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lunedì 28 aprile 2014

TAR: Polizia di Stato - Borseggio - Tesserino personale - Patente Ministeriale




 
REPUBBLICA ITALIANA N. Reg. Ric.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO N. Reg. Sent.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio sez. I^ ter ANNO


ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi n.14636/2001 e n. 6805/2007 del R.G. entrambi proposti dall’Ispettore Superiore S.u.p.s.  @@ @@, rappresentata e difesa dall’ avv. --
contro
il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato;
per l'annullamento
quanto al ric. n. 14636/2001: del d.d. in data 29.10.2001, notificato in data 31.10.2001;
quanto al ric. n. 6805/2007: del d.d. in data 14.5.2007, successivamente notificato, recante reiezione dell’istanza di riabilitazione dell’interessata, nonché dei pareri contrari all’accoglimento dell’istanza resi dal Consiglio centrale di disciplina e dalla Commissione per il personale del ruolo degli Ispettori e di ogni altro atto connesso ancorché non cognito;
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visto, con riferimento a ciascuno dei ricorsi, l'atto di costituzione in giudizio del  Ministero dell’Interno;
Viste le memorie prodotte dalle parti;
Visti gli atti tutti della causa;
Data per letta alla pubblica udienza del 19.6.2008 la relazione del Consigliere Pietro Morabito ed uditi gli avvocati di cui al verbale d’udienza;
Ritenuto e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue:
FATTO
Espone in fatto la ricorrente, Isp. Sup. Sost. Comm. di P.S. della Polizia di Stato:
  • che, in data 12.12.2001, rendeva noto all’Ufficio di appartenenza di non aver rinvenuto ( e tanto a causa di  un presumibile borseggio del quale era stata vittima, la mattina del 10.9.2001, in metropolitana) il proprio portadocumenti contenente il tesserino di riconoscimento, la patente di guida e la tessera di accesso al Ministero dell’Interno;
  • che con lettera del 19.9.2001 le veniva contestata una grave negligenza nell’obbligo di custodia dei documenti affidatile sanzionabile con la deplorazione: contestazione cui l’incolpata replicava con articolata memoria di osservazioni e controdeduzioni del 29.9.2001;
  • che nonostante le “inconfutabili ragioni esposte nelle dette giustificazioni” le veniva notificato il d.d. in data 29.10.2001 recante la sanzione della pena pecuniaria pari a 5/30 di una mensilità dello stipendio e degli altri assegni fissi e continuativi.
Avverso tale misura disciplinare la ricorrente ha interposto il primo dei gravami in epigrafe sostanzialmente deducendo:
  • la tardività del provvedimento disciplinare essendo stato il relativo procedimento concluso oltre il termine di giorni 30 di cui all’art.2 della legge n.241 del 1990 nella versione ratione temporis vigente;
  • l’incompetenza relativa dell’Organo emanante;
  • lo sviamento operato dalla p.a. che ha posto in essere “una misura totalmente illogica, sproporzionata, irrazionale e vessatoria” (cfr. pag.5 gravame).
Pendente il giudizio introdotto col ricorso di cui si è appena accennato, la @@ presentava (escludendo peraltro acquiescenza alcuna avverso la misura punitiva sopra detta) istanza di riabilitazione ex art.87 del d.P.R. n.3 del 1957: domanda che, filtrata dal parere reso tanto dal Consiglio Centrale di Disciplina quanto dalla Commissione per il personale del Ruolo Ispettori della P.S., veniva respinta con decreto direttoriale del 14.5.2007.
Avverso tale determinazione è diretto il secondo dei gravami in epigrafe affidato alle seguenti doglianze: violazione degli artt. 3 e 10 bis della legge n.241 del 1990; violazione e falsa applicazione dell’art.87 del d.P.R. n.3 del 1957; eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche; violazione del principio del giusto procedimento e dell’art.97 della Costituzione.
L’intimata amministrazione, costituitasi in giudizio per il tramite del Pubblico Patrocinio, ha prodotto una nota di controdeduzioni solo in ordine al secondo dei gravami in epigrafe.
All’udienza pubblica del 19.6.08 la causa è stata trattenuta e spedita in decisione.
