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lunedì 23 agosto 2010

Fondo di solidarietà per i mutui per l'acquisto della prima casa

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Da Reggio Emilia a Genova: polizia e impunità nella storia d'Italia

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Dagli scontri in piazza durante il governo Tambroni al G8 del 2010 di Genova, troppi i casi di abuso da parte delle forze dell'ordine nella storia del nostro paese



di Giuliano Giuliani

pistole (immagini di flickr - foto di barjack)

Il 7 luglio scorso sono stato a Reggio Emilia. Cinquant’anni trascorsi, e l’unica sentenza emessa è ancora “assolti per non aver commesso il fatto”: si saranno sparati fra loro quei cinque, ai punti cardinali della grande piazza dei Teatri, interi caricatori per lasciare per terra più di cinquecento bossoli.



Lo ricordano con tristezza i familiari di Afro, Emilio, Lauro, Marino, Ovidio: tristezza per un paese che fatica ad accettare la verità, a riconoscere la giustizia. Lo ricordano con l’orgoglio e la convinzione che i loro cari avessero fatto la cosa giusta nel posto giusto. E gli altri? I carabinieri e i poliziotti che hanno sparato le raffiche ad altezza d’uomo, che hanno preso la mira, che hanno sparato per uccidere persone inermi che volevano soltanto manifestare? Sì, gli altri, gli assassini? Hanno solo obbedito a un ordine o ci hanno messo (anche) del loro? Se ne è discusso a Genova sette giorni prima, ricordando il 30 giugno, quando un moto di popolo impedì l’offesa alla città medaglia d’oro della Resistenza di un congresso del Msi celebrato dal gerarca fascista responsabile dell’uccisione di partigiani e della deportazione nel ’44 di 1.600 operai nei lager nazisti.



Quello stesso Msi che consentiva col suo voto determinante l’esistenza del primo governo di destra dell’Italia repubblicana, il governo Tambroni. A Genova l’attitudine violenta dei reparti fu sconfitta dalla straordinaria partecipazione giovanile e operaia, incontro di generazioni: i ragazzi dalle magliette a strisce e i padri metalmeccanici e portuali che la Resistenza l’avevano fatta e vissuta. A Reggio Emilia, si è detto, i comandi hanno voluto accreditarsi, e molti lo hanno fatto senza troppi problemi: uno degli esiti non sufficientemente valutati della pacificazione era stato che una serie di vecchi arnesi del fascismo e della repubblica di Salò erano tornati ai loro posti.



Ma a sparare sono stati in molti, troppi, e allora non si sfugge alla constatazione che era emersa una voglia diffusa di vendetta per l’umiliazione subita a Genova e che aveva coinvolto anche i celerini e la truppa, quella stessa voglia di vendetta che in quegli stessi giorni fece uccidere Vincenzo a Licata; Andrea, Francesco, Giuseppe e Rosa (aveva 53 anni e stava chiudendo la finestra di casa) a Palermo; Salvatore a Catania. I due decenni successivi a questo vedono un paio di tentativi di colpi di Stato ai quali si prestano alcuni reparti; soprattutto inizia la fase dello stragismo, e poi del terrorismo ambiguo, sempre e comunque dalla parte sbagliata.



L’inaccettabile elenco dei morti ammazzati (difficile non rischiare di dimenticarne qualcuno) si allunga, rendendo persino banale la distinzione pasoliniana tra proletari (gli agenti) e borghesi (gli studenti). Se non su un punto: che quello dei poliziotti doveva essere considerato un lavoro portatore di diritti. Alle straordinarie conquiste civili e democratiche degli anni settanta (aborto, divorzio, Statuto dei lavoratori) si associa così quella della democratizzazione della polizia: smilitarizzazione e sindacato. Ricordo ancora quella grande manifestazione della Cgil a Milano, con Luciano Lama.



Poi, come succede spesso, una conquista viene considerata come acquisita per sempre: non è così. Lo abbiamo visto a Genova nel luglio del 2001. Erano trascorsi 24 anni dall’uccisione di Giorgiana Masi nelle strade di Roma e non era più accaduto che un giovane venisse ammazzato nel corso di una manifestazione. C’è chi ricorda che a Napoli, qualche mese prima, si era corso il rischio, e che i comportamenti nella piazza, alla caserma Raniero, negli ospedali non lasciavano prevedere nulla di buono. Tuttavia a Genova è proprio diverso. Ciò che avviene è preparato, la strategia è studiata. Non per niente al governo c’è di nuovo la destra. Si lasciano agire indisturbati piccoli gruppi di devastatori (molte immagini lasciano pensare che le infiltrazioni abbiano contribuito alle imprese) allo scopo di far accogliere la successiva repressione di manifestanti con l’applauso da parte di una opinione pubblica narcotizzata dai media di regime.



