(Sezione lavoro, sentenza n. 29480/08; depositata il 17 dicembre) |
Cass. civ. Sez. lavoro, 17-12-2008, n. 29480
Svolgimento del processo
Con
sentenza del 30 novembre 2005 la Corte d'appello di Roma confermava la
decisione emessa dal Tribunale nella parte contenente l'accertamento
della legittimità del licenziamento intimato dalla s.p.a. Telecom Italia
al dipendente D.A., e la riformava accogliendo la domanda di condanna
al pagamento dell'indennità di mancato preavviso gli accessori di cui all'art. 429 c.p.c.,
Quanto alla legittimità del licenziamento, la Corte osservava come non
risultassero controversi i fatti addebitati al D., il quale,
contravvenendo ad un impegno sottoscritto il 22 settembre 1999, aveva
fra il 30 novembre 1999 ed il 31 ottobre 2000 inviato, con l'apparecchio
telefonico di servizio ed anche fuori dell'orario di lavoro 13.269;
brevi messaggi (SMS) per un importo complessivo di L. 3.291.840.
Quanto
alla legittimità del procedimento disciplinare, la Corte d'appello
notava che dalle testimonianze raccolte risultava essere stato
regolarmente affisso il codice disciplinare ed aggiungeva che in ogni
caso il grave danno arrecato rendeva sanzionarle il prolungato
comportamento lesivo della disciplina d'impresa imposta dall'art. 2106 c.c..
Nè
era stato violato il principio di immediatezza della contestazione
giacchè il periodo trascorso fra il 31 ottobre 2000 ed il febbraio 2001,
tempo della contestazione dell'addebito, era servito al controllo
puntuale delle migliaia di messaggi inviati nell'arco di quasi un anno.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione il D. mentre la s.p.a.
Telecom Italia resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Col
primo motivo il ricorrente lamenta l'omessa pronuncia, da parte della
Corte d'appello, su "un aspetto determinante" del suo primo motivo di
gravame, vale a dire sul fatto che il comportamento indisciplinato in
questione era colpito con una sanzione soltanto conservativa dal
contratto collettivo per il 1996 - 1999, applicabile fino al 30
settembre 2000, e col licenziamento solo dal contratto collettivo
successivo; ne derivava l'illegittimità del licenziamento, inflitto
anche per comportamento precedente il 30 settembre 2000 e in definitiva
sproporzionato.
Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente per cassazione, il quale invocando l'art. 112 c.p.c.,
denunci l'omessa pronuncia su una questione di fatto e/o di diritto da
lui ritualmente prospettata, ha l'onere non solo di indicare l'atto
processuale con cui egli prospettò la questione ma anche di precisarne
il contenuto ai sensi dell'art. 366 c.p.c., nn 3 e 4, e così,
se egli lamenti l'omesso esame di clausole contrattuali, di riprodurle,
in modo che la Corte possa controllare direttamente rilevanza e
fondatezza della doglianza. Non essendosi il ricorrente attenuto a
questo principio, il motivo di ricorso non può essere esaminato.
Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7,
ed in particolare del principio di immediatezza della contestazione
disciplinare, avvenuta ad alcuni mesi di distanza dall'ultimo fatto
contestato "senza uno specifico motivo obiettivamente valido, da
accertare e valutare rigorosamente".
Il motivo non è fondato.
L'invocata L. n. 300 del 1970, art. 7,
detta alcune disposizioni procedimentali per l'irrogazione di sanzioni
disciplinari al lavoratore subordinato, la quale non può avvenire senza
previa contestazione dell'addebito ed audizione e difesa (comma 2) con
eventuale assistenza di un rappresentante sindacale (comma 3). In ogni
caso i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non
possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla
contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa, (comma 5).
Benchè
questo art. 7, non prescriva espressamente l'immediatezza della
contestazione, ossia la sua formulazione subito dopo l'accertamento del
fatto illecito, questa Corte ha da tempo ravvisato la corrispondente
regola sulla base di interpretazione non letterale ma sistematica. Nel
caso in cui si tratti di licenziamento per giusta causa soggettiva,
ossia senza necessità di preavviso, la necessità di una "causa che non
consenta la prosecuzione anche provvisoria" del rapporto di lavoro,
richiesta dall'art. 2119 c.c., comma 1, può fondatamente ed in
concreto ritenersi insussistente qualora il datore di lavoro non abbia
osservato la regola qui in questione.
