   Cost.,   la
disposizione censurata stabilisce, dunque, che  costituisce  illecito
disciplinare  per  i  magistrati  l'iscrizione  o  la  partecipazione
sistematica e continuativa a partiti politici.
    Questa specifica scelta legislativa, all'esito del  bilanciamento
che la Costituzione impone tra titolarita', da parte dei  magistrati,
di tutti i diritti fondamentali, da una parte, e tutela dei  principi
di indipendenza ed imparzialita', dall'altra, non impedisce  peraltro
di riconoscere (sentenza n. 224 del 2009) che il cittadino-magistrato
gode certamente dei diritti fondamentali di cui agli artt. 17,  18  e
21 Cost.  L'esercizio  di  questi  ultimi  diritti  gli  consente  di
manifestare legittimamente le proprie idee, anche di natura politica,
a condizione che cio' avvenga con l'equilibrio e la  misura  che  non
possono  non  caratterizzare  ogni  suo  comportamento  di  rilevanza
pubblica.
    5.- La questione che viene portata all'attenzione di questa Corte
e' se  la  fattispecie  disciplinare  prima  ricordata,  che  punisce
l'iscrizione  o  la  partecipazione  sistematica  e  continuativa  ai
partiti, si applichi anche ai magistrati che, esercitando il  diritto
di elettorato passivo, sono collocati fuori del ruolo organico  della
magistratura perche' in aspettativa,  come  afferma  testualmente  la
sezione disciplinare rimettente, «per motivi elettorali».
    In tal modo, il giudice a quo  costruisce  la  richiesta  di  una
declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  limitata   ad   una
specifica  ipotesi,  quella  del  magistrato  che,   avendo   chiesto
l'aspettativa, partecipa ad elezioni o e' eletto. Ma, in verita',  la
questione riguarda, piu' in generale, l'assunzione, in  posizione  di
fuori ruolo, anche di incarichi, pur non elettivi, di natura politica
(ministro  nel  Governo  della  Repubblica,  assessore  in  esecutivi
regionali o locali).
    E' gia' stato affermato dalla giurisprudenza di questa Corte  che
la disposizione censurata si riferisce legittimamente  ai  magistrati
collocati fuori ruolo per l'esercizio di un compito di natura tecnica
(sentenza n. 224 del 2009), espressione con la quale ci si  riferisce
ai magistrati non gia'  in  aspettativa  per  esercitare  il  diritto
fondamentale di elettorato passivo o di accesso agli uffici  pubblici
di  natura  politica  (art.  51  Cost.),  ma  fuori  del  ruolo   per
l'esercizio di una funzione o di  un  compito  non  compatibile  (per
ragioni diverse da quelle considerate nel  giudizio  a  quo)  con  il
contemporaneo esercizio delle funzioni giudiziarie.
    Si  tratta  ora  di  comprendere  se,  come  chiede  la   sezione
disciplinare  rimettente,  l'esercizio  del  diritto  di   elettorato
passivo o  l'accesso  ad  un  ufficio  pubblico  di  natura  politica
costituisca una scriminante  rispetto  all'applicazione  del  divieto
disciplinare   in   questione,   e   ne   consegua   l'illegittimita'
costituzionale della disposizione censurata nella parte in  cui  tale
scriminante non riconosca.
    L'art. 3, comma 1,  lettera  h),  del  d.lgs.  n.  109  del  2006
sanziona  innanzitutto  l'iscrizione  del   magistrato   al   partito
politico.  Questa  prima   fattispecie   disciplinarmente   rilevante
costituisce un dato oggettivo rivelatore della stabile e continuativa
adesione  a  un  determinato  partito  politico.   Per   quanto   sia
configurabile un'iscrizione cui non segua una partecipazione  assidua
e costante alla vita di partito, l'iscrizione - del resto normalmente
rinnovata a scadenze periodiche - resta un atto solenne e formale, di
significato  certo,  che  non  a  caso   il   legislatore   affianca,
considerandola equivalente, ad una seconda  fattispecie,  ossia  alla
partecipazione   non   meramente   saltuaria,   ma   sistematica    e
continuativa, alla vita di partito. Aggiungendo  tali  due  aggettivi
alla originaria versione della previsione  di  illecito  disciplinare
(che puniva «l'iscrizione o la partecipazione a  partiti  politici»),
il legislatore (con l'art. 1, comma 3, lettera  d,  numero  2,  della
legge 269 del 2006) ha inteso delimitare  il  disvalore  disciplinare
alle sole ipotesi di un coinvolgimento non gia'  occasionale,  bensi'
rivelatore di uno schieramento stabile ed organico del magistrato con
una delle parti politiche in gioco.
