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martedì 11 dicembre 2018

Corte Costituzionale: S.216/2018 del 25/10/2018 Camera di Consiglio del 24/10/2018, Presidente LATTANZI, Redattore AMOROSO Norme impugnate: Art. 1 del decreto legislativo 15/01/2016, n. 7. Oggetto: Reati e pene - Abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili - Reato di cui all'art. 612 codice penale - Mancata previsione, per i casi in cui venga irrogata la sola sanzione pecuniaria, della possibilità di estinguere il procedimento mediante il pagamento di un importo pari alla metà della stessa. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ord. 183/2017

Sentenza 216/2018 (ECLI:IT:COST:2018:216)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: LATTANZI - Redattore: AMOROSO
Camera di Consiglio del 24/10/2018;    Decisione  del 25/10/2018
Deposito del 26/11/2018;   Pubblicazione in G. U. 28/11/2018  n. 47
Norme impugnate: Art. 1 del decreto legislativo 15/01/2016, n. 7.
Massime:
Atti decisi: ord. 183/2017
SENTENZA N. 216

ANNO 2018


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promosso dal Tribunale ordinario di Pistoia, nel procedimento penale a carico di F. P. e A. V., con ordinanza dell’11 luglio 2017, iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso.


Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza dell’11 luglio 2017, il Tribunale ordinario di Pistoia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 25 e 70 della Costituzione, dell’art. 1 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), il quale stabilisce che «[s]ono abrogati i seguenti articoli del codice penale: a) 485; b) 486; c) 594; d) 627; e) 647».

Il rimettente – premesso di dover decidere nell’ambito di un giudizio penale nei confronti di due imputati chiamati a rispondere dei reati di ingiuria e minaccia previsti, rispettivamente, dagli artt. 594 e 612 del codice penale, e osservato che la norma censurata prevede la depenalizzazione solo del primo – assume che la disposizione censurata contrasterebbe, in primo luogo, con il principio di eguaglianza, disciplinando in modo diverso due situazioni omogenee e, in secondo luogo, con gli artt. 25 e 70 Cost. sotto il profilo dell’eccesso di delega in minus, in quanto: a) essa ha abrogato solo il reato di ingiuria e non quello di minaccia, per entrambi i quali è prevista la sola sanzione pecuniaria, sebbene la legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), all’art. 2, comma 2, lettera a), preveda, tra i criteri direttivi, quello di «trasformare in illeciti amministrativi tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda» (ad eccezione di quelli relativi alle materie elencate dalla stessa legge, tra le quali non rientrano le fattispecie in esame); b) «[s]olo il legislatore (Parlamento) può decidere cosa e come si punisce, vedi sentenza Corte costituzionale n. 282 del 1990, quindi ove al Governo era imposto di prevedere un certo trattamento sanzionatorio e certe misure deflattive per i reati puniti solo con pena pecuniaria ciò doveva essere per tutti, non per alcuni sì e per altri no come nel caso in specie»; c) in relazione al reato di minaccia non è stata neppure prevista la possibilità di estinguere il procedimento mediante il pagamento di un importo pari alla metà della sanzione pecuniaria, secondo quanto stabilito dall’ulteriore criterio di delega indicato dall’art. 2, comma 2, lettera g), della legge n. 67 del 2014.

Quanto alla rilevanza delle questioni, il rimettente evidenzia che, in caso di accoglimento di esse, gli imputati potrebbero beneficiare degli effetti dell’estinzione del reato.

2.– Con atto depositato il 16 gennaio 2018 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.

In punto di ammissibilità, l’interveniente rileva che il giudice a quo si è limitato a denunciare l’illegittimità dell’art. 1 del d.lgs. n. 7 del 2016, non tenendo conto che l’eventuale declaratoria di incostituzionalità di questa disposizione non potrebbe, di per sé, spiegare alcun effetto sul giudizio a quo. E comunque, seppure si volesse attribuire al giudice la volontà di ottenere, tramite una pronuncia additiva, l’abrogazione del reato di minaccia non grave, la questione sarebbe ugualmente inammissibile in ragione dei limiti che questa Corte incontra di fronte alle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore, secondo il principio affermato dall’art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) e confermato da un consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale. Al riguardo, viene ricordata la sentenza n. 236 del 2016, che avrebbe escluso che questa Corte possa pronunciare in ordine a «valutazioni discrezionali di dosimetria sanzionatoria penale, alle quali è unicamente chiamata la rappresentanza politica, attraverso la riserva di legge sancita nell’art. 25 Cost.».

Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato sostiene la non fondatezza della questione osservando che il rimettente ha posto a confronto due reati aventi caratteristiche, elementi costitutivi e oggetto giuridico del tutto disomogenei. Quanto poi alla denunciata mancata attuazione della delega, l’Avvocatura assume che il Governo, in realtà, si è perfettamente attenuto ai principi e ai criteri direttivi indicati nell’art. 2 della legge n. 67 del 2014. Infatti, tale legge ha previsto un duplice intervento: da una parte, la trasformazione in illeciti amministrativi di tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, ad eccezione di alcune materie indicate espressamente; e, dall’altra, l’abrogazione di specifici reati tra i quali è ricompreso il reato di ingiuria, ma non quello di minaccia. Dunque – conclude l’Avvocatura – la legge delega nulla prevede in ordine alla minaccia non grave, nemmeno con riguardo alla depenalizzazione, trattandosi di una fattispecie che non rientra in nessuna delle categorie per cui la stessa è contemplata.


Considerato in diritto

1.‒ Con ordinanza dell’11 luglio 2017, il Tribunale ordinario di Pistoia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui prevede, al primo comma, l’abrogazione del reato di ingiuria (art. 594 del codice penale) e non anche l’abrogazione o la depenalizzazione di quello di minaccia non grave (art. 612, primo comma, cod. pen.).

Il giudice rimettente assume la possibile violazione del principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione) in quanto, stante l’abrogazione del solo reato di ingiuria, due situazioni omogenee risulterebbero trattate ingiustificatamente in modo diverso.

Inoltre, sarebbero violati anche gli artt. 25 e 70 Cost. sotto il profilo dell’eccesso di delega, in quanto la disposizione censurata ha abrogato solo il reato di ingiuria e non anche quello di minaccia non grave, pur essendo prevista per entrambi la sola sanzione pecuniaria. Infatti, l’art. 2, comma 2, lettera a), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), prevedeva, tra i criteri direttivi, quello di «trasformare in illeciti amministrativi tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda», ad eccezione di quelli relativi alle materie ivi elencate.

Inoltre, il giudice rimettente lamenta che in relazione al reato di minaccia non è stata prevista neanche la possibilità di estinguere il procedimento mediante il pagamento di un importo pari alla metà della sanzione pecuniaria, secondo quanto stabilito dall’ulteriore criterio di delega indicato dall’art. 2, comma 2, lettera g), della legge n. 67 del 2014.

2.‒ Preliminarmente, sotto il profilo dell’ammissibilità delle questioni, va innanzi tutto rilevato che i reati per i quali il tribunale rimettente procede – ingiuria (art. 594 cod. pen.) e minaccia non grave (art. 612, primo comma, cod. pen.) – sono entrambi di competenza (non già del tribunale, bensì) del giudice di pace ex art. 4, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468).

Tuttavia, secondo l’«orientamento di gran lunga maggioritario» della giurisprudenza di legittimità, l’incompetenza del tribunale a conoscere di reati appartenenti alla competenza del giudice di pace deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall’art. 491, comma 1, del codice di procedura penale, richiamato dall’art. 23, comma 2, cod. proc. pen., senza che l’art. 48 del d.lgs. n. 274 del 2000 deroghi al regime della non rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per materia del tribunale a favore del giudice di pace, limitandosi a stabilire che il giudice, qualora debba dichiarla, è tenuto a farlo con sentenza, trasmettendo gli atti al pubblico ministero e non già direttamente al giudice di pace (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 27 marzo 2015-17 giugno 2015, n. 25499; sezione terza penale, sentenza 5 febbraio 2014-26 maggio 2014, n. 21257; sezione quinta penale, sentenza 22 gennaio 2014-8 aprile 2014, n. 15727). Si è, infatti, affermato che la disciplina dettata dall’art. 48 citato deve essere interpretata nel senso che «essa non deroga al regime della non rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per materia del tribunale a favore del giudice di pace, ma stabilisce semplicemente che, qualora il giudice, secondo le regole fissate nel codice di procedura penale, debba dichiarare l’incompetenza per materia a favore del giudice pace, lo fa con sentenza e trasmettendo gli atti al pubblico ministero e non direttamente al giudice di pace»; orientamento questo che è stato confermato anche recentemente (Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 22 maggio 2018-8 agosto 2018, n. 38195). In tal senso si è, quindi, formato il diritto vivente così superandosi una risalente giurisprudenza in senso contrario (Corte di cassazione, sezione terza penale, 2 marzo 2010-1° aprile 2010, n. 12636), che aveva invece ritenuto la portata derogatoria dell’art. 48 citato (così come l’ordinanza n. 144 del 2011 di questa Corte).

Pertanto, sotto questo aspetto, non risultando sollevata nel giudizio a quo alcuna eccezione di incompetenza per materia, le questioni di legittimità costituzionale sono ammissibili essendo non solo plausibile, ma anche conforme al diritto vivente, la competenza ritenuta dal tribunale rimettente; ciò di cui peraltro non dubita l’Avvocatura generale dello Stato.