Nel caso di specie, tuttavia, il licenziamento cit. ex art. 2119 c.c.,
è stato escluso dalla Corte d'appello e sul punto la sentenza non è
stata impugnata. Quanto al licenziamento per giustificato motivo (L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3),
la regola dell'immediatezza della contestazione è fondata anzitutto
sulle esigenze difensive del lavoratore, prima nel procedimento
disciplinare di cui al cit. art. 7, e poi nell'eventuale procedimento
giudiziario, le quali vengono frustrate dall'ingiustificato indugio del
datore di lavoro nella comunicazione dell'addebito (Cass. 24 giugno 1995
n. 7178, 13 giugno 2006 n. 13621).
Poichè
l'incolpazione ritardata, siccome pregiudizievole al diritto
dell'incolpato a difendersi, si traduce nell'illegittimità del
conseguente licenziamento, l'incolpazione tempestiva è elemento
costitutivo del diritto di licenziare (Cass. 6 settembre 2006 n. 19159,
15 giugno 2006 n. 111000, 20 giugno 2006 n. 14113) e ciò esclude che sul
lavoratore gravi l'onere di provare lo specifico pregiudizio difensivo e
comporta al contrario che questo ben possa essere ravvisato dal giudice
attraverso l'officioso e prudente apprezzamento delle circostanze.
Infine
la contestazione formulata a notevole distanza di tempo dal fatto
addebitato può fondare la presunzione di mancanza di concreto interesse
del datore di lavoro all'esercizio del potere di recesso (Cass. 23
giugno 1999 n. 6408) o, e in altre parole, di pretestuosità del motivo
addotto. Questa ragione giustificativa della regola di immediatezza
della contestazione è pressochè coincidente con quella che connette
l'onere di tempestività al principio di buona fede oggettiva e più
specificamente al dovere di non vanificare la consolidata aspettativa,
generata nel lavoratore, di rinuncia all'esercizio del potere
disciplinare. Si tratta di una sorta di decadenza dal potere (nel
sistema tedesco: Verwirkung), derivante dalla violazione del più
generale divieto di venire contra factum proprium (vedi Cass. 10
novembre 1997 n. 11095).
In ogni caso la
regola in discorso dev'essere intesa in senso relativo ossia tenendo
conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il
definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati, soprattutto
quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti
che, convergendo a comporre un'unica condotta, esigono una valutazione
unitaria: in tal caso l'intimazione del licenziamento può seguire
l'ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale dai
fatti precedenti (Cass. 1 aprile 2000 n. 3948, 6 settembre 2007 n.
18711, 20 ottobre 2007 n. 22066, con riferimento all'incolpazione per
reiterato uso del telefono aziendale per fini personali, 1 gennaio 2008
n. 282, 27 marzo 2008 n. 7983).
Da aggiungere
che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e
responsabile valutazione dei fatti può e deve precedere la contestazione
anche nell'interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente
colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una
sufficiente certezza da parte del datore di lavoro (Cass. 11 gennaio
2006 n. 241, 18 gennaio 2007 n. 1101).
Nel
caso di specie la Corte d'appello ha ritenuto che la necessità di
controllare i più di tredicimila messaggi telefonici non solo nella
riferibilità all'attuale ricorrente ma anche nell'estraneità ai motivi
di servizio (parte di essi erano stati trasmessi durante l'orario di
lavoro) giustificasse la contestazione dell'addebito a distanza circa
quattro mesi (31 ottobre 2000 - febbraio 2001) dall'ultimo fatto
addebitato, e tale plausibile valutazione non è censurabile nel giudizio
di legittimità.
Le questioni sollevate dal
ricorrente in memoria, e relative a pretese disparità di trattamento fra
lavoratori o alla rilevanza penalistica della vicenda in questione, non
possono essere esaminate perchè estranee ai motivi di ricorso nonchè
introduttive di fatti non accertati nel giudizio di merito.
Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali in Euro 24,00, oltre ad Euro millecinquecento per
onorario, più spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 6
novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2008
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