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martedì 26 agosto 2014

Consiglio di Stato: Qualora le vicende che hanno occasionato l'avvio del procedimento disciplinare nei confronti dell'appartenente alla Polizia di Stato, pur già oggetto di esame durante una visita ispettiva effettuata da un Dirigente, si rivelino, poi, oggetto di un procedimento penale caratterizzato da aspetti particolarmente delicati, va considerato pienamente conforme ai normali criteri di prudenza, che l'organo competente all'avvio dell'azione disciplinare non avvii subito questa ma attenda la definizione del procedimento in sede penale.



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Consiglio di Stato
Sez. VI, Sent. n. 5340 del 11 ottobre 2007
Necessità di contestazione e pendenza di procedimento penale
 
D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 103

Qualora le vicende che hanno occasionato l'avvio del procedimento disciplinare nei confronti dell'appartenente alla Polizia di Stato, pur già oggetto di esame durante una visita ispettiva effettuata da un Dirigente, si rivelino, poi, oggetto di un procedimento penale caratterizzato da aspetti particolarmente delicati, va considerato pienamente conforme ai normali criteri di prudenza, che l'organo competente all'avvio dell'azione disciplinare non avvii subito questa ma attenda la definizione del procedimento in sede penale. Ne consegue che appare corretto il comportamento degli organi locali della Polizia che, una volta conosciuto l'esito della vicenda penale, abbiano informato il Capo della Polizia degli esiti, quest'ultimo affidando, poi, al funzionario istruttore, in un termine congruo, la valutazione delle risultanze della vicenda penale, nonché gli atti in proprio possesso, al fine di decidere se avviare o meno l'azione disciplinare. L'avvio, quindi, dell'azione disciplinare a meno di tre mesi dal momento in cui il Capo della Polizia ha avuto la suddetta comunicazione è termine che non appare indice della violazione dei principi normativi a tutela dei quali è stato posto l'art. 103 del D.P.R. n. 3/1957, ma di cautela e attenta valutazione e ponderazione preliminare delle risultanze fascicolari.
Sez. VI, Sent. n. 5340 del 11-10-2007 (ud. del 12-06-2007), Ministero dell'Interno c. M.F.U.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N.5340/2007
Reg.Dec.
N. 9315  Reg.Ric.
ANNO   2005
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 9315/2005 proposto dal Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domicilia in Roma, via dei Portoghesi 12,
contro
il sig. @@@@@@@ @@@@@@@ @@@@@@@, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dagli a-
per la riforma
della sentenza del TAR del Lazio, Sezione I ter, 16 maggio 2005, n. 3818;
     visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
     visto l’atto di costituzione in giudizio dell’appellato e la memoria dallo stesso prodotta a sostegno delle proprie difese;
     visti gli atti di causa;
     relatore alla pubblica udienza del 12 giugno 2007, il Consigliere -
     uditi, per le parti, l’avv. - e l’avv. dello Stato -
     Ritenuto e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue:
F A T T O   e   D I R I T T O
     1) - Con la sentenza impugnata il TAR ha riunito e accolto i ricorsi proposti dall’odierno appellato nn. 4423/1999, 6187/2001 e 2885/2002.
     Con il primo di detti ricorsi (n. 4423 del 1999) è stato chiesto l’annullamento del decreto del Capo della Polizia - Direttore generale della Pubblica sicurezza - del 18 gennaio 1999 con il quale era stata sospesa l’inchiesta disciplinare disposta nei confronti del ricorrente, Vice Questore aggiunto della Polizia di Stato, sino a che la competente Autorità Giudiziaria non avesse consentito all’Amministrazione l’accesso a tutti gli atti del procedimento penale instaurato a carico del medesimo in relazione agli stessi comportamenti oggetto d’esame sotto il profilo disciplinare.
     Con il secondo degli originari ricorsi (n. 6187 del 2001) è stato chiesto l’annullamento del decreto del Capo della Polizia - Direttore generale della Pubblica sicurezza - del 14 marzo 2001 con il quale l’inchiesta disciplinare di cui sopra è stata riattivata con assegnazione al funzionario istruttore del termine di 45 giorni previsto dall’art. 19 del D.P.R. n. 737 del 1981.
     Con il terzo dei ricorsi di primo grado (n. 2885 del 2002) è stato, quindi, chiesto l’annullamento del decreto emesso dal Capo della Polizia - Direttore generale della Pubblica sicurezza - in data 12 dicembre 2001 di inflizione al ricorrente della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per la durata di mesi due, a decorrere dal giorno successivo alla notifica del provvedimento, per la violazione di cui all’art. 6, n. 6 del D.P.R. n. 73 del 1981.
     Hanno premesso, in particolare, i primi giudici che il ricorrente, dipendente del Ministero dell’interno con la qualifica di Vice Questore aggiunto, era stato assegnato, in data 2 dicembre 1996, al centro operativo della D.I.A. di Padova; e che, della complessa vicenda in fatto poi verificatasi presso la detta sede operativa in ragione di compiti di istituti del centro e dello stesso ricorrente, occorreva muovere – ai fini del decidere - dall’atto del 4 novembre 1998 con cui il Capo della Polizia aveva disposto l’avvio di un’inchiesta disciplinare a carico del ricorrente stesso, incaricando delle relative incombenze il funzionario istruttore.
