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giovedì 3 settembre 2015

Cassazione: Tenta di sfuggire al controllo delle Forze dell’ordine investe carabiniere - Omicidio -Volontario - Tentativo



Tenta di sfuggire al controllo delle Forze dell’ordine investe carabiniere - Omicidio -Volontario - Tentativo
OMICIDIO E INFANTICIDIO   -   REATO IN GENERE   -   RECIDIVA
Cass. pen. Sez. I, (ud. 16-12-2008) 05-02-2009, n. 5029
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 1 luglio 2008 la Corte di Appello di Roma ha confermato in punto di responsabilità la sentenza 17.1.2008 del Tribunale di Roma che aveva dichiarato D.M.F. colpevole dei reati di tentato omicidio ai danni del Carabiniere P. G. della stazione Roma EUR (capo A), di resistenza nei confronti dei Carabinieri De.Ma.Pa. e P. (capo B) e di lesioni gravi ad aggravate ai danni del P. per opporsi al controllo di polizia ed assicurarsi la impunità (capo C), ma ha ridotto la pena a cinque anni e sei mesi di reclusione per effetto del riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti e sulla recidiva contestata.
Secondo la ricostruzione delle sue sentenze di merito - basata sulle dichiarazioni dei due carabinieri e dei testi C.D. e V.M.C., ritenuti attendibili e concordanti, mentre le altre due testi, B.C. e B.A., reperite dalla difesa tramite annunci sui giornali, erano state disattese anche per alcune imprecisioni sulla toponomastica - il D.M. era stato sorpreso dai carabinieri motociclisti De.Ma. e P. la sera del 18 luglio 2007, mentre, a bordo di una autovettura Mercedes, parcheggiata sul Lungotevere (OMISSIS), stava con il capo chino sul volante.
I due carabinieri, sospettando una attività illecita, avevano deciso di procedere al controllo del D.M., ma costui aveva messo in moto la macchina e con una prima manovra aveva aggirato la moto condotta da De.Ma. e con una seconda aveva investito il P. che, a piedi, si era collocato davanti alla autovettura.
A causa dell'impatto il P., che nel frattempo aveva estratto la pistola, aveva urtato con il casco sul cofano dell'autoveicolo lasciandovi l'impronta e quindi era stato sbalzato all'indietro;
subito dopo era riuscito ad evitare, gettandosi da un lato, di essere nuovamente travolto dalla autovettura dell'imputato, che aveva continuato a procedere senza mutare la traiettoria.
La Corte territoriale, nel rispondere ai motivi di appello dell'imputato, ha rilevato che la azione del D.M. si era snodata in quattro momenti distinti, con alternanza di partenze e di frenate, fino a che costui, resosi conto che l'investimento del carabiniere P. era la più praticabile via di uscita (anche se non l'unica, poichè la teste V. aveva dichiarato che l'imputato avrebbe avuto spazio per fuggire senza investire il Carabiniere) aveva volutamente e consapevolmente investito il Carabiniere non solo per sottrarsi al controllo ma anche per porre in essere una azione punitiva nei confronti del P., che, essendo a piedi, era più facilmente aggredibile.
Ha quindi individuato l'elemento psicologico del tentativo di omicidio nel dolo alternativo, alla stregua del rilievo che per il D.M. era indifferente uccidere ovvero, come era accaduto, cagionare lesioni alla parte lesa.
La Corte territoriale ha poi rigettato la richiesta dell'appellante di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale mediante l'espletamento di perizie balistica, cinematica e medico legale poichè lo svolgimento dei fatti era stato appurato attraverso la prove testimoniale e gli accertamenti obiettivi, la perizia balistica non era utile non essendovi stati feriti e quella medico legale appariva ininfluente in base alla ampia documentazione medica in atti sulle lesioni riportate dalla vittima e sulla durata della malattia.
Ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell'imputato chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata e lamentando violazione di legge e difetto di motivazione con riguardo alla sussistenza del ritenuto dolo omicidiario e della qualificazione dei fatti come tentato omicidio, mentre invece doveva essere ritenuta la ipotesi delle lesioni colpose ovvero dell'eccesso colposo di legittima difesa o quanto meno di lesioni volontarie aggravate in continuazione con la condotta di cui al capo c).