Insomma, avviene quello che, in un’intervista concessa al Quotidiano nazionale il 23 ottobre 2008, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che se ne intende, descriverà con dovizia di particolari: “Ritirare le forze di polizia dalle strade, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco la città”. “Dopo di che?”, chiede l’intervistatore. “Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri”. Della violenza di Genova colpiscono la brutalità con la quale gruppi di carabinieri, poliziotti e finanzieri si accaniscono per strada su singoli manifestanti inermi e indifesi, e anche la sproporzione numerica fra i picchiatori e chi cerca in qualche modo di riportarli alla ragione.



È solo uno sfogo di frustrazioni o c’è un nesso con la formazione e l’orientamento? Perché a Carlo, dopo averlo colpito a morte, spaccano la fronte con una pietrata per poter accusare un manifestante di averlo ucciso con il suo sasso? Perché i carabinieri dei reparti speciali festeggiano nel loro acquartieramento la giornata del 20 luglio cantando “faccetta nera” e nessuno dice niente? Perché a Bolzaneto torturano? Perché alla scuola Diaz il reparto mobile di Roma pratica la “macelleria messicana?”.



Chi sta sotto a volte guarda in alto. Non ricava l’esempio migliore, anzi. Tutti promossi, premiati, decorati. Quelli in carriera militare con le stellette d’oro e d’argento e le onorificenze al merito. Gli altri con incarichi prestigiosi ai vertici dei servizi. E anche quando arrivano le condanne di appello scattano subito le manifestazioni di stima da parte della destra di governo. Non c’è che ricavarne un’indicazione di impunità, meglio ancora, di impunibilità. Dall’inizio dell’anno il carcere ne ha suicidati più di trenta. Sui muri di Roma un manifesto sollecita inquietudine. Ci sono le fotografie di Carlo, Federico, Gabriele, Stefano, e una scritta: il prossimo potresti essere tu. Poi picchiano i terremotati dell’Aquila e gli operai di Milano. E ci si comincia finalmente a chiedere perché. Occorre ritornare agli anni del rilancio democratico. Deve farlo la politica, ma la buona politica, oggi, è merce rara.
 
 
fonte
http://www.rassegna.it/articoli/2010/08/10/65585/da-reggio-emila-a-genova-polizia-e-impunita-nella-storia-ditalia

Polizia e democrazia

A quasi trent’anni dalla riforma della Polizia, il processo di democratizzazione pare in crisi. Riaffiorano vecchie abitudini e prassi reazionarie. Cosa sta succedendo? Intervista a Donatella Della Porta, sociologa dell’Istituto universitario di Firenze




di Stefano Iucci

autore: crossing universe, da flickr (immagini di Carlo Ruggiero)

Cosa sta succedendo alla nostra polizia? A quasi trent’anni dalla riforma del corpo, con la sua smilitarizzazione e la sindacalizzazione degli agenti, il processo di democratizzazione pare in crisi. Sembrano riaffiorare vecchie abitudini e prassi reazionarie, sia sul versante del controllo delle proteste di massa – con le verità sempre più sconcertanti sul G8 di Genova che goccia a goccia continuano a stillare, o la durezza mostrata con i terremotati abruzzesi o, ancora, con gli operai milanesi della Mangiarotti travolti dalla crisi e che qualche giorno fa chiedevano di essere ricevuti dal prefetto – sia su quello della repressione individuale, con i casi Aldovrandi e Cucchi, che per la verità non riguardano solo la polizia ma il complesso delle nostre forze dell’ordine.



Pare quasi, insomma, che la polizia dei cittadini, quella che faticosamente stava riuscendo a scrollarsi di dosso la pesante dicotomia sottolineata con una torsione polemica da Pasolini (celerino proletario vs contestatore borghese) sia sempre più spesso “coperta”, nascosta da atteggiamenti individuali e strategie politiche che ci riportano indietro di parecchi anni. Di questo tema abbiamo discusso con Donatella Della Porta, che insegna Sociologia all’Istituto universitario europeo di Firenze ed è autrice di importanti studi su polizia e ordine pubblico, tra i quali va citato almeno La protesta e il controllo. Movimenti e forze dell’ordine nell’era della globalizzazione, Terre di Mezzo, 2004.



“Condivido la sua analisi – dice al Mese –. Il fenomeno ha una dimensione non solo italiana ma internazionale. Tra gli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta il controllo della protesta è stato perseguito con strategie pragmatiche, fondate sul negoziato piuttosto che sullo scontro. Alla base di questa prassi c’era, come lei diceva, l’idea di una polizia democratica, una polizia dei cittadini. Poi però qualcosa è cambiato”.



Il Mese Quando è iniziato questo mutamento?