     In particolare, ha ricordato il TAR, con foglio di addebiti del 6 novembre 1998 il detto funzionario istruttore comunicava al ricorrente medesimo l’apertura di un procedimento disciplinare nei suoi confronti per il periodo nel quale aveva prestato servizio a Padova, contestando due addebiti specifici; il 27 novembre ed il 7 dicembre 1998 il ricorrente presentava tempestive giustificazioni volte a contestare la fondatezza degli addebiti mossi e la tardività dell’avvio della procedura disciplinare. Sennonché il Capo della Polizia, con nota n. 2.8./98 del 1° dicembre 1998, comunicava all’odierno ricorrente la sospensione dell’inchiesta ex art. 19 del D.P.R. n. 737 del 1991 “sino a quando l’A.G. competente consenta all’Amministrazione l’accesso a tutti gli atti del procedimento penale, finora coperti da segreto istruttorio, instaurato a carico del cennato dipendente”, essendo infatti pendente dinanzi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Padova un procedimento penale per calunnia e diffamazione a carico del ricorrente in ordine a fatti oggetto dell’inchiesta disciplinare ed in ordine al quale il funzionario istruttore aveva rappresentato la necessità della conoscenza dei relativi atti per il proseguimento e la esaustiva conclusione della inchiesta disciplinare.
     Avverso detta nota di sospensione dell’inchiesta disciplinare, osservano i primi giudici, è stato rivolto il primo dei ricorsi, con cui, in sostanza, lamentava il ricorrente che l’Amministrazione avrebbe inteso mantenere artificialmente in vita un procedimento disciplinare tardivamente attivato e soprattutto oramai perento per inutile decorso del termine massimo normativamente previsto per la conclusione dell’inchiesta.
     Successivamente, con atto del 14 marzo 2001, oggetto della seconda impugnativa, l’Amministrazione riattivava il procedimento disciplinare precedentemente sospeso, deducendosi, da parte del ricorrente, la tardività del decreto di riattivazione, nonché l’illegittimità della riapertura dei termini del procedimento disciplinare in precedenza sospeso.
     La riattivazione del procedimento disciplinare traeva origine dall’ordinanza n. 792/00 con la quale il GIP presso il Tribunale di Padova, in data 20 novembre 2000, aveva disposto l’archiviazione del procedimento penale a carico del ricorrente per il reato di diffamazione.
     Da ultimo, ricorda, infine, il TAR, con decreto del dicembre 2001, avversato con il terzo ed ultimo dei ricorsi in esame, veniva inflitta al ricorrente la sanzione della sospensione del servizio per mesi due per atti contrari ai doveri della subordinazione.
     2) – In punto di diritto, i primi giudici hanno ritenuto fondato, innanzitutto, il primo dei ricorsi, rivolto avverso il decreto del Capo della Polizia - Direttore generale della Pubblica sicurezza - del 18 gennaio 1999, con il quale era stata sospesa l’inchiesta disciplinare disposta nei confronti del ricorrente con provvedimento del 4 novembre 1998.
     In particolare, ha rilevato, ancora, il TAR, a procedimento disciplinare avviato l’Amministrazione ha deciso di sospendere l’incolpato in attesa di accedere ad atti di procedimento penale a suo carico in relazione ai medesimi comportamenti oggetto dell’inchiesta disciplinare.
     Ritenuto, preliminarmente, sussistente l’interesse del dipendente a contestare siffatta anomala sospensione dell’inchiesta disciplinare, solo apparentemente non lesiva della sua sfera giuridica (atteso che il procedimento disciplinare è in quella fase ben lungi dal definirsi e non necessariamente peraltro con l’irrogazione di sanzione disciplinare), e tuttavia, effettivamente ed attualmente lesiva della posizione del medesimo, poiché idonea, ove non tempestivamente avversata, a tenere in piedi una procedura in ipotesi illegittima e comunque contraria all’interesse del dipendente alla sollecita definizione della inchiesta disciplinare che lo riguardava, il TAR ha, poi, osservato che tutto il regime dei termini e della tipicità degli atti che segnano e caratterizzano le procedure disciplinari risponde proprio all’esigenza di tutela della sollecita definizione di una vicenda che altrimenti pregiudicherebbe, in danno dell'art. 97 Cost., la certezza delle situazioni e la posizione del dipendente; al riguardo, ha proseguito il TAR, era da osservarsi che le norme che presiedono alla disciplina dei termini perentori del procedimento disciplinare ed alla scansione delle sue fasi sono poste a tutela dei principi di garanzia e certezza della sollecita definizione dei procedimenti disciplinari, nel rispetto del canone di ragionevolezza dei tempi di irrogazione delle sanzioni disciplinari e quindi sono di generale applicazione nel pubblico impiego; e che quanto sopra spiegava anche perché, in sede di impugnativa della detta sospensione, era stata fatta valere, oltre alla questione della illegittimità della sospensione in se considerata, anche quella della illegittimità dell’operato della resistente Amministrazione per tardività della contestazione degli addebiti, questione questa di regola deducibile con l’impugnativa del provvedimento finale, e cioè della sanzione disciplinare (il che comunque era, poi, puntualmente avvenuto in sede di motivi di ricorso di cui al terzo dei ricorsi in esame).