DIRITTO
I)- Evidenti ragioni di connessione consentono la riunione dei gravami in epigrafe al fine della loro unitaria trattazione e definizione.
II)- Torna certamente utile alla delibazione di cui il Collegio è investito una più articolata ricostruzione della vicenda che ha originato la corrente controversia.
Nei fatti la @@ – in servizio presso l’Ufficio relazioni esterne e cerimoniale della Segreteria del Dip. to della P.S. – relazionava al capo di tale Ufficio il 12.9.2001 che la mattina precedente si era accorta dell’assenza dalla propria borsa del portadocumenti contenente fra l’altro il tesserino di riconoscimento di operatore della P.S. Nell’occasione la dipendente riferiva che l’accaduto poteva presumibilmente addebitarsi a borseggio di cui era stata vittima due giorni addietro sulla linea “B” della locale metropolitana, utilizzata per recarsi presso la sede di servizio.
La circostanza che fossero intercorse non meno di 24 ore tra l’accaduto (risalente alla mattina del 10 settembre) ed il riscontro dell’assenza del portadocumenti (risalente, nella stessa ricostruzione dell’interessata, alla mattina successiva), veniva considerata dalla p.a. quale presunto indice di grave negligenza nella custodia dei documenti affidati e, dunque, sanzionabile disciplinarmente ai sensi dell’art.5 comma 1, n.7 del d.P.R. n.737 del 1981.
A tale iniziale contestazione la @@ replicava con nota – contraddistinta dal ricorso ad uno stile dialettico in alcuni tratti particolarmente veemente– sostanzialmente anticipatoria delle deduzioni poi rassegnate nel primo dei gravami in epigrafe. Essa, così:
- si premurava da subito di evidenziare che la lettera di contestazioni – nella parte in cui sottolineava la “scarna esposizione dell’accaduto” descritta nella Relazione d’Ufficio – era manifestamente affetta da un vizio di sviamento del potere sanzionatorio e dalla carenza di solide argomentazioni accusatorie;
- sottolineava che la propria abituale diligentia diligentis non era stata sufficiente “una rarissima volta a neutralizzare la destrezza dei borseggiatori”;
- riteneva sproporzionata la sanzione prevista;
- escludeva, sulla base di un’esegesi invero difficilmente confutabile che lo smarrimento di un documento privato, quale è il tesserino di riconoscimento, fosse sussumibile nell’ambito applicativo della norma dell’art.5 c.1 n.7 del d.P.R. n.737 del1981;
- si preoccupava di risaltare l’inesistenza di alcun disservizio generato in conseguenza dell’accaduto: e ciò grazie alla tempestività con cui era stato denunciato il furto;
- lamentava l’assenza di un quadro probatorio idoneo a supportare la negligenza addebitatale evocando il vantaggio che ad ogni malintenzionato è dato dal “fattore sorpresa” come “noto a chiunque possegga un minimo di esperienza investigativa”.
L’amministrazione condivideva in parte le argomentazioni della @@ riconoscendo la possibile ricollegabilità dell’accaduto all’opera di borseggiatori; quindi adottava la pena pecuniaria in narrativa indicata sulla base di un duplice ordine di ragioni:
  1. la notoria presenza di borseggiatori in un mezzo pubblico quale la metropolitana e la circostanza che tali individui si avvalgono del fattore sorpresa come “noto a chiunque possegga un minimo di esperienza investigativa” avrebbe dovuto indurre la dipendente ad un atteggiamento di maggiore cautela ed attenzione;
  2. il significativo (e non compatibile con una condotta diligente) arco di tempo intercorso tra l’ultima verifica del possesso dei documenti ed il riscontro della loro sottrazione.
Nel provvedimento si fa altresì menzione che quella inflitta alla dipendente è la seconda punizione disciplinare.
III)- Così articolatamente ricostruito il quadro degli accadimenti che ha preceduto il corrente contenzioso è possibile procedere allo scrutinio dei tre mezzi di gravame interposti col primo dei ricorsi in epigrafe.
III.1)- Con la prima censura si denuncia la tardività del provvedimento disciplinare essendo stato il relativo procedimento concluso oltre il termine di giorni 30 di cui all’art.2 della legge n.241 del 1990 nella versione ratione temporis vigente.