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorrente ha lamentato nell'ambito di un motivo unitario ma diviso in capitoli:
La Corte territoriale si era limitata ad affermare che la condotta tenuta dall'imputato integrava il reato di tentato omicidio, confondendo il dolo omicidiario con i motivi della condotta, diretta alla sottrazione dei controlli di polizia e trascurando che la azione di investimento poteva integrare più reati di crescente gravità a seconda della natura dell'elemento psicologico che la sosteneva e della capacità offensiva impressa all'azione nel suo concreto svilupparsi;
Il giudizio sulla esistenza o meno della idoneità degli atti a concretizzare l'animus necandi del soggetto agente non rappresentava una diagnosi, bensì una prognosi, anche se formulata ex post, ma con riferimento alla situazione come presentatasi al colpevole al momento dell'azione, per cui il giudizio doveva essere fondato su dati esterni di fatto il più possibile obiettivi, quali la natura del mezzo, il numero delle azioni aggressive, la distanza dalla vittima e la direzione e violenza della azione; tutti elementi che, nella specie, avrebbero dovuto condurre ad escludere la sussistenza del dolo omicidiario poichè l'auto non aveva avuto la possibilità di raggiungere una velocità tale da potere cagionare la morte in caso di impatto, il che escludeva pure la prova della idoneità degli atti a provocare la morte della vittima e comunque l'imputato aveva posto in essere condotte significative di una ben diversa volontà, quali frenate, deviazioni ed inversioni di marcia, per cui, anche se il Carabiniere non fosse rotolato fuori dalla traiettoria dell'auto, non poteva affermarsi oltre ogni ragionevole dubbio che l'imputato non avrebbe posto in essere una qualche manovra al fine di evitarlo;
Il richiamo al dolo alternativo, operato dalla sentenza impugnata, non risolveva il problema nella fattispecie in esame poichè proprio la pluralità di comportamenti descritta nella sentenza impugnata, con l'alternarsi di fermate e partenze, escludeva che al D.M. potesse essere attribuito un istinto irrefrenabile di uccidere la vittima, in assenza oltretutto di un serio movente che non poteva essere individuato nella ipotetica volontà di sottrarsi al controllo alle forze dell'ordine;
La sentenza impugnata non aveva individuato un congruo e razionale apparato argomentativo in ordine alla ricostruzione storica del fatto ed alla attendibilità intrinseca ed estrinseca delle due persone offese e delle altre fonti di prova dichiarative che apparivano illogiche e contraddittorie con riguardo alla condotta ascritta all'imputato ed ai loro movimenti a partire dall'affiancamento della vettura dell'imputato, sia fra di loro che in relazione alle dichiarazioni degli altri testi dedotti dal Pubblico ministero ( C.D. e V.M.C.) e dalla difesa ( B.C. e B.A.) e dovevano quindi essere valutate con massimo rigore, specie in relazione al fatto che i due carabinieri avevano esploso un rilevante numero di colpi di arma da fuoco all'indirizzo della vettura dell'imputato ed avevano per questo tutto l'interesse a giustificare l'uso delle armi di fronte ad una resistenza meramente passiva;
Erano state travisate le motivazione poste a fondamento della richiesta difensiva di rinnovazione del dibattimento in appello e di esecuzione di accertamenti peritali medico - legali, balistici e dinamici poichè la perizia balistica era necessaria per stabilire la posizione degli operanti e verificare la attendibilità dei testimoni attraverso la ricostruzione del numero dei colpi, della direzione degli stessi e della distanza di sparo, la perizia cinematica avrebbe consentito di accertare la presenza di tracce di impatto sulla vettura dell'imputato, la violenza dell'impatto e la collocazione della vittima rispetto al veicolo ed infine la perizia medica legale avrebbe dato modo di verificare la compatibilità delle lesioni con le dichiarazioni dei testimoni oltre che la entità e la dislocazione delle lesioni e la durata della malattia.
Il ricorso è infondato.
Quanto agli ultimi due motivi di ricorso che, attenendo alla ricostruzione dei fatti, precedono logicamente quelli attinenti alla qualificazione giuridica degli stessi ed alla individuazione dell'elemento psicologico del più grave reato di cui al capo A (tentativo di omicidio), oggetto delle prime tre doglianze, occorre subito rilevare che la ricostruzione e la valutazione dei fatti contenute nella sentenza di appello devono essere integrate, sotto il profilo descrittivo ed argomentativo, con quelle della sentenza di primo grado che è richiamata da quella di appello che la conferma.