    Questa Corte ritiene che non vi sia alcuna irrazionale discrasia,
in pretesa violazione dell'art.  3  Cost.,  ne'  alcuna  lesione  dei
diritti fondamentali di natura politica di cui agli artt. 2, 18 e  49
Cost., e neppure alcun abuso della  facolta'  che  l'art.  98,  terzo
comma, Cost. demanda al legislatore, nella  circostanza  per  cui  il
divieto in esame si applica anche ai magistrati fuori  ruolo  perche'
collocati in aspettativa per lo svolgimento di un mandato elettivo  o
di un incarico politico.
    Per i magistrati, infatti, un conto e' l'iscrizione o comunque la
partecipazione sistematica e continuativa alla  vita  di  un  partito
politico, che la fattispecie disciplinare vieta, altro  e'  l'accesso
alle cariche elettive e agli uffici pubblici di natura politica  che,
a determinate condizioni (sentenza n. 172 del 1982), la  legislazione
vigente consente loro. Non e' irragionevole, come  opina  la  sezione
disciplinare rimettente, operare una distinzione tra le due  ipotesi,
e percio' considerare non solo lecito, ma  esercizio  di  un  diritto
fondamentale  la  seconda  ipotesi,  mantenendo  al  contempo   quale
illecito disciplinare la prima. Tanto piu' in un  contesto  normativo
che consente al magistrato di tornare alla giurisdizione, in caso  di
mancata  elezione  oppure  al  termine   del   mandato   elettivo   o
dell'incarico politico, va preservato il significato dei principi  di
indipendenza e imparzialita', nonche'  della  loro  apparenza,  quali
requisiti essenziali che caratterizzano la figura del  magistrato  in
ogni aspetto della sua vita pubblica. Di  tali  principi  il  divieto
disciplinare in questione e' saldo presidio, e  come  tale  esso  non
puo' che dirigersi nei confronti di  ogni  magistrato,  in  qualunque
posizione egli si trovi.
    6.-  Tutto  cio'  premesso,  questa  Corte  non  ignora  che   la
rappresentanza  politica,  nella  Costituzione  repubblicana,  e'  in
principio rappresentanza attraverso i partiti politici, i  quali,  ai
sensi dell'art. 49 Cost., sono  le  associazioni  che  consentono  ai
cittadini di concorrere, con metodo democratico, a determinare, anche
attraverso la partecipazione alle  elezioni,  la  politica  nazionale
(sentenza n. 35 del 2017).
    Questa Corte e' altresi' consapevole della circostanza che, anche
a prescindere dalle caratteristiche del sistema elettorale  di  volta
in    volta    rilevante,    nessun     cittadino,     nemmeno     il
cittadino-magistrato, si candida "da solo". E, cosi' come avviene per
la candidatura alle elezioni politiche,  amministrative  od  europee,
anche l'assunzione di  incarichi  negli  organi  esecutivi  di  vario
livello presuppone necessariamente un collegamento del nominato con i
partiti politici.
    Per quanto l'autorevolezza  e  la  notorieta'  di  un  magistrato
possano favorire candidature cosiddette "indipendenti", anche  queste
ultime debbono nondimeno  trovare  spazio  all'interno  di  liste  di
partito, e, ugualmente, le  nomine  di  magistrati  alle  cariche  di
ministro o assessore sono tutt'altro che  estranee  alle  scelte  dei
partiti.
    Parimenti, non sfugge che  l'esercizio  del  mandato  elettivo  o
dell'incarico politico, per chiunque ne sia  investito  all'esito  di
una  campagna  elettorale  o  di  una  nomina,  avviene  abitualmente
all'interno di una dialettica dominata dal confronto  tra  i  partiti
politici, secondo una logica corrispondente  al  complessivo  disegno
costituzionale.
    Pertanto, la stessa iniziale  accettazione  della  candidatura  o
della nomina, l'eventuale partecipazione ad una campagna  elettorale,
ed altre attivita' tipicamente richieste a coloro che concorrono  per
mandati ed incarichi di natura politica, presuppongono  assai  spesso
contatti di varia natura con la vita  dei  partiti  e  dei  movimenti
politici e con le iniziative da questi assunte. E tali contatti, come
e'  ovvio,  proseguono  nel  corso  dell'esercizio  del   mandato   o
dell'incarico.