     Risulta allora con sufficiente chiarezza – ad avviso del TAR - la illegittimità dell’operato dell’Amministrazione per violazione dell’art. 19 del D.P.R. n. 737 del 1981 e con esso del principio di imparzialità per come puntualmente dedotto dal ricorrente; la norma citata, infatti, stabilisce che, operata la contestazione degli addebiti, l’istruttoria “dev'essere conclusa entro il termine di quarantacinque giorni, prorogabile una sola volta di quindici giorni a richiesta motivata dell'istruttore”; ebbene, non vi era, nella scansione procedurale prevista dalle norme specifiche di settore, spazio alcuno per l’anomala sospensione del procedimento disposta con l’avversato decreto, peraltro violativa, per quanto sopra considerato in ordine alla tutela dell’esigenza alla sollecita definizione delle procedure disciplinari, del principio di imparzialità dell’azione amministrativa; l’irritualità e la illegittimità della adottata sospensione emergevano, poi, anche dal riscontro del disposto dell’art. 11 del già citato D.P.R. a mente del quale “quando l'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza viene sottoposto, per gli stessi fatti, a procedimento disciplinare ed a procedimento penale, il primo deve essere sospeso fino alla definizione del procedimento penale con sentenza passata in giudicato”; la richiamata norma era, infatti, da interpretarsi nel senso che la sottoposizione ad indagini penali preliminari di un soggetto appartenente ai ruoli della Polizia di Stato non impone all'Amministrazione di sospendere il procedimento disciplinare avviato nei confronti del dipendente o di astenersi dall'attivarlo, costituendo presupposto ostativo alla prosecuzione del detto procedimento solo l'esercizio dell'azione penale, che si ha nel momento in cui il soggetto indagato acquista la veste di imputato; sennonché, qui il procedimento non è stato sospeso per attendere la compiuta definizione di quello penale, bensì per attendere un non meglio precisato accesso agli atti del procedimento penale, che è cosa ben diversa dalla sua definizione.
     Appariva, inoltre, fondato, per i primi giudici, anche l’altro motivo di ricorso con cui si era dedotta la tardività dell’attivazione della procedura disciplinare; e, invero, i fatti contestati al ricorrente risalivano al maggio del 1997, la richiesta di apertura di procedimento disciplinare rivolta al Direttore della D.I.A. era del luglio del 1997, la visita ispettiva effettuata presso il centro operativo della D.I.A. di Padova era del settembre – ottobre del 1997; di contro, la contestazione degli addebiti era del 6 novembre 1998, di epoca, dunque, oggettivamente e senza alcun dubbio “tardiva” oltre ogni logica rispetto a quella di effettiva conoscenza dei fatti e della loro rilevanza disciplinare; pur in assenza dell’indicazione di un termine espresso per potersi operare la contestazione degli addebiti in sede di D.P.R. n. 737 del 1981, è di tutta evidenza che la segnalata fase segue la logica generale della sollecitudine, non rispondendo a canoni di logica e di ragionevolezza il tenere il dipendente, il cui comportamento è oramai noto, indefinitamente soggetto alla possibile attivazione di una procedura disciplinare; inoltre, è principio generale, desumibile dall' art. 103 T.U. 10 gennaio 1957 n. 3, che la contestazione degli addebiti disciplinari debba avvenire «subito» dopo gli opportuni accertamenti preliminari, indicandosi, con l'espressione «subito», una regola di ragionevole prontezza e tempestività nella contestazione, da definirsi caso per caso in relazione alla gravità del fatto ed alla difficoltà e complessità degli accertamenti preliminari.
     La contestazione tardiva degli addebiti viziava, poi, per il TAR, il procedimento disciplinare ed il suo esito, comportando l'illegittimità della sanzione inflitta al dipendente; in altri termini, l’acclarata fondatezza del primo ricorso e comunque la fondatezza del motivo di ricorso successivamente ribadito e relativo alla rilevata tardività dell’attivazione della procedura disciplinare imponevano al Collegio, assorbite le ulteriori e distinte censure pure dedotte, di accogliere tutti e tre i ricorsi in esame e, per l’effetto, di annullare gli atti con gli stessi avversati.
     3) – Per il Ministero appellante la sentenza sarebbe erronea e dovrebbe essere riformata.
     Rileva, in particolare, il patrocinio erariale che non sarebbero condivisibili le argomentazioni del TAR in merito alla tardività dell’azione disciplinare ed alla atipicità del provvedimento di sospensione del procedimento amministrativo.
     Sotto il primo profilo, l’Ufficio competente ad attivare l’attività istruttoria sarebbe venuto a conoscenza dei fatti ritenuti censurabili solo con atto risalente al 14 agosto 1998, mentre il conferimento dell’incarico al funzionario istruttore sarebbe intervenuto poco dopo (4 novembre 1998); sicché il lasso di tempo intercorso tra la conoscenza dei fatti e l’attivazione dell’inchiesta disciplinare, se correlato alla peculiarità e complessità della vicenda, testimonierebbero l’osservanza di quei criteri di ragionevolezza e tempestività che a torto il TAR ha ritenuto violati.
     L’organo competente non sarebbe rimasto affatto inerte avendo, invece, agito in modo tempestivo e congruo, essendo stata, del resto, all’interessato notificata la contestazione degli addebiti subito dopo la nomina del funzionario istruttore; del resto, il legislatore non avrebbe fissato alcun termine perentorio ai fini dell’avvio dell’azione disciplinare, indicando solo una regola di ragionevole prontezza e tempestività che nella specie sarebbe stata pienamente osservata, dovendo, del resto, essere offerta alla P.A., prima di disporre l’inchiesta, attraverso una preliminare ricognizione, di verificare se l’infrazione sia di gravità tale da comportare la possibilità di irrogare sanzioni sospensive o espulsive, tenuto conto della gravità dei fatti; e, nella specie, la complessità e delicatezza della vicenda avrebbero imposto la particolare prudenza usata dall’amministrazione, che, del resto, ha tenuto conto di quanto rilevato dal GIP nel decreto di archiviazione che ha concluso la vicenda.