Della Porta Direi che i primi indizi risalgono alla fine degli anni novanta. È a questo punto che ha iniziato a farsi largo un’idea diversa, non più indirizzata a cercare di scongiurare all’origine i possibili disordini, ma orientata alla cosiddetta tolleranza zero che, secondo i suoi sostenitori, aveva registrato ottimi risultati nel controllo della criminalità di strada.



Il Mese E qui c’è già uno slittamento di senso: la protesta come forma di criminalità.



Della Porta Sì. Inoltre questa ideologia ha portato a tollerare sempre di meno. Vede, la protesta è sempre una sfida all’ordine pubblico, il punto è capire fino a che punto lasciar arrivare questa sfida. In questi stessi anni, poi, alla filosofia della tolleranza zero si è aggiunta quella, elaborata da alcuni penalisti, della “dottrina del nemico”: l’Altro è un estraneo da colpire, se necessario. Tutto questo, anche all’interno di alcuni settori della polizia, ha comportato una certa insofferenza verso l’idea della tolleranza. Un ripensamento critico che è iniziato rispetto ai conflitti negli stadi e che ha avuto i suoi primi effetti, anche organizzativi, a Genova nel 2001: squadre speciali, addestramenti tecnici particolari per l’ordine pubblico e una nuova forma di militarizzazione sia in termini di equipaggiamento (le cosiddette “armi meno letali”, che però sempre armi sono) che di addestramento.



Il Mese Prima però lei parlava di una dimensione anche internazionale di questo fenomeno involutivo.



Della Porta Certamente. Non si possono dimenticare gli effetti degli eventi collegati all’11 settembre, con il nuovo armamentario legislativo che a un certo punto ha iniziato ad essere utilizzato anche per affrontare problemi di ordine pubblico. Quindi non solo una nuova tipologia repressiva, ma anche nuovi reati utilizzati per colpire la protesta, per cui spesso si passa dal disturbo dell’ordine pubblico all’insurrezione armata.



Il Mese Qual è il suo giudizio sulla riforma della polizia contenuta nella legge 121 dell’81? Quali i suoi limiti?



Della Porta Sin dall’inizio anche esponenti molto in vista del movimento dei poliziotti democratici, quelli che fortemente la caldeggiarono, la giudicarono incompleta, a cominciare dai diritti dei poliziotti come lavoratori. Al contempo si è assistito a una moltiplicazione di sindacati, molti dei quali autonomi e assai particolaristici. Tutto questo ha talvolta favorito una sorta di cogestione in forma clientelare, ad esempio, di trasferimenti e promozioni. Credo, inoltre, che siano mancati interventi che potevano avere una funzione molto positiva nel percorso verso una polizia dei cittadini, con una scarsa attenzione alla formazione democratica dei poliziotti e, dall’altra parte, una ridotta trasparenza dei diritti dei cittadini rispetto all’intervento della polizia. In sintesi estrema, secondo me questi limiti hanno ridotto i diritti democratici sia dei poliziotti sia dei cittadini.



Il Mese Perché, secondo lei, è avvenuto questo?



Della Porta Innanzitutto la riforma è stata frutto di continui compromessi. Alla grande apertura e disponibilità dei sindacati ha corrisposto una tendenza a frenare, a limitare i danni, da parte dei partiti allora al governo, in particolare la Dc. Anche per questo altre importanti forze di polizia, come i carabinieri, non sono state fatte rientrare nella riforma. Credo che anche la sinistra, però, abbia sottovalutato la necessità di riforme più profonde anche dal punto di vista dell’organizzazione, della struttura e della cultura dei poliziotti: il fatto, cioè, che non bastasse per gli obiettivi che si volevano raggiungere democratizzare il corpo e creare vertici “migliori”.



Il Mese Torniamo al problema dell’ordine pubblico. Come dovrebbe gestire una polizia moderna i conflitti presumibilmente crescenti in un’epoca in cui le contraddizioni della globalizzazione, e i suoi effetti locali, sembrano esplodere?



Della Porta Tenendo conto che il conflitto non è mai eliminabile del tutto e che nei momenti di escalation e radicalizzazione i contrasti con la polizia sono inevitabili, io direi che il modello precedente il G8 di Genova ha dato ottime prove e dunque rimane assolutamente attuale. Si tratta di un modello basato sul negoziato preventivo e sul riconoscimento della priorità del diritto di manifestare. È lo schema più adatto a produrre quella che i tecnici chiamano de-escalation del conflitto: quando per esempio a Genova si manifesta con le tute bianche vuol dire che è maturata un’idea di un non scontro con le forze dell’ordine. Si dirà che questo modello aveva funzionato in un contesto di conflitti moderati, ma questo non è del tutto esatto. Intanto, perché è stato lo stesso modello – fatto di colloqui e negoziati formali e informali con gli esponenti della piazza – ad aver favorito questa moderazione, e poi perché, si ricorderà, quelli erano periodi niente affatto tranquilli. Eravamo nel mezzo del crollo della Prima Repubblica, con una classe politica totalmente screditata: una situazione potenzialmente gravida di rischi per l’ordine pubblico. Già a Napoli, prima di Genova, c’erano stati segnali d’insofferenza verso questa strategia. Ma il fastidio di alcuni settori della polizia verso questo modello “moderato” è nato soprattutto negli stadi, rispetto ai rapporti con il tifo violento e agli ultras che creavano spesso insofferenza e frustrazione tra gli agenti in servizio. Tutti ricordano le frasi che si dicevano: “Non possiamo fare niente, non possiamo intervenire. Stiamo lì fermi a farci tirare monetine”.



