Cass. civ. Sez. Unite, 26-11-2008, n. 28170
Svolgimento del processo
Con
atto notificato il 29/9/2008, P.S. ha proposto ricorso contro la
decisione in epigrafe indicata, chiedendone la cassazione con ogni
consequenziale statuizione.
Nessuno degli
intimati ha resistito con controricorso e la controversia è stata decisa
all'esito della pubblica udienza del 18/11/2008.
Motivi della decisione
Dalla
lettura della sentenza impugnata e del ricorso contro di essa proposto
emerge in fatto che in data 16/10/2006, P.S. ha presentato al Consiglio
dell'Ordine degli Avvocati di Bergamo domanda d'iscrizione nel Registro
Speciale dei praticanti avvocati.
Considerato
che il richiedente prestava servizio come carabiniere, il Consiglio
dell'Ordine l'ha dapprima iscritto con riserva di verifica
dell'eventuale esistenza di una causa d'incompatibilità e poi, decorso
il primo semestre di pratica, l'ha cancellato in applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3.
Il
P. ha impugnato la relativa delibera davanti al Consiglio Nazionale
Forense deducendo, per quanto ancora interessa in questa sede, la
mancata concessione di un termine a difesa non inferiore a dieci giorni,
l'inestensibilità delle ipotesi d'incompatibilità di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3,
ai praticanti non ammessi al patrocinio e, in ogni caso, l'avvenuta
rimozione di qualunque occasione di sospetto mediante la richiesta di
esonero dalla pratica professionale in conseguenza della partecipazione
alla Scuola di specializzazione delle professioni forensi di Brescia.
Con
la sentenza in epigrafe indicata, il Consiglio Nazionale Forense ha
disatteso la prima doglianza sottolineando in proposito che pur non
essendogli stato assegnato il termine di legge, il P. era ugualmente
comparso davanti al Consiglio locale senza chiedere alcun rinvio ed,
anzi, difendendosi compiutamente nel merito.
Ciò posto, il Consiglio Nazionale ha poi ricordato che in base al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3,
l'iscrizione all'albo era incompatibile con qualsiasi impiego pubblico e
comportava dei doveri che riguardavano tutti gli avvocati e i
praticanti, a proposito dei quali il D.P.R. n. 101 del 1990, art. 1,
aveva puntualizzato che il tirocinio doveva essere svolto con
assiduità, diligenza, lealtà e riservatezza ed implicava il compimento
delle attività proprie della professione indipendentemente
dall'ammissione o meno alla difesa.
Tenuto
conto di quanto sopra e non dimenticato che l'obbligo di denuncia che il
P. aveva come carabiniere contrastava con i doveri di segretezza e
fedeltà cui era, invece, sottoposto l'avvocato, il Consiglio Nazionale
ha rigettato il gravame, aggiungendo che "l'iscrizione alla Scuola di
Specializzazione delle Professioni Legali del Dott. P. non può
costituire espediente utile ad aggirare una situazione di
incompatibilità che, nei fatti, sussiste per le ragioni sopra esposte,
fino a quando il ricorrente è dipendente dell'Arma dei Carabinieri".
Il P. ha proposto ricorso per cassazione articolato su quattro motivi, con il primo dei quali ha dedotto la "violazione dell'art. 24 Cost., e del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 45",
in quanto la mancata concessione di un adeguato termine a difesa
costituiva causa di nullità della deliberazione di cancellazione
indipendentemente dal comportamento tenuto dall'iscritto.
Con il secondo motivo, il P. ha invece dedotto la "violazione e falsa applicazione del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, artt. 13 e 14, nonchè eccesso di potere; violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, violazione degli artt. 2, 3, 4 e 41 Cost.",
in quanto le incompatibilità previste dall'art. 3, sopraindicato
riguardavano unicamente l'"esercizio della professione" di avvocato,
tant'era che per estenderle ai soli praticanti ammessi al patrocinio, il
Legislatore aveva sentito la necessità di emanare una disposizione
espressa che dimostrava, a contrariis, la loro inapplicabilità agli
altri praticanti.