La doglianza è destituita di fondamento giuridico trovando, a tacer d’altro, applicazione nel caso di specie – in cui viene in considerazione un procedimento che è disciplinato in tutte le sue scansioni temporali da apposita regolamentazione – non la norma evocata dalla ricorrente ma l’art.31 del d.P.R. n.737 del 1981 che rimanda, per quanto da esso decreto non espressamente previsto in materia di procedura, alle disposizioni del T.u.i.c. di cui al d.P.R. n.3 del 1957 e dunque consente, per pacifica giurisprudenza, l’applicazione dell’art.120 che statuisce l’estinzione del procedimento disciplinare quando siano decorsi novanta giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto: evenienza questa insussistente nella fattispecie in esame.
III.2)- Col terzo mezzo di gravame – cui, solo per ragioni di mera comodità espositiva, si riserva precedenza di trattazione – si deduce lo sviamento operato dall’amministrazione che avrebbe posto in essere una misura totalmente illogica, sproporzionata, irrazionale e vessatoria come, fra l’altro, dimostrato dal voluto travisamento dell’accaduto (essa ricorrente nella propria denuncia “aveva chiaramente precisato di essere stata borseggiata del portadocumenti” mentre nel decreto impugnato si parla di “smarrimento del portafoglio”); elementi questi che già di per sè dimostrano “una determinazione preconcetta di confondere l’accadimento reale dei fatti” che ha condotto la p.a. anche ad includere nel provvedimento “in maniera invero sciatta, raffazzonata ed incomprensibile” una “recidiva che invece non esiste”. Deduce ancora la ricorrente: che non è incluso negli obblighi che fanno capo agli appartenenti alla P.S. quello di non farsi derubare; che la p.a. non ha tenuto conto che essa ricorrente si trovava “fuori servizio” quando l’illecito penale ai suoi danni si è consumato; che il documento sottratto è assimilabile ad un “documento privato utilizzato per ragioni servizio”.
Ora – e pur senza dare peso alla foga dialettica che, senza riserve, si manifesta nell’impianto difensivo – non può il Collegio esimersi dal constatare:
a) che la motivazione del provvedimento avversato si articola, come già sottolineato, in due autonome componenti una delle quali (e cioè quella incentrata sul distacco temporale fra l’ultima verifica del possesso del documento ed il riscontro della sua perdita, smarrimento o sottrazione) è rimasta, in seno alla trama attorea, sostanzialmente trascurata;
b) che la ricorrente ha incentrato la propria strategia difensiva su quella parte del provvedimento sanzionatorio in cui si rappresenta, quale ulteriore e distinta ragione motiva della punizione inflitta, l’omissione della maggior cautela ed attenzione che è lecito pretendere da un operatore dotato di esperienza investigativa allorquando accede ad ambienti notoriamente frequentati da borseggiatori.
Peraltro anche in tale ambito le deduzioni della @@ appaiono disarticolate e non convincenti.
E difatti il tentativo di elevare ad elementi probatori di un preordinato animus nocendi della p.a:
  1. il non aver tenuto conto che essa ricorrente “è stata borseggiata del portadocumenti”;
  2. l’utilizzo, nel corpo del provvedimento avversato, di espressioni quale “smarriva” e “portafogli”.
si rivela fallace alla luce del riscontro che la @@ stessa, nel relazionare l’accaduto al Direttore del proprio Ufficio, ha prospettato un borseggio quale causa presumibile (e non certa) del mancato ritrovamento del proprio portadocumenti; e che è essa stessa nella memoria di replica alla contestazione degli addebiti ad usare anche l’espressione “smarrimento” come descrittiva dell’accaduto (cfr. pag. 3, rigo 8).
Parimenti incondivisibile è poi la tesi che fa leva sul distinguo portadocumenti/portafoglio e che sembra imperniata sull’assunto che la custodia dei documenti sia da considerare manifestazione di massima diligenza  solo se avviene in un portadocumenti ( e non in un portafoglio). E difatti che tale contegno sia espressivo della “massima diligenza della funzionaria e non certo negligenza” è opinione che rimane relegata sul piano strettamente personale di chi la enuncia, potendosi banalmente osservare che non appare necessario un diverso grado di abilità nel sottrarre da una borsa un portadocumenti ovvero un portafoglio.