     Quanto all’altro punto della sentenza, l’operato della P.A. – che ha sospeso l’azione disciplinare, sarebbe stato pienamente legittimo e adottato a tutela dello stesso incolpato, essendosi ritenuto corretto e doveroso non portare a compimento l’inchiesta fino a che non fosse stato possibile acquisire tutti gli atti da parte del magistrato penale; con la conseguenza che, mediante la contestata sospensione procedimentale, sarebbe stato possibile assumere le determinazioni finali in un quadro di completezza istruttoria che, altrimenti, con pregiudizio per lo stesso interessato, non sarebbe stato dato conseguire; è stato, così, anche rispettato il principio di economicità degli atti, essendo stati conservati tutti i passaggi fino a quel momento compiuti, che hanno consentito una celere definizione della vicenda non appena riattivata l’inchiesta amministrativa; il TAR, infine, non avrebbe tenuto debito conto del fatto che l’Amministrazione ha avuto notizia di un procedimento penale nei confronti dell’incolpato e che durante la fase delle indagini preliminari la stessa PA. ha, sì, la facoltà di iniziare e portare a termine l’attività sanzionatoria, ma solo qualora disponga di tutti gli elementi necessari che rendano perseguibile il comportamento del dipendente indipendentemente dall’esito dell’azione penale; sicché sarebbe legittimo l’operato della stessa dal momento che la conoscenza degli atti penali, coperti da segreto istruttorio, era strettamente funzionale al corretto proseguimento ed alla esaustiva conclusione dell’inchiesta disciplinare.
     4) – Resiste l’appellato che insiste, nelle proprie difese, per il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata, facendo valere, all’occorrenza, anche le ulteriori censure di primo grado, assorbite dal TAR e qui ribadite.
     5) – Ritiene il Collegio che siano da condividere le censure formulate dall’appellante; ma che, non di meno, l’originario ricorso debba essere accolto, sebbene per motivi, svolti in primo grado ed ivi assorbiti, diversi da quelli accolti dal TAR.
     In particolare, quanto alla tempestività dell’inizio del procedimento disciplinare, può osservarsi, invero, che l’art. 103 t.u. imp. civ. St. n. 3 del 1957, che prevede che la contestazione degli addebiti avvenga “subito”, deve essere interpretato nel senso che il legislatore non ha inteso vincolare l'amministrazione all'osservanza di un termine fisso, ma ha indicato una regola di ragionevole prontezza e tempestività nella contestazione, da valutarsi caso per caso in relazione alla gravità dei fatti ed alla complessità degli accertamenti preliminari, nonché allo svolgimento effettivo dell'iter procedurale e preordinata ad un equo contemperamento delle esigenze sia dell'amministrazione pubblica di procedere agli accertamenti preliminari dei fatti disciplinari con ponderata valutazione della gravità e complessità dei fatti medesimi, sia della parte privata, onde non siano rese più gravose le modalità della difesa a causa della eccessiva distanza di tempo dal verificarsi dei fatti oggetto di contestazione; non si può legittimamente procedere alla contestazione di addebiti dopo lungo tempo dall'accertamento dei fatti, ove il ritardo non si fondi specificamente sulla particolarità della situazione accertata o sulla complessità delle acquisizioni istruttorie (cfr. tra le tante, Sezione IV, 5 agosto 2003, n. 4535; 14 marzo 2005, n. 1045).
     Ebbene, è vero che, nella specie, le circostanze dedotte a fondamento della contestazione degli addebiti risalivano al 1997 e che in quello stesso anno erano state oggetto di attività ispettiva, mentre la contestazione stessa è del 6 novembre 1998; non di meno, l’Amministrazione ha correttamente inteso attivarsi solo nel momento in cui il GIP del Tribunale di Trieste, con decreto di archiviazione  n. 617/98 RG.GIP e n. 1919/97 RGNR del 22 maggio 1998, ha disposto, su conforme richiesta del P.M., l’archiviazione del procedimento penale instaurato nei confronti di altri soggetti; in tale decreto, invero, erano contenute una serie di considerazioni che involgevano direttamente l’odierno appellato e che l’Autorità di P.S. ha ritenuto che potessero assumere specifica rilevanza ai fini disciplinari.
     In particolare, ricevuta notizia delle determinazioni ora dette, il Direttore della DIA di Padova, con nota del 13 agosto 1998, n. 125/PERS/B1/78, prot. n. 29910/98, ne ha trasmesso copia al Capo della Polizia perché esaminasse, sotto il profilo disciplinare, il comportamento tenuto dall’odierno appellato nell’ambito della vicenda, così come descritto nei detti atti giudiziari.
     Il 4 novembre il Capo della Polizia ha incaricato il funzionario istruttore che, dopo due giorni, ha proceduto alla contestazione degli addebiti.
     Ebbene, deve ritenersi che, nella specie, l’operato dell’amministrazione sia stato conforme al disposto del richiamato art. 103 del t.u. n. 3/1957.