Con il terzo motivo, il P. ha inoltre dedotto "la violazione e falsa applicazione del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 14, comma 3, nonchè della L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 114, e del D.M. n. 475 del 2001, art. 1.
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio", perchè il Consiglio Nazionale
non avrebbe potuto liquidare come un mero espediente la sua richiesta di
avvalersi dell'esonero dall'attività di studio e dalle udienze, in
quanto con essa era stata comunque fugata qualsiasi perplessità e,
quindi, anche quella specificamente legata al suo lavoro di carabiniere.
Con il quarto motivo, il P. ha infine dedotto "omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il
giudizio", in quanto il Consiglio Nazionale non si era minimamente
pronunciato sull'ulteriore obiezione di assoluta disparità di
trattamento che il Consiglio locale aveva posto in essere decidendo il
suo caso in maniera totalmente difforme da quanto aveva fatto in una
vicenda simile, in cui un agente di P.S. era stato regolarmente ammesso
allo svolgimento della pratica ed al successivo esame di abilitazione.
Così
riassunte le doglianze del P., osserva il Collegio che il problema
posto con il primo motivo è già venuto all'esame delle Sezioni Unite,
che con sentenza n. 831/1971 l'hanno risolto nel senso di attribuire
efficacia sanante al comportamento del professionista, che pur avendo
ricevuto un termine inferiore a dieci giorni, si astenga dall'eccepirlo
davanti al Consiglio dell'Ordine.
Trattandosi
di affermazione che il Collegio condivide e ribadisce, il primo motivo
del ricorso va rigettato con l'enunciazione del seguente principio di
diritto: "mirando a consentire la preparazione di un'adeguata difesa, la
concessione di un termine inferiore a quello previsto dal R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 45,
integra una nullità sanabile dal comportamento dell'interessato che
comparendo davanti al Consiglio dell'Ordine, non se ne dolga ma si
limiti ad esporre le proprie ragioni nel merito".
Passando
adesso all'esame del secondo motivo, giova premettere che al pari del
Consiglio locale, anche quello nazionale non si è spinto affatto a
sostenere che la qualità di carabiniere costituiva una causa
d'incompatibilità ulteriore rispetto a quelle previste dal R.D.L. n.
1578 del 1993, art. 3, ma si è limitato ad osservare che il lavoro
svolto dal P. (ed i doveri da esso derivanti) rappresentavano la riprova
evidente della sua inconciliabilità con lo svolgimento della pratica
professionale. L'attività di agente di P.G. del P. non ha costituito,
cioè, un distinto motivo di rigetto del gravame, ma un semplice
argomento di supporto dell'unica ratio decidendi che, come già detto, è
consistita unicamente nel fatto che l'interessato era un dipendente
pubblico e, come tale, insuscettibile d'iscrizione ai sensi del R.D.L.
n. 1578 del 1993, art. 3.
Questo, e non altro,
essendo stato il contenuto della decisione del CNF, occorre accertare
se la normativa di settore estende davvero le cause d'incompatibilità
pure ai praticanti non ammessi al patrocinio.
A
questo proposito, non va dimenticato devesi rilevare che dovendo
contribuire a dare concreta attuazione al diritto di difesa, l'avvocato
ha bisogno di poter espletare il proprio mandato in piena indipendenza
di giudizio e d'iniziativa e, cioè, al riparo da condizionamenti
giuridici o di fatto che potrebbero influenzarlo in senso difforme
dall'interesse del cliente (v., in tal senso, anche Corte cost.
2001/189).
A tal fine, e salvo alcune eccezioni che qui non rilevano, il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3,
stabilisce, fra l'altro, che l'esercizio della professione di avvocato è
"incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con
stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni, delle
istituzioni pubbliche di beneficenza, della Banca d'Italia, del gran
magistero degli ordini cavaliereschi, del Senato, della Camera dei
deputati ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione od
istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle
Province e dei Comuni.
