Cass. civ. Sez. lavoro, 03-11-2008, n. 26381
Svolgimento del processo
Con
sentenza depositata il 13 dicembre 2004, la Corte d'appello di Napoli
ha confermato integralmente la sentenza in data 16 gennaio 2003, con la
quale il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva dichiarato la
nullità del licenziamento comunicato, all'esito di una procedura di
mobilità, dalla Industria @@@@@@@@ s.r.l. a T.L. con effetto dal 6
luglio 2001, quando la lavoratrice si trovava in stato di gravidanza.
In
proposito, la Corte territoriale ha ritenuto applicabile alla
fattispecie esaminata, in ragione della sua collocazione temporale, il
divieto di collocamento in mobilità della lavoratrice madre a seguito di
licenziamento collettivo, stabilito dal D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54, comma 4, interpretato come assoluto prima della modifica a tale norma apportata dal D.Lgs. 23 aprile 2003, n. 115, art. 4, comma 2, che ha escluso dal divieto l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell'attività dell'azienda.
In
ogni caso, anche a voler ritenere che il divieto di licenziamento in
caso di mobilità non fosse applicabile ove dovuto alla cessazione
dell'attività dell'azienda, anche prima della entrata in vigore del D.Lgs. n. 115 del 2003, e ciò ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b)
- interpretato dalla giurisprudenza prevalente nel senso che la
relativa esclusione ricomprenda anche l'ipotesi di cessazione
dell'attività del reparto cui è addetta la dipendente, purchè dotato di
autonomia funzionale e nella impossibilità di una diversa collocazione
della lavoratrice -, la Corte territoriale ha rilevato che la datrice di
lavoro non aveva nel caso in esame fornito la prova, su di lei
incombente, della effettiva soppressione integrale del reparto
amministrativo cui era addetta la T. e comunque della autonomia dello
stesso e ha confermato la sentenza di accoglimento di primo grado anche
per queste due subordinate autonome ragioni.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la Industria @@@@@@@@ s.r.l., articolando tre motivi.
Resiste alle domande T.L. con proprio rituale controricorso.
La società ha altresì depositato una memoria difensiva ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1 - Col primo motivo di ricorso, viene dedotta la violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c..
In proposito, la ricorrente ricorda che il giudice di prime cure aveva anzitutto interpretato il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54,
nel senso che il divieto in esso stabilito non era applicabile in caso
di licenziamento collettivo conseguente alla chiusura dell'azienda o del
reparto cui la lavoratrice madre è addetta anche nel caso in cui si
tratti di licenziamento collettivo con collocamento in mobilità ai sensi
della L. 23 luglio 1991, n. 223, ed aveva escluso peraltro la
ricorrenza nel caso esaminato di una tale fattispecie per difetto di
prova da parte della società della autonomia funzionale del reparto
amministrativo cui era addetta la T..
Poichè
quest'ultima non avrebbe proposto appello incidentale per sostenere la
natura assoluta del divieto di licenziamento antecedentemente alla
modifica apportata alla norma citata dal D.Lgs. n. 115 del 2003,
e quindi nel periodo in cui era stato operato il licenziamento della
T., la società ricorrente sostiene che si sarebbe formato sul punto il
giudicato interno, che la Corte territoriale non avrebbe rispettato con
l'adottare una diversa interpretazione della norma indicata.
2 - Col secondo motivo di ricorso, la società deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell'art. 2697 c.c.,
nonchè il vizio di motivazione della sentenza impugnata, con
riferimento alla statuizione con la quale la Corte napoletana ha
ritenuto non assolto l'onere probatorio gravante sull'impresa in ordine
all'autonomia funzionale del settore amministrativo rispetto a quello
produttivo.
La società aveva infatti ribadito
in appello che l'intera funzione amministrativa era stata affidata ad
una impresa esterna. Se la Corte territoriale avesse valutato tale
situazione, non avrebbe pertanto potuto che concludere, secondo la
difesa della società, nel senso della autonomia del reparto
amministrativo rispetto a quello produttivo, del resto intuitiva anche
sul piano logico.
3 - Col terzo motivo di ricorso, la sentenza impugnata viene censurata per violazione dell'art. 112 c.p.c., e art. 1362 c.c. e ss., nonchè per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c.,
e per vizio di motivazione, con riferimento alla statuizione con la
quale la Corte territoriale ha ritenuto il difetto di prova in ordine
alla stessa cessazione dell'attività del reparto amministrativo cui era
addetta la lavoratrice.
Secondo la società,
infatti, un tale rilievo non sarebbe stato prospettato in appello dalla
parte appellata e, comunque, la relativa valutazione costituirebbe il
frutto dell'omessa considerazione di una circostanza decisiva rilevabile
d'ufficio dalla lettura del verbale di esame congiunto L. n. 223 del 1991,
ex art. 4, redatto il 4 aprile 2001, "prodotto in atti dalla stessa
lavoratrice" e relativo alla procedura di mobilità che si era conclusa
anche col licenziamento della resistente, dal quale si desumerebbe la
soppressione dell'intero ufficio amministrativo, i cui dipendenti erano
stati quindi in parte licenziati e in parte addetti a mansioni diverse,
anche di tipo operaio.
La ricorrente conclude pertanto chiedendo la cassazione della sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge.
Il ricorso è manifestamene infondato.