3.‒ Le questioni stesse sono però inammissibili sotto un diverso profilo.

3.1.‒ Innanzi tutto è inammissibile la questione che ha ad oggetto la mancata abrogazione del reato di minaccia non grave per ingiustificata disciplina differenziata rispetto al reato di ingiuria, che invece è stato abrogato dalla disposizione censurata, residuando solo l’illecito civile.

L’art. 1 del d.lgs. n. 7 del 2016 – oggetto delle censure del giudice rimettente – contempla sì, all’art. 1, comma 1, l’elenco dei reati previsti dal codice penale che sono abrogati, tra cui il reato di ingiuria e non anche quello di minaccia non grave. Ma ciò fa in corretta attuazione della delega recata dall’art. 2, comma 3, lettera a), della legge n. 67 del 2014; delega che appunto contiene, in particolare, il catalogo dei reati previsti dal codice penale dei quali il legislatore delegante ha stabilito l’abrogazione, tra cui il reato di ingiuria, ma non anche quello di minaccia non grave.

Quindi, il trattamento differenziato tra questi due reati è nella legge di delega e non già nella censurata disposizione del decreto legislativo. La scelta di differenziare i due reati (abrogando il primo e lasciando la qualificazione penale quanto al secondo), scelta che il tribunale rimettente ritiene contraria al principio di eguaglianza e di ragionevolezza, sarebbe ascrivibile al legislatore della legge delega – le cui valutazioni di natura politica rientrano nell’«uso del potere discrezionale del Parlamento» ex art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) – e non già al Governo che ha emanato il decreto legislativo.

Il tribunale rimettente invece censura (non già la legge di delega, ma) la disposizione del d.lgs. n. 7 del 2016 ‒ che ha attuato la delega, seppur parzialmente (ma ciò non rileva in questa sede), perché altri sono i reati la cui abrogazione, pur prevista, non è stata disposta – così incorrendo in un’aberratio ictus con conseguente inammissibilità delle questioni sollevate in riferimento a tutti i parametri evocati (ex plurimis, sentenza n. 35 del 2017; ordinanza n. 8 del 2018).

3.2.‒ Parimenti inammissibile, per aberratio ictus, è la questione che ha ad oggetto la mancata depenalizzazione del reato di minaccia non grave (art. 612, primo comma, cod. pen.).

L’art. 1 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), prevede, al comma 1, che non costituiscono reato, e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda; ma precisa, al comma 3, che la disposizione del comma 1 non si applica ai reati previsti dal codice penale.

Quindi, il reato di minaccia non grave non è stato depenalizzato, come correttamente ritiene il tribunale rimettente (in tal senso, da ultimo, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 5 giugno 2018-10 ottobre 2018, n. 45809).

Quest’ultimo lamenta che il legislatore delegato avrebbe dovuto prevedere la depenalizzazione anche di tale reato perché l’art. 2, comma 2, lettere a) e g), della legge n. 67 del 2014 prescriveva, come criterio di delega, la trasformazione in illeciti amministrativi di tutti i reati per i quali fosse prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, quale il reato di minaccia non grave, nonché la possibilità di estinguere il procedimento amministrativo mediante il pagamento, anche rateizzato, di un importo pari alla metà della sanzione pecuniaria. Secondo il tribunale rimettente il Governo, nell’esercitare questa delega, avrebbe dovuto prevedere la trasformazione in illecito amministrativo anche della condotta di minaccia non grave.

Il vizio denunciato dal tribunale starebbe allora nella (asseritamente) difettosa – perché non completa – attuazione della delega, sicché la disposizione che avrebbe dovuto essere censurata era quella del decreto legislativo attuativo della delega e segnatamente l’art. 1, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, che stabilisce che non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni, non previste dal codice penale, per le quali è stabilita la sola pena della multa o dell’ammenda.

Ciò il tribunale non fa perché, anche sotto questo profilo, indirizza le sue censure al coevo d.lgs. n. 7 del 2016 (segnatamente all’art. 1, comma 1) che prevede l’abrogazione di reati e non già la depenalizzazione, oggetto del parallelo d.lgs. n. 8 del 2016.

Sussiste, quindi, aberratio ictus e conseguentemente la questione è inammissibile in riferimento a tutti i parametri, non senza considerare che analoga questione, correttamente sollevata nei confronti dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, in riferimento all’art. 3 Cost., e riguardante la mancata depenalizzazione del reato previsto dall’art. 392 cod. pen., punito anch’esso con la sola pena della multa al pari del reato di minaccia non grave, è stata dichiarata non fondata, in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., da questa Corte (sentenza n. 127 del 2017).


Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione dei reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25 e 70 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Pistoia con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2018.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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