La valutazione della attendibilità delle deposizioni testimoniali nella sentenza di primo grado è diffusa e completa e dimostra come ben quattro testi (i due Carabinieri, il C. e la V., che avevano assistito ai fatti da pochi metri di distanza ed avevano subito testimoniato in modo imparziale) avessero reso nella immediatezza dei fatti una versione concordante in ordine alla condotta lesiva posta in essere dall'imputato, riscontrata dalle lesioni riportate dal carabiniere P. per impatto diretto con la vettura dell'imputato alle gambe, al torace ed alla testa e subito certificate dal nosocomio in cui era stato condotto (contusioni multiple escoriate, contusione cranica, distrazione rachide cervicale, contusione toracica, cui poi seguiva la diagnosi di trauma cranico, trauma toracico e frattura del menisco interno destro), perfettamente corrispondenti alla dinamica dei fatti descritta in primo luogo dalla persona offesa, dalle tracce di impatto lasciate sul cofano della vettura e dai rilievi eseguiti dagli inquirenti sul luogo dei fatti, e, per converso, non smentita dalle dichiarazioni tardive rese dalle sorelle B., asseritamente reperite dopo tempo dall'imputato attraverso inserzioni sui giornali, che erano state correttamente ritenute inattendibili in base ad argomentazioni logiche ineccepibili, quali la loro incapacità di collocare i fatti con riguardo ai luoghi in cui erano avvenuti, la impossibilità di visuale dalla loro presunta posizione (tanto che, onde giustificare la possibilità di vedere, avevano attribuito alla macchina dell'imputato i fari accessi, mentre tutti gli altri testi non ne avevano parlato) e la descrizione di una dinamica dei fatti (il Carabiniere P. sarebbe inciampato e caduto senza alcun contatto con la vettura) inconciliabile con i dati obiettivi.
Anche la tesi difensiva offerta dall'imputato (sarebbe fuggito, opponendo mera resistenza passiva e rendendosi irreperibile, poichè stava assumendo droga in vena e non voleva per questo essere identificato e fermato, per cui uno dei Carabinieri, che era appoggiato con le mani sul cofano, sarebbe inciampato mentre l'altro gli avrebbe dato una botta sul vetro, al di fuori di qualsiasi sua volontà lesiva) è stata ritenuta incompatibile con le risultanze dibattimentali in base ad un giudizio logico discendente da una valutazione delle prove non contestabile in questa sede e non smentito dal fatto che i Carabinieri avevano in effetti esploso dei colpi di arma da fuoco all'indirizzo delle ruote della vettura dell'imputato, poichè i Carabinieri hanno spiegato le circostanze ed i motivi difensivi per cui ciò era avvenuto e comunque le gravi lesioni ai danni del Carabiniere P. vi sono state, vi è stato l'investimento del Carabiniere che era stato trascinato a terra e vi è stato pure il successivo tentativo dell'imputato di travolgere il Carabiniere, contro cui aveva specificamente indirizzato la macchina, pur avendo la possibilità di fuggire per altra via di uscita (v. specificamente teste V., le cui dichiarazioni sono riportate testualmente nella sentenza di primo grado).
Si deve quindi escludere la irrazionalità dell'apparato argomentativo della sentenza impugnata, oggetto della quarta doglianza, sopra indicata, poichè, al contrario, la sentenza impugnata è congruamente motivata ed ha risposto a tutte le censure difensive attinenti alla valutazione della prova, giungendo alla ricostruzione dei fatti, così come riportata concordemente dalle due sentenze di merito, in base a più prove rappresentative dirette, provenienti anche da testi oculari, concordanti e riscontrate dai rilievi oggettivi e sottoposte ad attento ed esauriente vaglio critico.
La censura che investe la mancata ammissione delle perizie dedotte in grado di appello è palesemente inammissibile.
La giurisprudenza consolidata di questa Corte è infatti nel senso che l'art. 495 c.p.p., comma 2, laddove sancisce il diritto dell'imputato alla controprova da lui dedotta "a discarico" sui fatti oggetto della prova "a carico", non può avere ad oggetto l'espletamento di una perizia, mezzo di prova di per sè neutro e, come tale, non classificabile nè "a carico" nè "a discarico" dell'accusato, oltrechè sottratto al potere dispositivo delle parti e rimesso essenzialmente al potere discrezionale del giudice la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, dovendo conseguentemente negarsi che l'accertamento peritale possa ricondursi al concetto di prova decisiva la cui mancata assunzione costituisce motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. d), (v. Cass. 17.6.1994, Jahrni Rv. 199279; Cass. 6.4.1999, Mandalà Rv. 214873).
Inoltre, a norma dell'art. 603 c.p.p., comma 1, nel giudizio di appello le parti hanno diritto alla prova ad esse attribuito dagli artt. 190 e 495 c.p.p. soltanto nel caso di prove nuove richieste nell'atto di appello o nei motivi presentati a norma dell'art. 585 c.p.p., comma 4, qualora il giudice non ritenga di essere in grado di decidere allo stato degli atti; per cui, non ricorrendo tale ipotesi, anche sotto tale diverso profilo, la mancata assunzione della prova è censurabile in cassazione soltanto solo per mancanza o manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. e) del provvedimento che rigetta la relativa richiesta e non anche ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. d) (v. Cass. 21.12.2000, Delfino Rv.
218279).