     Sebbene, infatti, le vicende che hanno occasionato l’avvio del procedimento disciplinare siano state esaminate, tra l’altro, in occasione della visita ispettiva effettuata dal Dirigente nell’ottobre del 1997 (come emerge dalla nota del funzionario istruttore in data 1° dicembre 1998, indirizzata al Capo della Polizia), non di meno le stesse erano oggetto di un procedimento penale caratterizzato da aspetti particolarmente delicati (anche in quanto fatti oggetto di una significativa campagna di stampa e di alcune interrogazioni parlamentari); per l’effetto, appare conforme a normali criteri di prudenza che l’organo competente all’avvio dell’azione disciplinare non abbia avviato subito questa; la stessa relazione ispettiva consigliava, al riguardo, di non dare corso immediato all’azione disciplinare, in attesa degli esiti del procedimento penale, mentre consigliava solo l’adozione, nelle more, di talune misure di cautela; la pendenza del procedimento penale giustificava pienamente, del resto, il mancato avvio dell’azione disciplinare medesima fino alla definizione del procedimento stesso; ciò, del resto, in piena conformità con i principi che discendono dal disposto di cui all’art. 11 del DPR 25 ottobre 1981, n. 737, a mente del quale “quando l'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza viene sottoposto, per gli stessi fatti, a procedimento disciplinare ed a procedimento penale, il primo deve essere sospeso fino alla definizione del procedimento penale con sentenza passata in giudicato”; nella specie, la pendenza del procedimento penale per fatti che involgevano, comunque, l’appellato, anche se non nella veste di indagato o di imputato, giustificavano pienamente, nel cennato contesto generale, il mancato avvio dell’azione disciplinare; tanto più ove si consideri che se, nel corso del procedimento instaurato in sede penale, fosse stata riconosciuta la validità dei comportamenti tenuti dall’interessato, non sarebbero neppure sussistiti i presupposti per avviare l’azione disciplinare; e che, per converso, se questa fosse stata avviata, ciò si sarebbe prestato a malevole interpretazioni e, soprattutto, al sospetto di pressioni sullo stesso funzionario volte a condizionarne il comportamento in seno alla vicenda penale stessa.
     Nel momento in cui, quindi, i locali organi della Polizia di Stato hanno conosciuto l’esito della vicenda penale, conclusasi con la detta archiviazione, gli stessi hanno sollecitamente quanto correttamente informato il Capo della Polizia dei relativi esiti; e deve ritenersi che il Capo della Polizia abbia, poi, affidato l’incarico al funzionario istruttore in un termine congruo, tenuto conto sia dei principi giurisprudenziali anzidetti, sia della complessità e delicatezza della vicenda, che hanno prudentemente e non illogicamente indotto gli organi di vertice della Polizia di Stato a valutare con attenzione le risultanze della vicenda penale, nonché gli atti in proprio possesso, al fine di decidere se avviare o meno l’azione disciplinare; questa è stata iniziata dopo meno di tre mesi dal momento in cui il Capo della Polizia ha avuto la cennata comunicazione da parte della DIA di Padova; e un termine siffatto non appare, invero indice della violazione dei cennati principi normativi discendenti dall’art. 103 del t.u. n. 3 del 1957, bensì di cautela e attenta valutazione e ponderazione preliminare delle risultanze fascicolari.
     6) - Quanto, poi, alla disposta sospensione del procedimento disciplinare, essa appare pure conforme alla disciplina di settore e, in particolare, al citato art. 11 del DPR. n. 737 del 1981.
     Giova ricordare, al riguardo, che tale sospensione è correlata ad una nuova vicenda penale che ha fatto seguito alla precedente, in cui l’odierno appellato si è trovato coinvolto, stavolta, in forma diretta; in particolare, la Procura della Repubblica di Padova, a seguito di richieste documentali avanzate – attraverso il funzionario istruttore – dallo stesso originario ricorrente (richieste documentali concernenti, tra l’alto, le dichiarazioni rese nell’ambito del procedimento conclusosi con la predetta archiviazione da parte del GIP di Trieste), ha precisato, in due occasioni, che “presso quest’Ufficio è pendente fascicolo processuale n. 2357/98 R.G. notizie di reato, nei confronti di @@@@@@@ @@@@@@@ e..………in ordine ai medesimi fatti di cui alla nota retroindicata” e che “gli atti richiesti non sono allo stato acquisibili da codesta Autorità, poiché coperti da segreto istruttorio, essendo in corso indagini preliminari a carico dei nominati in oggetto, nell’ambito del fascicolo processuale 2357/98 RG notizie di reato”.
     L’impossibilità di acquisire detti rilevanti atti (richiesti, del resto, dal medesimo incolpato in funzione delle predisposizione delle proprie difese e determinanti, comunque, ai fini della definizione dell’iter disciplinare) ha giustificato l’adozione del provvedimento soprassessorio di cui si discute.
     Tale determinazione appare, peraltro, conforme all’ordinamento di settore.