Manifestamente smentita poi dagli atti di causa è la deduzione con cui si evoca a sostegno dello sviamento di potere e del consumato travisamento dei fatti “una recidiva che non esiste”. In realtà la @@ risulta già sanzionata il 17.2.1999 per una condotta analoga a quella punita con l’atto qui avversato.
Prive di consistenza sono altresì le ulteriori doglianze collocate nel corrente mezzo di gravame.
E così tanto dicasi in ordine alla singolare assimilazione del tesserino di riconoscimento ad un documento privato: tesi questa che si scontra con il Regolamento di Servizio dell’amministrazione della P.S. (d.P.R. n.782 del 1985) che prevede che la tessera di riconoscimento deve essere sempre portata al seguito sia in uniforme che in abito civile e che la stessa deve essere restituita all’atto della cessazione dal servizio e ritirata in caso di sospensione dal servizio ovvero in caso di aspettativa determinata da infermità neuro psichica (art.48). La tessera, dunque, non è un documento privato né tanto meno equipollente ad un documento privato ( gli adempimenti sopra ricordati sono espressione di poteri ed obblighi incompatibili con l’assunta natura privata del documento in questione). E’ invece un documento dell’amministrazione che è affidato all’agente in ragione del servizio che istituzionalmente svolge: documento nei confronti del quale il possessore, al pari di quanto accade per le armi, è tenuto ad osservare la massima diligenza segnalando per iscritto ai propri superiori eventuali danneggiamenti, deterioramenti, sottrazioni e smarrimenti (art.25).
Incompatibili con tali puntuali precetti si rivelano poi – senza che sia necessaria la spendita di ulteriori considerazioni – quegli altri profili censori che traggono ispirazione dall’assunta insussistenza, in capo all’agente della P.S., di un obbligo di non farsi derubare ovvero dalla circostanza che la sottrazione del portadocumenti sarebbe avvenuta all’infuori dell’orario di servizio ( come se quest’ultima circostanza rendesse lecita la riduzione della soglia di attenzione e diligenza).
III.3)- Residua da trattare, con riguardo al ric. n.14636/2001, la censura rubricata sotto il secondo mezzo di gravame ed affidata alla violazione dell’art.4 comma 6 del d.P.R. n.737 del 1981. Sostiene la ricorrente che l’Ufficio ove è impiegata è un Ufficio interno della Segreteria del Dip.to della P.S. e, pertanto, il Direttore di tale Ufficio non è il “Direttore del Servizio” che, invece, deve identificarsi, solo ed esclusivamente, nel Capo della Segreteria cui, a mente del predetto art.4, spettava la competenza ad adottare, - (non detenendo la ricorrente qualifica dirigenziale e/o direttiva ed essendo in servizio presso il Dip.to della P.S.) – il provvedimento sanzionatorio avversato.
La censura è infondata. Occorre difatti ricordare:
  • che l’art.5 della legge n.121 del 1981 affida alle Autorità ivi indicate il compito di determinare il numero e le competenze degli Uffici, Servizi e Divisioni in cui si articola il Dip. to della P.S. precisando che alla direzione degli Uffici e delle Direzioni centrali sono preposti dirigenti generali;
  • che il d.P.R. n.335 del 1982 (Reg. to del Personale della P.S. che espleta funzioni di polizia) nell’allegata tab. “A” individua tra le funzioni del dirigente superiore quella di Direttore di Servizio nell’ambito del Dip. to della P.S. e tra le funzioni del Primo dirigente quella di Direttore di Divisione; (funzioni rimaste confermate anche in esito alle modifiche apportate dal d.lgs. n.334 del 2000);
  • che a mente dell’art.6 del d.lgs. n.29 del 1993 ( e successivamente dell’art.6 del d.lgs. n.165 del 2001) l’assetto organizzativo delle amministrazioni che esercitano competenze istituzionali in materia di difesa, sicurezza, polizia e giustizia, è rimasto soggetto alle particolari disposizioni di settore [e dunque, per quanto di interesse ai fini dell’odierna controversia, la riforma ordinamentale apportata dai citati testi ha lasciato invariata, in seno al Dip. to della P.S., la propria articolazione in Uffici e Direzioni centrali (dirette da un dirigente generale), Servizi (diretti da un dirigente superiore o funzionario con qualifica equiparata: Viceprefetto) e Divisioni (dirette da un Primo dirigente o funzionario prefettizio con qualifica equiparata)];
  • che il d.P.R. n.208 del 22.3.2001 nel dettare disposizioni per il riordino delle strutture centrali e periferiche dell’amministrazione della P.S. ha specificato che l’Ordinamento centrale dell’amministrazione della P.S. continua ad essere disciplinato dalle disposizioni della legge n.121 del 1981 e dalle altre disposizioni in materia;
  • che il d.P.R. n.398 del 7.9.2001, nel dettare disposizioni sull’organizzazione degli uffici centrali di livello dirigenziale generale del Ministero dell’Interno ha previsto che il Dip.to della P.S. è articolato, secondo i criteri di organizzazione di cui alla legge n.121 del 1981, in Direzioni Centrali ed Uffici di pari livello fra i quali (lett. “a”) la Segreteria del Dipartimento.