Il Mese Quindi lei propone il ritorno a “prima di Genova”?



Della Porta Sì, ma attenzione, quell’idea è assolutamente attuale. E lo dimostra il fatto che, grazie al grande impegno in prima persona del prefetto Serra, è stata ripresa con grande successo per il Social forum di Firenze del 2002, quando, si ricorderà, tutti avevano una gran paura di quello che sarebbe potuto succedere, e che invece non è accaduto proprio perché è stata adottata una strategia di controllo negoziato. Una strategia valida sempre, anche perché la sovrapposizione tra ordine pubblico, controllo della protesta e pericolo terroristico è del tutto ideologica e priva di fondamento.



Il Mese Nella formazione di un poliziotto democratico rivestono un ruolo cruciale formazione e informazione. Dalle ricostruzioni che continuano a fioccare su Genova 2001, in particolare sulle informazioni che i poliziotti ricevevano sui “cattivi” dimostranti, pare di essere in un’altra epoca storica. Lei stessa riporta in un suo saggio una nota del Sisde del 20 marzo 2001 che annuncia l’utilizzo di palloncini contenenti sangue infetto, almeno in parte umano, raccolto con la complicità di medici, veterinari e infermieri, che sarebbero stati lanciati nel corso della manifestazione. O anche la testimonianza di un poliziotto dopo l’uccisione di Carlo Giuliani: “La tensione tra noi era alle stelle: per tutta la settimana precedente ci avevano detto che i manifestanti avrebbero avuto pistole, che ci avrebbero tirato sangue infetto e biglie all’acido”.



Della Porta Mi concentrerei soprattutto sul problema della formazione. Che è scarsa o poco efficace sui diritti umani e politici e sul necessario background culturale, ed è quasi sempre concentrata sull’addestramento tecnico. Certo, va detto che in Italia molto spesso i dirigenti sono laureati, e dunque si sono formati fuori. Ma questo non basta. Il problema non è che tutti i poliziotti siano violenti e dediti alla repressione – cosa assolutamente falsa –, ma che siano molto scarsi gli anticorpi capaci di fronteggiare deviazioni sempre possibili in un lavoro come questo. Basti pensare alla tensione e allo stress che i poliziotti vivono in molte situazioni, e anche al fatto che spesso, quando si è in strada e si deve agire immediatamente, il controllo gerarchico si allenta, è più difficile da esercitare e l’agente gode di una notevole libertà d’azione. A Genova, ad esempio, uno degli eventi che ha scatenato il finimondo è stato l’intervento dei carabinieri contro le tute bianche, e l’incapacità della centrale operativa di contattarli e frenarli. In questi casi a funzionare da anticorpo è la forte consapevolezza dei diritti di manifestazione, e la capacità di gestire un rapporto non autoritario con l’altro: tutti aspetti sui quali però si deve essere ben formati e preparati. In Germania, per esempio, anche se la situazione è molto diversa a seconda dei singoli Länder, sin dal dopoguerra la polizia è molto più aperta su questo fronte. Ci sono gruppi di poliziotti critici che tengono costantemente sotto osservazione il comportamento dei propri colleghi, mentre si è in generale più aperti sui temi dei diritti e della cultura democratica. Basti pensare che esistono gruppi di poliziotti dichiarati apertamente gay.



Il Mese Ultimamente capita che ad essere colpiti nella repressione di piazza siano gli operai che lottano per il proprio posto di lavoro. Ultimamente è toccato ai dipendenti della Mangiarotti. Come si spiega questo?



Della Porta Negli anni novanta gli operai erano tra i gruppi che in piazza la polizia trattava con più rispetto: si capiva che lottavano per i propri diritti. Oggi la costante offensiva per la riduzione dei diritti del lavoro e sindacali, e il tentativo di porre limiti sempre più forti al diritto di sciopero, ha finito per produrre una sorta di delegittimazione culturale di queste proteste.
fonte:
http://www.rassegna.it/articoli/2010/08/10/65582/polizia-e-democrazia