     Al riguardo è stato ritenuto, dalla Sezione, con decisione dai cui contenuti non vi è ragione di discostarsi (6 ottobre 2005,  n. 5421), che la nozione di “procedimento penale” recepita dall’art. 11 del d.P.R. n. 737/1981 non va ristretta alle sole fasi processuali in cui si determina l’ascrizione della “notitia criminis” ad un soggetto determinato (inizio dell’azione penale in senso formale), ma è comprensivo anche delle precedenti attività istruttorie e di indagine in base alle quali può pervenirsi o all’istanza di archiviazione o alla formale richiesta di rinvio a giudizio per il prosieguo dell’accusa; l’art. 11 del d.P.R. n. 737/1981 enuclea, invero, una norma di garanzia chiamata ad operare in raccordo con l’art. 653 c.p.p. che, nel testo vigente all’epoca di adozione degli atti di cui è controversia, attribuiva alla sentenza penale di assoluzione efficacia di giudicato nel giudizio di responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste e che l’imputato non lo ha commesso. Non ha senso, quindi, distinguere, agli effetti dell’applicazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 737/1981, all’interno del processo penale le fasi procedimentali di istruttoria ed indagine indirizzate verso un soggetto determinato rispetto al momento di inizio formale dell’azione penale, poiché in entrambi i casi ricorre l’ eadem ratio sottesa all’art. 11, che è quella di prevenire antinomie fra gli esiti del procedimento penale e di quello disciplinare e di consentire all’inquisito di avvalersi della pronunzia assolutoria a discarico dell’addebito di trasgressione del codice disciplinare.
     Inoltre – è anche precisato nella decisione ora detta - stabilisce l’art. 61 c.p.p. che “i diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari. Alla stessa persona si estende ogni altra disposizione relativa all’imputato, salvo sia diversamente stabilito”; ebbene, dalla su riferita disposizione si ricava un principio di carattere ordinamentale che parifica i diritti e le garanzie dell’inquisito quale sia la fase del procedimento penale in cui esso sia coinvolto; detto principio esplica, quindi, effetto anche in ordine al diritto dell’indagato di veder subordinata, secondo quanto stabilito dall’art. 653 c.p.p., la definizione del giudizio disciplinare all’esito del giudizio penale, per ciò che attiene all’insussistenza del fatto addebitato ed alla mancata commissione dello stesso.
     Da tanto consegue che correttamente, come dedotto dall’appellante, l’Amministrazione ha sospeso, nell’interesse stesso dell’incolpato - richiedente, tra l’altro, gli atti stessi di cui si discute -  il procedimento disciplinare avviato onde attendere l’esito del procedimento penale ed evitare che, nelle more di questo, potesse essere assunta, in sede disciplinare, una determinazione non conforme a quanto emergente dal procedimento penale medesimo.
     7) – La fondatezza dei motivi d’appello (con la conseguente riforma della sentenza appellata) induce, naturalmente, all’esame delle ulteriori censure svolte in primo grado, assorbite dal TAR e qui integralmente riproposte dall’appellato.
     Con la prima di tali censure (svolta con il primo degli originari ricorsi) viene denunciata – sotto altro profilo - la violazione dell’art. 19 del DPR n. 737/1981, in base al quale l’inchiesta dev’essere conclusa entro il termine di quarantacinque giorni, prorogabile una sola volta di quindici giorni a richiesta motivata dell’istruttore; l’inchiesta è stata iniziata in data 4 novembre 1998, onde avrebbe dovuto essere conclusa entro il termine del 19 dicembre 1998, prorogabile – se vi fosse stata tempestiva richiesta – sino al 3 gennaio 1999; di qui, da un lato, la procedura disciplinare dovrebbe ritenersi perenta per violazione dei termini massimi previsti dalla legge; dall’altro lato, il provvedimento di sospensione dell’inchiesta stessa, oltre che illegittimo, sarebbe, a sua volta, tardivo, giacché è stato notificato solo in data 18 gennaio 1999, quando il termine massimo per la chiusura dell’inchiesta si sarebbe ormai esaurito; ciò tanto più che la rappresentazione della pretesa causa sospensiva risaliva alla nota del dott. Di Guida del 1° dicembre 1998, ben precedente al termine massimo di chiusura dell’inchiesta.
     La censura è infondata.
     È vero che il termine di cui all’art. 19, settimo comma, del DPR n. 737 del 1981 è un termine perentorio, come si desume, tra l’altro, dalla previsione della possibilità di proroga limitata ad una sola volta, per un periodo di 15 giorni, e subordinata alla necessità di una richiesta motivata del funzionario istruttore (cfr. la decisione della Sezione 16 settembre 2005, n. 4785); non di meno, il termine di quarantacinque giorni di cui sopra è riferito alle conclusioni dell’inchiesta affidata al funzionario istruttore e, precisamente, alla trasmissione della sua relazione “all’autorità che ha disposto l’inchiesta”, giusta il terzultimo comma  dell’art. 19 cit. (cfr. la decisione della Sezione IV n. 4464 del 15 giugno 2004); e che lo stesso risulta nella specie pienamente rispettato, il funzionario istruttore avendo trasmesso il 2 dicembre 1998 la propria relazione al Capo della Polizia; relazione alla quale è seguito il legittimo provvedimento soprassessorio di cui si è detto.
     8) - Con il secondo degli originari ricorsi ha dedotto il ricorrente (con censura reiterata in sede di memoria difensiva d’appello) che, anche a voler ritenere che la sospensione del procedimento disciplinare fosse stata legittimamente disposta in data 18 gennaio 1999, non di meno la riapertura del procedimento sarebbe stata tardiva, in quanto il nuovo provvedimento di archiviazione (nella specie involgente direttamente la persona del ricorrente stesso) è del 18 novembre 2000, mentre il provvedimento del Capo della Polizia di riapertura dell’inchiesta  è del 14 marzo 2001.
     Tale censura è pure priva di consistenza.