La
norma relativa al licenziamento delle lavoratrici madri vigente
all'epoca del licenziamento collettivo della T. era quella di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54,
decreto contenente il "Testo unico delle disposizioni legislative in
materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma
della L. 8 marzo 2000, n. 53, art. 15".
Tale norma, proveniente, quanto al licenziamento, dalla L. 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 2,
dopo aver ribadito, nei commi 1 e 2, il divieto di licenziamento della
lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza al compimento di un
anno di età del figlio, con le eccezioni di cui al comma 3, tra le quali
quella relativa alla "cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è
addetta", contiene al comma 4, una disposizione del seguente tenore:
"Durante
il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice
non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa
l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, semprechè il
reparto stesso abbia autonomia funzionale. La lavoratrice non può
altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento
collettivo ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni".
Nel successivo Decreto 23 aprile 2003, n. 115 - emanato ai sensi della Legge Delega 8 marzo 2000, n. 53, art. 15, comma 3, come modificato dalla L. 16 gennaio 2003, n. 3, art. 54, (che aveva prorogato fino a due anni l'originario termine di un anno assegnato al Governo dalla L. n. 53 del 2000, art. 15, comma 3,
per procedere all'eventuale emanazione, nel rispetto dei principi e
criteri direttivi di cui al comma 1, di disposizioni correttive del
testo unico) -, l'art. 4, comma 2, ha inserito nel D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 4,
dopo le ultime parole, le seguenti: "salva l'ipotesi di collocamento in
mobilità a seguito della cessazione dell'attività dell'azienda di cui
al comma 3, lett. b)".
La Corte territoriale, diversamente dal giudice di primo grado, ha interpretato la norma citata di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001,
comma 4, nel senso che questa avrebbe introdotto, successivamente alla
data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo (pubblicato
sulla G.U. del 26 aprile 2001) e fino alla entrata in vigore del D.Lgs. n. 115 del 2003, un divieto assoluto di licenziamento della "lavoratrice madre" a seguito di procedure di mobilità.
Conseguentemente, ha ritenuto nullo il licenziamento dell'appellata, comunicato con effetto dal 6 luglio 2001.
Sostiene al riguardo la ricorrente che, così giudicando, la Corte territoriale avrebbe violato gli artt. 112 e 324 c.p.c.,
in quanto sul punto relativo alla interpretazione della norma citata si
sarebbe formato il giudicato interno, poichè alla diversa
interpretazione del giudice di primo grado, secondo la quale la norma
avrebbe implicitamente escluso dal divieto di licenziamento in mobilità,
in particolare, l'ipotesi di cessazione dell'attività cui è addetta la
lavoratrice, non aveva corrisposto da parte della appellata la
proposizione di un appello incidentale per ribadire l'interpretazione
che la Corte territoriale avrebbe fatto poi propria.
Al
riguardo, va peraltro ricordato in via di principio che, secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio non ha ragione
di discostarsi, la parte totalmente vittoriosa in primo grado non ha
l'onere di proporre appello incidentale per chiedere il riesame delle
domande e delle eccezioni respinte, ritenute assorbite o comunque non
esaminate con la sentenza impugnata, essendo sufficiente la loro
riproposizione nelle difese del giudizio di secondo grado, ai sensi dell'art. 346 c.p.c.,
onde evitare che le stesse si debbano intendere implicitamente
rinunciate (cfr., da ultimo, Cass. 6 settembre 2007 n. 18691 e 24 maggio
2007 n. 12162).
Nel caso in esame si rileva
che, come precisato e riprodotto dalla resistente nel proprio
controricorso, a pag. 11 della memoria difensiva ritualmente depositata
dalla sua difesa in sede di appello, era stato tra l'altro ribadito il
richiamo al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54, comma 4, in
quanto espressamente statuente che "la lavoratrice non può altresì
essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai
sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223".
Dovendosi
pertanto ritenere riproposte in appello dalla T. le proprie difese
anche in ordine alla applicazione della norma indicata nella
interpretazione di essa sostenuta con riguardo al periodo considerato,
la pronuncia della Corte territoriale che quella interpretazione ha
fatto propria non è affetta dal vizio denunciato.
Inoltre,
quale che sia la corretta interpretazione della norma in parola,
l'accertamento svolto in via principale dalla Corte d'appello sulla base
di essa relativamente alla fondatezza della domanda della T. - e quindi
con riguardo alla nullità del licenziamento in quanto intimato in
violazione dell'art. 54 cit., comma 4 -, non essendo stato in alcun modo
contestato nel merito dalla ricorrente, come rilevato anche dalla
resistente a pag. 12 del controricorso e in particolare non avendo
costituito oggetto di uno specifico motivo di ricorso per cassazione
quanto alla interpretazione della norma di legge applicata, è divenuto
definitivo, essendosi su di esso formato il giudicato, rilevabile anche
d'ufficio in sede di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. 27 marzo
2007 n. 7500).
In ragione di quanto
argomentato, il ricorso appare manifestamente infondato, con conseguente
irrilevanza del secondo e terzo motivo dello stesso, in quanto
attinenti ad autonome ragioni di conferma in appello della sentenza di
primo grado.
Al rigetto del ricorso consegue
la condanna della ricorrente al rimborso alla resistente delle spese di
giudizio, così come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla
resistente le spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in
Euro 35,00 per spese ed Euro 3.000,00 per onorari, oltre a spese
generali, I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 18 settembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2008
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