E' infine incompatibile
con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella
prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia
carattere scientifico o letterario".
Sia il
tenore letterale delle parole usate che lo scopo da esse perseguito
dimostrano che trattasi di norma collegata all'esercizio concreto della
professione, di cui vuole garantire l'autonomia, come del resto
ultimamente riaffermato da queste stesse Sezioni Unite con sentenza n.
19496/2008 e, soprattutto confermato dal R.D. n. 37 del 1934, artt. 1 e 13, i quali riconoscono l'applicabilità del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, solo con riferimento ai praticanti ammessi al patrocinio.
Tenuto
allora conto delle surricordate finalità della norma nonchè del fatto
che, secondo i principi, l'esplicita previsione della incompatibilità
soltanto per i praticanti ammessi al patrocinio equivale ad indiretta,
ma indubbia esclusione della sua applicabilità nei confronti dei
praticanti che non svolgono attività difensiva, può senz'altro
concludersi nel senso che nel sistema inizialmente tracciato dal
Legislatore quest'ultimi potevano svolgere lei pratica pure nella
ipotesi in cui si fossero trovati in una delle condizioni previste dal R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3.
Ciò posto, rimane da chiedersi se tale sistema non sia stato per caso innovato dal D.P.R. n. 101 del 1990, art. 1,
che come ricordato dal Consiglio nazionale ha tenuto a puntualizzare
che la pratica legale "comporta il compimento delle attività proprie
della professione".
La risposta al quesito, però, non può essere che negativa ove si consideri che il D.P.R. n. 101 del 1990,
non ha parificato affatto le due categorie di praticanti, ma le ha
mantenute distinte preoccupandosi, per di più, di chiarire che i
cambiamenti da esso apportati comportavano unicamente la sostituzione
del R.D. n. 37 del 1934, artt. 5, 6, 7, 9 e 71, ma non degli
artt. 1 e 13, che, come si è visto, estendono le incompatibilità
previste per gli avvocati ai soli praticanti ammessi al patrocinio.
Dovendo
essere perciò apprezzata alla luce della perdurante vigenza delle
predette disposizioni, con le quali va necessariamente armonizzata, la
precisazione contenuta nel D.P.R. n. 101 del 1990, art. 1, finisce col perdere ogni capacità espansiva del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3,
che, peraltro, data pure la difficoltà di derivare da generiche
disposizioni l'introduzione (implicita) di limitazioni o doveri prima
inesistenti, non avrebbe potuto esserle riconosciuta nemmeno in caso di
sua lettura separata dal contesto che, giova ribadirlo, non ricollega
l'incompatibilità al mero compimento di atti tipici della professione,
bensì all'assunzione ed allo svolgimento del mandato difensivo, che i
praticanti non ammessi al patrocinio non ricevono.
Il
Consiglio Nazionale ha tuttavia dubitato della logicità dell'anzidetta
interpretazione, sottolineando che il riconoscimento del diritto del P.
all'iscrizione condurrebbe al paradosso di un praticante che in tale
qualità potrebbe venire a conoscenza di fatti che sempre come praticante
dovrebbe tenere riservati, mentre come carabiniere avrebbe l'obbligo di
denunciare.
Il rilievo è certamente
suggestivo, ma non insuperabile perchè anche a prescindere da quanto già
osservato dalla succitata Corte Cost. 2001/189 in ordine al "conflitto
di appartenenze" introdotto dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56 e 56
bis, si tratterebbe pur sempre di una mera eventualità comunque
scongiurabile mediante l'adozione di opportuni accorgimenti di fatto fra
cui, per esempio, quello di circoscrivere la pratica a determinati
settori o a casi preventivamente valutati dall'affidatario.