Alla sovra estesa configurazione e delineazione del quadro normativo, ratione temporis applicabile alla fattispecie in esame, accede la sicura infondatezza della doglianza in trattazione posto che, nell’organizzazione ministeriale, la Segreteria del Dip. to della P.S. non costituisce un Servizio (alla cui direzione è preposto un dirigente superiore o un Viceprefetto: qualifica quest’ultima rivestita dal sottoscrittore dell’atto impugnato) ma è un Ufficio di livello pari ad una direzione centrale (diretta da un dirigente generale). E’ dunque errata la tesi di parte ricorrente in cui si sostiene che solo il Capo di tale Segreteria (“che nel suo insieme costituisce il Servizio”) era, nel caso di specie, l’autorità competente all’irrogazione della sanzione disciplinare concretamente inflitta.
III.4)- Conclusivamente il primo dei ricorsi in epigrafe è manifestamente infondato e dunque da respingere.
IV)- La seconda domanda di giustizia origina, come in narrativa ricordato, dalla circostanza che la @@, in pendenza del giudizio introdotto dal primo dei ricorsi in epigrafe, presentava (escludendo peraltro acquiescenza alcuna avverso la misura punitiva sopra detta) istanza di riabilitazione ex art.87 del d.P.R. n.3 del 1957: istanza che, filtrata dal parere reso tanto dal Consiglio Centrale di Disciplina quanto dalla Commissione per il personale del Ruolo Ispettori della P.S., veniva respinta (traendone argomento dalla condivisibilità dei predetti pareri) con decreto direttoriale del 14.5.2007.
IV.1)- La prima censura evoca a sostegno la violazione dell’art.10 bis della legge n.241 del 1990; illegittimità questa che la ricorrente esclude sia sanabile per effetto dell’art.21 octies della stessa legge atteso che, ove fosse stata partecipata dalla p.a. dell’intendimento di respingere la propria istanza di riabilitazione, sarebbe potuta intervenire nel procedimento rappresentando circostanze idonee a mutarne l’esito.
La tesi, per quanto ampiamente articolata, non convince.
Occorre difatti tenere presente che la riabilitazione invocata dalla ricorrente si riflette, ove accordata dalla p.a., sulla sanzione disciplinare comportando la caducazione non della sanzione (che continua ad esistere) ma degli effetti dalla stessa rivenienti ( con esclusione di quelli di quelli retroattivamente già maturati); ci si trova di fronte, altrimenti detto, ad un procedimento sostanzialmente di secondo grado che non può essere in alcun modo assimilato alla reiezione di un'istanza di parte la quale unicamente costituisce, invece, l'oggetto della disciplina di cui all'art. 10-bis, cit. (cfr. sul principio: Tar Lecce n.3288 del 2006; Tar Salerno n.1215 e n.346 del 2006; Tar Lazio, I^, n.13562 del 2005; cfr., inoltre, per l’orientamento che esclude la tassatività dell’elenco dei procedimenti estranei alla sua applicazione indicato nell’art.10 bis: Cons.St.n.4828 del 2007; Tar Veneto, II^, n.3418 del 2005; Tar Milano, II^, n.587 del 2006; indirizzo questo cui presta adesione Cons.St. Comm. Spec. N.2518/2007 del 26.2.2008 che, specificamente, esclude la doverosità del preavviso di rigetto in materia di ricorso gerarchico).