     Anche in questo caso vale, infatti, quanto sopra rilevato con riguardo all’operatività del disposto di cui all’art. 103 del t.u. n. 3 del 1957 (il tempo trascorso tra la data di adozione del decreto di archiviazione e quella di riapertura dell’azione disciplinare non appare, invero, sempre tenuto conto della estrema complessità e delicatezza della vicenda, tale da far ritenere violati i principi di celerità contenuti nella norma anzidetta); con l’aggiunta che l’interessato non ha fornito indicazione alcuna in ordine al momento in cui il decreto di archiviazione stesso è stato materialmente portato a conoscenza degli organi della Polizia di Stato; momento a partire dal quale poteva essere riavviato il procedimento disciplinare sospeso e che era onere dell’interessato indicare ai fini di un concreto apprezzamento circa la reale consistenza della censura in questione.
     9) - Secondo l’originario ricorrente non vi sarebbe, comunque, dubbio che con la riapertura del procedimento disciplinare non avrebbe potuto accordarsi un nuovo termine intero per la durata complessiva massima dell’inchiesta, sicché illegittimamente sarebbe stato assegnato al funzionario istruttore un nuovo termine di quarantacinque giorni per concludere l’inchiesta stessa, senza ad esso sottrarre il periodo di giorni venticinque già utilizzato in precedenza dall’autorità procedente.
     Il motivo è fondato in quanto, dopo che è stata disposta la riapertura dell’inchiesta, il funzionario istruttore deve provvedere a concluderla entro e non oltre il termine di legge assegnatogli - della cui perentorietà si è detto - comprendente, peraltro, anche il periodo di tempo già utilizzato prima della disposta sospensione.
     Ciò anche ad evitare che ripetute sospensioni e riprese procedurali possano diluire irragionevolmente e rendere, tra l’altro, del tutto incerto, il termine stesso assegnato per la conclusione dell’istruttoria, potendosi, altrimenti, risolvere il comportamento della P.A., in un atteggiamento meramente dilatorio e manifestamente elusivo del termine stesso.
     Non a caso, del resto, il legislatore parla di sospensione e non di interruzione del procedimento disciplinare; con la conseguenza che, alla sua ripresa, non può non tenersi conto del periodo di tempo già in precedenza utilizzato, da sommare a quello residuo entro il quale l’attività istruttoria deve concludersi.
     Nella specie, prima di sospendere il procedimento era già stato consumato, ai fini dell’attività istruttoria, un periodo pari a giorni 25 (decorrente dal momento dell’apertura dell’istruttoria – 6 novembre 1998 – a quello di inoltro della relazione, contenente la richiesta di sospensione del procedimento, inviato dal funzionario istruttore al Capo della Polizia), con la conseguenza che il procedimento stesso avrebbe dovuto essere ultimato nel termine di ulteriori giorni venti dalla sua riapertura, con possibilità di richiesta di proroga di 15 giorni aggiuntivi; proroga che, nella specie, non risulta essere stata neppure richiesta.
     Viceversa, l’istruttoria è stata riaperta con decreto del Capo della Polizia in data 14 marzo 2001, seguito dalla comunicazione all’interessato della riapertura stessa da parte del funzionario istruttore (nota del 21 marzo 2001) e ultimata solo il 2 maggio 2001; mentre avrebbe dovuto essere ultimata entro il 3 aprile (o il 18 aprile in caso di applicabilità della proroga di giorni 15) prendendo a riferimento la predetta data del decreto 14 marzo 2001, o, a tutto concedere, una settimana dopo ove si voglia prendere a riferimento la predetta nota del funzionario istruttore diretta all’incolpato.
     Né – è da notarsi infine - il ritardo nella conclusione dell’iter istruttorio può, in qualche misura, essere addebitato all’incolpato, dal momento che il medesimo, portato a conoscenza della ripresa procedimentale, ha tempestivamente quanto sollecitamente inviato al  funzionario istruttore le proprie difese scritte.
     In ogni caso, il termine di legge risulta, quindi, violato; donde la fondatezza della censura in esame che porta, in via consequenziale e derivata, all’illegittimità del provvedimento sanzionatorio impugnato.
     10) – Appare, peraltro, fondata anche la doglianza che contesta la legittimità degli apprezzamenti in concreto operati dall’amministrazione.
     Questa, infatti, nell’operare le valutazioni che conducono alla comminazione della sanzione disciplinare, gode di ampia discrezionalità; non di meno, le determinazioni assunte non sono sottratte – sotto il profilo sintomatico dell’eccesso di potere - al vaglio di ragionevolezza e coerenza logica da parte del giudice amministrativo.
     Sennonché, come dedotto dall’originario ricorrente e odierno appellato, il comportamento dal medesimo tenuto nella complessa vicenda in esame non è stato ritenuto connotato da alcun elemento di rilevanza penale; se il GIP di Trieste (nella richiesta di archiviazione dal medesimo formulata) aveva espresso apprezzamenti critici (poi ripresi e trascritti dalla Commissione di disciplina, ma non aventi, appunto, rilievo penale) nei confronti dell’interessato in merito alle registrazioni di suoi colloqui telefonici con due altri ufficiali di Polizia, non di meno, sempre con riguardo all’operato del dott. @@@@@@@, la Corte d’Assise di Venezia ha, successivamente (con sentenza n. 3/97, depositata il 22 gennaio 1998, relativa al processo per il delitto che aveva occasionato le iniziative assunte dall’originario ricorrente), ritenuto che la versione dei fatti offerta dal predetto poteva apparire, sul piano logico, credibile; e il GIP di Padova, con decreto di archiviazione in data 20 novembre 2000 (reso in sede di giudizio per calunnia intentato nei confronti dell’odierno appellato da parte di uno dei due ufficiali di Polizia la cui telefonata con il dott. @@@@@@@ questi  aveva, appunto, registrato) ha ritenuto che la registrazione della telefonata e la sua trasmissione all’A.G., per “provare l’avvenuta conversazione ed il tenore della stessa”, fossero legittime.