Il ricorrente assume, in verità, che nel caso in esame si sarebbe verificata tale situazione poichè la motivazione della ordinanza di rigetto delle perizie in appello non sarebbe stata adeguata alla sua richiesta che era diretta a ricostruire in modo scientifico la scena del preteso delitto ed a valutare, in particolare, se le dichiarazioni dei testi fossero compatibili con i rilievi scientifici; però non è così poichè la scelta dei mezzi di prova spetta al giudice del merito e non è censurabile in sede di legittimità qualora escluda un mezzo di prova "neutro" ritenendo già completa e decisiva la prova assunta, come nel caso in esame in cui i rilievi tecnici erano stati eseguiti dalla polizia giudiziaria ed erano in atti, mentre le perizie avrebbero dovuto svolgersi sugli atti già compiuti soltanto al fine di confermare ovvero screditare i testi sulla base di una valutazione che spettava al giudice e non ai periti compiere, essendo oltretutto il giudice peritus peritorum.
Neppure la motivazione dei giudici dell'appello in merito alla mancata assunzione delle perizie si presta a censure posto che ha spiegato in modo ineccepibile per quali motivi ha ritenuto insuperabili gli elementi oggetti vi sulla cui base ha fondato la valutazione di colpevolezza dell'imputato.
Restano da esaminare le doglianze che attengono alla qualificazione giuridica dei fatti e dell'elemento psicologico che li ha assistiti.
Il ricorrente lamenta sotto tali profili violazione della legge penale, oltre che carenze motivazionali, per avere la Corte di merito ritenuto la sussistenza degli estremi del tentativo di omicidio, invece di quelli del meno grave reato di lesioni colpose, anche sotto il profilo dell'eccesso colposo di legittima difesa ovvero, al massimo, di lesioni volontarie.
Anche tali motivi sono infondati.
Le due sentenze di merito hanno sul punto fatto corretto uso dei principi giurisprudenziali consolidati in punto di idoneità e non equivocità degli atti posti in essere dall'imputato facendo riferimento alle parti vitali del corpo della vittima colpite (fra le altre il cranio), all'investimento frontale di un pedone da parte del conducente di una autovettura di notevole massa e potenza il quale, partito improvvisamente ed in forte accelerazione da distanza ravvicinata rispetto alla vittima, aveva proseguito la marcia anche dopo l'impatto, quando l'infortunato vi trovava già a terra davanti al veicolo senza fare nullo per evitarlo (pag. 5 della sentenza di primo grado richiamata da quella di appello) ed alla conseguente messa in pericolo della vita della persona offesa, che sarebbe rimasta schiacciata sotto la Mercedes se non fosse riuscita all'ultimo momento a spostarsi lateralmente.
Anche in punto di prova del dolo in ordine al più grave reato di tentato omicidio la Corte di merito, con motivazione ineccepibile, in assenza di ammissione da parte dell'imputato, ha utilizzato gli elementi sintomatici ritenuti utili, secondo le regole di esperienza e l'id quod plerumque accidit, anche alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità, per la individuazione della direzione teleologica della volontà dell'agente verso la morte della vittima, quali la micidialità del mezzo usato (una vettura di notevole massa e peso in forte accelerazione scagliata contro un pedone), la reiterazione delle lesività, la direzione del veicolo proprio verso il Carabiniere pur avendo la possibilità di allontanarsi attraverso altra via ed infine la mancanza di qualsiasi motivazione per tale azione se la condotta dell'imputato fosse stata diretta soltanto alla fuga, tutti indicativi della volontà del D.M. di uccidere la vittima o quanto meno di indifferenza per la sorte della stessa, sotto il profilo del dolo alternativo, come posto in luce dalla sentenza di appello.
La pluralità di condotte dell'imputato che si era dapprima fermato e poi aveva ripreso la marcia, posta in luce dalla sua difesa per desumerne la mancanza di una volontà omicida, non solo non esclude il dolo bensì rafforza la tesi accusatoria in quanto, pur avendo l'imputato la possibilità di allontanarsi immediatamente, come avrebbe fatto se fosse stato mosso solo da tale finalità, aveva "puntato" l'imputato onde travolgerlo nuovamente, con ciò dimostrando oggettivamente che la fuga non era nè l'unica nè tanto meno la principale finalità della sua condotta.
A fronte di tale motivazione la difesa dell'imputato si limita a rilevare che non aveva un pregresso motivo per uccidere il carabiniere, il che è nella specie irrilevante, essendo evidente che si è trattato di un delitto d'impeto nel cui ambito la fuga costituiva una delle finalità della condotta.
La tesi difensiva della legittima difesa ovvero dell'eccesso colposo di legittima difesa è infine pretestuosa poichè i colpi esplosi dai Carabinieri sono stati la reazione alla condotta dell'imputato e non la causa della stessa.
In definitiva, il ricorso dell'imputato, siccome totalmente infondato sotto tutti i profili addotti, deve essere respinto con le conseguenze di legge in punto di spese (art. 616 c.p.p.).

P.Q.M.

LA CORTE, SEZIONE PRIMA PENALE, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2009

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