La seconda censura prospetta dell’art.87 d.P.R. n.3/1957 un’esegesi che approda – ove sussistenti i requisiti, temporale (due anni dalla data della sanzione) e sostanziale (qualifica di “ottimo” nei rapporti riguardanti il dipendente nei predetti due anni), prescritti dalla norma – nell’assegnazione di natura rigidamente vincolata al provvedimento riabilitativo.
Ora, ed impregiudicata la contraddittorietà della corrente doglianza con quella precedente (in tanto ha senso lamentare la carenza dell’apporto partecipativo e l’impraticabilità dell’art.21 octies proprio in quanto l’atto finale non ha natura vincolata), la sua incondivisibilità deriva da una serena lettura dell’art.87 citato a mente del quale i due requisiti, temporale e sostanziale dianzi richiamati, costituiscono congiuntamente il presupposto che la norma richiede per poter invocare l’applicazione dell’istituto. Rimane dunque ferma la successiva valutazione amministrativa (la norma usa l’espressione: possono essere resi nulli” e “possono altresì essere modificati”) che spazia in un ambito ampiamente discrezionale e la cui manifestazione è sindacabile dal Giudice amministrativo ove illogica, irrazionale o viziata da evidente travisamento dei fatti.
Le residue doglianze della ricorrente assumono a riferimento i pareri resi dagli Organi collegiali sentiti in seno al procedimento ultimatosi col provvedimento avversato: pareri con i quali:
  • il Consiglio Centrale di disciplina, pur avendo accertato, che l’istante, nel febbraio 2005, era stata riabilitata dal richiamo oralmente impartitogli per mancanza analoga risalente al febbraio 1999, si è espresso in senso contrario alla concessione del beneficio premiale traendone argomento dalla sostanziale analogia delle mancanze nonché dal breve lasso di tempo trascorso dalla data dell’ultima sanzione;
  • la Commissione per il personale del ruolo degli Ispettori della P.S. si è espressa in senso contrario alla concessione della riabilitazione traendone argomento nella reiterazione, a breve distanza di tempo, di condotte analoghe e nella doverosa considerazione di tale “recidiva” alla luce della norma dell’art.87.
Uno dei profili di doglianza che, trasversalmente, investe entrambi i predetti pareri attiene alla violazione e falsa applicazione dell’art.87 del T.u. n.3 del 1957 la cui corretta interpretazione, ad avviso della ricorrente, avrebbe dovuto comportare la cancellazione di ogni effetto della condotta oggetto del beneficio premiale già concesso: il che non è stato con conseguenze inaccettabili sul piano giuridico.
La tesi della ricorrente non convince; e ciò in quanto l'istituto della riabilitazione, di cui all'art. 87 t.u. 10 gennaio 1957, n. 3, riguarda soltanto gli "effetti" delle sanzioni disciplinari, le quali continuano giuridicamente ad esistere, non essendo annullate o estinte dal successivo provvedimento riabilitativo. E’ d’altronde il Consiglio di Stato, pronunciandosi in ordine all’art.75 del d.P.R. n.545 del 1986 (che, con norma del tutto analoga a quello contenuta nel citato art.87 del T.U. n.3/1957, disciplina la cessazione degli effetti delle sanzioni disciplinari di corpo inflitte ai militari esplicitamente prevedendo che “In caso di accoglimento dell'istanza le annotazioni relative alla sanzione inflitta sono eliminate dalla documentazione personale, esclusa peraltro ogni efficacia retroattiva”) ha costantemente ribadito  il principio, perfettamente applicabile alla analoga fattispecie dell’art.87 del T.U. n.3/1957, secondo il quale (testualmente Cons.St. n.2403 del 2008)  “il tenore testuale della norma appare chiaro nell’elidere soltanto ogni efficacia retroattiva consentendo quindi che il provvedimento sanzionatorio possa coinvolgere anche gli sviluppi professionali…” del dipendente (cfr., altresì, Cons.St. nn.3351 e 2115 del 2005; n.7241 del 2002).  Altrimenti detto gli effetti delle sanzioni disciplinari – che rimangono impregiudicati sia dall’accoglimento dell’istanza mirata ad ottenere la loro cancellazione dalla documentazione matricolare (art.75 d.P.R. n.545 del 1986) che dall’accoglimento dell’istanza di riabilitazione di cui all’art.87 del d.P.R.n. 3 del 1957 – e la sopravvivenza giuridica delle sanzioni stesse consentono di ritenere non privi di rilevanza i fatti storici essenziali (id est: la condotta lesiva di doveri d’ufficio e la sua eventuale reiterazione) in tutti casi in cui le determinazioni discrezionali dell’amministrazione richiedono la previa ricostruzione (e l’apprezzamento) del profilo di personalità morale e professionale del dipendente ( o del militare). A tanto accede l’infondatezza di quei profili censori che con riguardo sia all’uno che all’altro dei pareri, ne assumono il contrasto con l’art.87 citato.