    Questi doverosi rilievi, tuttavia, non spostano i  termini  della
questione e non depongono per l'accoglimento delle censure  sollevate
dalla  sezione  disciplinare  rimettente.  Al   contrario,   per   il
magistrato, deve restar fermo che il riconoscimento della particolare
natura della competizione e della vita politica, alla  quale  gli  e'
consentito a certe condizioni di partecipare, non puo' tradursi nella
liceita' ne' della  sua  iscrizione,  ne'  della  sua  partecipazione
stabile e continuativa all'attivita' di un determinato  partito,  cui
invece condurrebbe l'accoglimento  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale sollevate.
    Come del resto qualunque cittadino, anche (e a  maggior  ragione)
il magistrato ben puo', ad esempio, svolgere una campagna  elettorale
o compiere atti tipici del suo mandato  od  incarico  politico  senza
necessariamente assumere, al contempo, tutti quei vincoli (a  partire
dallo  stabile  schieramento   che   l'iscrizione   testimonia)   che
normalmente discendono dalla partecipazione organica alla vita di  un
partito politico. Da questo punto di vista, non e' senza  significato
che il divieto disciplinare in questione sia inserito all'interno  di
una disposizione che attrae nell'area del disciplinarmente  rilevante
altri comportamenti  (come  il  «coinvolgimento  nelle  attivita'  di
soggetti operanti nel settore economico  o  finanziario»)  che,  allo
stesso  modo  della  fattispecie  qui  in  esame,  possono  implicare
l'insorgere di legami suscettibili  di  condizionare  (anche  per  il
futuro) l'esercizio delle funzioni, oltre che di offuscare l'immagine
del magistrato presso l'opinione pubblica.
    Ma vi e' un'ulteriore ragione che  depone  per  l'inesistenza  di
contraddizione tra l'essere ammessi a partecipare alla vita  politica
attiva in una realta' dominata dalla competizione  partitica,  da  un
lato,  e  l'essere  soggetti  al  divieto   disciplinare   censurato,
dall'altro.
    Emerge da quanto fin qui chiarito che, per  tutti  i  magistrati,
non ogni partecipazione a manifestazioni politiche o ad iniziative di
partito assume  significato  disciplinarmente  rilevante.  Lo  stesso
tenore  della  disposizione   contestata   si   sottrae   a   censure
d'illegittimita' costituzionale proprio perche' consente  al  giudice
disciplinare le  ragionevoli  distinzioni  richieste  dalla  varieta'
delle situazioni che  la  vita  politico-istituzionale  presenta.  In
disparte l'iscrizione al partito politico - fattispecie  rivelatrice,
come si  e'  detto,  di  una  stabile  e  continuativa  adesione  del
magistrato a un determinato  partito  politico  e  il  cui  oggettivo
disvalore non e' suscettibile di attenuazioni -  la  valutazione  sui
requisiti di sistematicita' e  continuativita'  della  partecipazione
del magistrato alla vita  di  un  partito  esclude  ogni  automatismo
sanzionatorio permettendo,  al  contrario,  soluzioni  adeguate  alle
peculiarita' dei singoli casi.
    E se tale rilievo vale, in generale, per tutti i magistrati, vale
particolarmente per coloro, tra  di  essi,  che  siano  collocati  in
aspettativa per soddisfare i diritti fondamentali garantiti dall'art.
51 Cost.
    Resta ovviamente rimesso al prudente  apprezzamento  del  giudice
disciplinare stabilire in concreto  se  la  condotta  del  magistrato
fuori ruolo possa legittimamente incontrare la vita di un partito,  o
se costituisca invece illecito  disciplinare,  meritando  appropriata
sanzione.

     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 23 febbraio
2006, n. 109, recante «Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei
magistrati, delle relative sanzioni e della  procedura  per  la  loro
applicabilita',  nonche'  modifica  della  disciplina  in   tema   di
incompatibilita', dispensa dal servizio e  trasferimento  di  ufficio
dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera  f),  della
legge 25 luglio 2005, n. 150»,  nel  testo  sostituito  dall'art.  1,
comma 3, lettera d), numero 2), della legge 24 ottobre 2006,  n.  269
(Sospensione dell'efficacia nonche' modifiche di disposizioni in tema
di ordinamento giudiziario), sollevate, in riferimento agli artt.  2,
3, 18, 49 e 98 della Costituzione,  dalla  sezione  disciplinare  del
Consiglio superiore della magistratura, con l'ordinanza  indicata  in
epigrafe.
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2018.

                                F.to:
                    Giorgio LATTANZI, Presidente
                      Nicolo' ZANON, Redattore
                    Filomena PERRONE, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2018.

                           Il Cancelliere
                       F.to: Filomena PERRONE


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