     Ora, in presenza delle più recenti valutazioni dell’Autorità Giudiziaria circa l’operato dell’odierno appellato, non poteva, la Commissione di disciplina, ai fini dell’incolpazione, limitarsi a dare significativa rilevanza alle affermazioni fatte dal GIP di Trieste e non tenere, invece, in alcun conto le più recenti pronunce della Corte d’Assise Veneziana e del GIP di Padova, favorevoli al medesimo incolpato.
     In particolare, se i due organi giudiziari da ultimo detti hanno considerato non censurabile l’operato dell’originario ricorrente e, anzi hanno ritenuto che legittimamente il medesimo avesse operato le contestate registrazioni per avvalorare (all’occorrenza) quanto indicato nel rapporto-denuncia dal medesimo trasmesso all’Autorità Giudiziaria in merito alle presunte notizie di reato che aveva ritenuto di avere acquisito nel corso dei detti colloqui telefonici (che le avrebbero confermate), sarebbe stato preciso onere del medesimo organo disciplinare valutare espressamente anche tali apprezzamenti dell’Autorità giudiziaria – di contenuto oggettivamente non conforme alle valutazioni fatte dal GIP triestino – per verificare se gli stessi potessero o meno incidere sull’esito del giudizio disciplinare; donde il difetto di istruttoria e di motivazione che vizia, per questa parte, l’atto sanzionatorio impugnato.
     Atto sanzionatorio che poggia, invero, sulle seguenti basi accusatorie (da riguardarsi, peraltro, nella loro globalità, dal momento che la sanzione inflitta appare manifestamente il frutto di considerazioni correlate al cumulo delle imputazioni che seguono, tenuto conto dello stretto legame consequenziale che le unisce; sicché il venire meno di una di esse non può che travolgere l’impianto motivazionale della sanzione e, quindi, la sanzione stessa):
      - non avere, l’incolpato, osservato i doveri di subordinazione (avendo inoltrato autonomamente all’A.G. il documento presentato al superiore gerarchico);
      - l’avere tenuto, l’incolpato, un comportamento assolutamente censurabile registrando, all’insaputa dell’interessato, una conversazione avuta col superiore gerarchico al solo fine di carpirgli eventuali ammissioni che avvalorassero quanto aveva affermato nella relazione del 24 aprile 1997 ed acquisire elementi a sostegno della sua tesi concernente la falsità della relazione ufficiale;
      - che non può trovare accoglimento la giustificazione addotta circa l’impossibilità da parte sua di effettuare preliminari accertamenti in ordine a quanto riferitogli e che era suo dovere riferire, invece, subito all’A.G. perché altro ufficiale di Polizia gliene aveva, in precedenza, parlato.
     Ebbene, se anche dovesse rimanere fermo il primo di detti capi, non di meno il provvedimento impugnato appare destinato ad essere travolto in relazione all’accoglimento della censura come sopra appena ritenuta fondata e meritevole di accoglimento; accoglimento che travolge, evidentemente, il secondo dei capi ora detti e, con esso, tutto l’impianto dell’incolpazione, basata sulla censurabilità di comportamenti che in sede penale sono stati ritenuti, invece, come si è visto, legittimi da parte delle Autorità anzidette, senza che la P.A. abbia avvertito l’esigenza di comparare dette conclusioni con quelle, di segno parzialmente opposto, desumibili da un precedente atto giudiziario.
     Né si dica che la P.A. sarebbe stata libera di valutare – ai fini disciplinari - i comportamenti dell’incolpato indipendentemente dalle valutazioni di essi fatte da parte del giudice penale; al contrario, essa, nella specie, ha fondato il proprio apprezzamento negativo circa il comportamento tenuto dall’incolpato facendo essenziale riferimento proprio ai rilievi formulati dal GIP di Trieste; pertanto, non avrebbe potuto esimersi, agli stessi fini, dal prendere in espressa considerazione, ai fini della formulazione del giudizio definitivo, anche le valutazioni espresse dagli altri due organi giudiziari di cui si è detto, stante, altrimenti, la contraddittorietà del suo operato.
     11) – Per i motivi che precedono il presente appello va respinto, con la conferma dell’accoglimento, pur con differente motivazione, del ricorso di primo grado.
P.Q.M.
     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione sesta, respinge l’appello in epigrafe, confermando, con diversa motivazione, l’accoglimento del ricorso di primo grado.
     Spese del grado compensate.
     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 12 giugno 2007 con l’intervento dei sigg.ri:

-

 
Presidente
-
Consigliere       Segretario
-

 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
 
il....11/10/2007
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
-
 
CONSIGLIO DI STATO
In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta)
 
Addì...................................copia conforme alla presente è stata trasmessa
 
al Ministero..............................................................................................
 
a norma dell'art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642
 
                                    Il Direttore della Segreteria


N.R.G. 9315/2005


FF

  

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