Seguono poi le censure specificamente rivolte avverso l’operato del Consiglio di disciplina ovvero della Commissione per il personale del ruolo degli Ispettori della P.S.
Il primo parere si ritiene viziato da contraddittorietà interna osservandosi che se fino a pochi mesi prima la ricorrente aveva fruito del beneficio premiale ( con ciò riconoscendosi il ravvedimento nella relativa condotta) “non si vede per quale motivo a breve distanza di tempo”  –e di fronte a condotta ineccepibile della dipendente -   tale ravvedimento sarebbe venuto meno impedendole di conseguire la riabilitazione; si ravvede inoltre una lacuna motivazionale nella mancata considerazione delle circostanze di fatto che avevano originato la misura sanzionatoria.
La prima deduzione coglie un elemento di apparente distonia nell’impianto del parere che però non consente di condividerne l’assunta illogicità; e ciò in quanto essa evoca un vizio del quale potrebbe ritenersi affetto il precedente beneficio premiale ( accordato nonostante la reiterazione di analoga condotta a breve distanza di tempo) ma non l’attuale parere che ha preso atto non solo della concessione del beneficio ma anche della rinnovazione della condotta e del lasso di tempo (intercorso tra quest’ultima e la richiesta del beneficio), ritenuto ancora insufficiente ad assicurare la meritevolezza della riabilitazione. Né, contrariamente all’assunto della ricorrente, il Consiglio avrebbe dovuto riesaminare le circostanze di fatto che avevano originato il provvedimento disciplinare trattandosi di circostanze afferenti ed inerenti il relativo procedimento e del tutto estranee all’ambito valutativo proprio dell’istituto premiale di cui trattasi.
Il secondo parere si ritiene viziato – oltre che per l’indebita considerazione riservata alla precedente sanzione disciplinare (profilo questo da ritenersi infondato per le considerazioni già sviluppate e cui si rinvia) – per l’interpretazione (in esso parere contenuta) della sanzione disciplinare impartita alla @@: sanzione che, assume parte ricorrente, non contiene, contrariamente a quanto inteso dalla Commissione, alcun riferimento ad una pretesa recidiva nella condotta.
Sennonché tale trama – che fa discendere il vizio inficiante dall’erronea lettura del provvedimento sanzionatorio cui si riferisce la riabilitazione– non trova concorde il Collegio. E ciò in quanto la considerazione della pregressa mancanza della ricorrente rinviene, in seno alla misura punitiva, testimonianza in due puntuali elementi:
  • l’evocazione, nel suo dispositivo, al fatto che la punizione inflitta è la seconda;
  • il richiamo, nel suo preambolo, all’art.13 del d.P.R. n.737 del 1981 che impone all’Autorità competente, nel graduare la sanzione alla mancanza commessa, di tenere conto “dei precedenti disciplinari….”.
IV.2)- Conclusivamente anche il secondo dei ricorsi in epigrafe è infondato e deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio sez. I^ ter, previa riunione dei ricorsi in epigrafe, respinge gli stessi.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite che, forfetariamente, liquida in €1500,00 a beneficio della resistente amministrazione.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso, in Roma, dal Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio sez. I^ ter nella Camera di Consiglio del 19.6.2008, con l’intervento dei sigg.ri Giudici :
Dott. Patrizio Giulia - Presidente
Dott. Pietro Morabito - Giudice rel.ed est.re
Dott. Ada Russo - I° Referendario
IL PRESIDENTE
IL MAGISTRATO ESTENSORE
 

 

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