Il
pericolo prospettato dal Consiglio Nazionale sembra, cioè, idoneo a
dimostrare soltanto la possibilità di (seppur non trascurabili) problemi
pratici, ma non l'esistenza di una vera e propria preclusione di
carattere generale ed astratto che, oltretutto, non riguarderebbe tutti i
dipendenti pubblici e privati, ma soltanto una ristretta cerchia di
persone, per cui non potrebbe essere valorizzata nè per inferirne
l'incompatibilità dei soli agenti ed ufficiali di PG (dato che il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3,
contiene una previsione di carattere generale, non limitata ad una
ristretta categoria di soggetti) nè, meno che mai alla totalità dei
lavoratori, dato che così facendo si arriverebbe alla conseguenza
(questa sì sproporzionata ed illogica) di "colpire" un'intera classe per
rimediare ad un inconveniente proprio di una minima parte di essa.
Anche
per tali motivi, dunque, la soluzione del Consiglio nazionale suscita
forti perplessità che aumentano ancora di più ove si consideri che
precludendo, a chi ne avrebbe i mezzi, la possibilità di migliorare
soltanto perchè si è trovato nella condizione di aver dovuto accettare
un lavoro insoddisfacente o non più adeguato, introduce uno sbarramento
non esattamente in linea con i valori fondamentali dell'ordinamento.
Nè
varrebbe in contrario replicare che, pertanto, l'estensione della
incompatibilità ai praticanti non comporterebbe alcun sostanziale
sbarramento, ma una semplice anticipazione di quanto sarebbe, dopo,
inevitabile, visto che per iscriversi all'albo ed esercitare la
professione, il praticante che abbia superato l'esame deve
necessariamente dimettersi dal lavoro pubblico o privato eventualmente
svolto.
L'obiezione non potrebbe essere
infatti condivisa non soltanto per la gravità del rischio che si
chiederebbe di correre all'interessato (chiamato a rinunciare ad un
lavoro certo e remunerato per svolgere un lungo apprendistato, non
sempre adeguatamente retribuito, e sostenere infine una prova che
potrebbe anche non superare), ma anche per la non infrequente
possibilità che taluno decida di affrontare la pratica e l'esame di
avvocato non in vista di un immediato cambio di attività, ma per
precostituirsi il titolo necessario al suo futuro esercizio, magari dopo
il raggiungimento di una sufficiente anzianità contributiva (e ciò
senza tenere conto delle possibilità offerte dalla surricordata L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56 e 56 bis, che ha rimosso le incompatibilità fra impiego pubblico part-time e professioni intellettuali).
Il
secondo motivo del ricorso dev'essere pertanto accolto, con
l'enunciazione del seguente principio di diritto: "trattandosi di
preclusioni volte a garantire l'autonomo ed indipendente svolgimento del
mandato professionale, le incompatibilità di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3,
non si applicano ai praticanti non ammessi al patrocinio, che possono
di conseguenza essere iscritti nell'apposito Registro Speciale anche se
legati da un rapporto di lavoro con soggetti pubblici o privati".
Ne
deriva l'assorbimento del terzo e del quarto motivo e la cassazione
della decisione impugnata senza rinvio degli atti al giudice a quo,
perchè non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, la causa può
essere decisa nel merito mediante l'annullamento della delibera del
Consiglio dell'Ordine di Bergamo di cancellazione del P. dal Registro
Speciale dei praticanti avvocati.
Avuto riguardo alla novità della questione, stimasi equo compensare fra le parti le spese dell'intero giudizio.
P.Q.M.
La
Corte di Cassazione, a sezioni unite, rigetta il primo motivo del
ricorso, accoglie il secondo, dichiara assorbiti il terzo e il quarto,
cassa la decisione impugnata e, decidendo nel merito, annulla la
delibera del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Bergamo di
cancellazione del P. dal Registro Speciale dei praticanti avvocati,
compensando le spese dell'intero giudizio fra le parti.
Così deciso in Roma, il 18 novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2008
Nessun commento:
Posta un commento