ANSA/ Ha 40 anni la 'Sindrome di Stoccolma'
Nel'73 rapina che diede origine a termine noto in tutto il mondo
(di Maria Novella Topi)
(ANSA) - ROMA, 21 AGO - Il 23 agosto del 1973 un uomo biondo
e dal viso ordinario fece irruzione nella sede della Banca di
credito svedese a Stoccolma per compiervi una rapina. In quel
momento nell'istituto si trovavano tra gli altri quattro giovani
donne. Ne' l'uomo, ne' quelle che poche ore dopo sarebbero
diventate suoi ostaggi, potevano immaginare che quella storia,
in realta' cosi' comune, avrebbe dato il nome ad un comportamento
psicologico noto in tutto il mondo come 'Sindrome di Stoccolma'.
Jan Erik Olsson, a quell'epoca 32/enne, era un ladruncolo di
piccolo cabotaggio ed era in permesso dal carcere della capitale
svedese dove era detenuto per furto. Tento' la rapina in una
mattinata di sole ma si rese subito conto che avrebbe dovuto
compiere un salto di qualita' nel suo percorso criminale. Decise
di tirare fuori le armi, di sequestrare le quattro impiegate e
chiese di essere 'affiancato' da uno dei piu' noti criminali
svedesi del momento, Clark Olofsson, 26 anni. Poi diede il via
alle operazioni affermando beffardamente: ''La festa e' solo
all'inizio!''.
La crisi degli ostaggi di Stoccolma, che duro' sei giorni, fu
il primo avvenimento di cronaca nera ad essere diffuso dalle
televisioni in tutta la Svezia ed ebbe quindi un risvolto
spettacolare assolutamente imprevisto, anche se si risolse con
la riconsegna degli ostaggi sani e salvi e con la resa dei
rapinatori.
Ma cio' che turbo' l'opinione pubblica inchiodata davanti alla
tv e con la radio incollata alle orecchie, fu l'atteggiamento
delle vittime del sequestro, anch'esso totalmente imprevisto.
Oggi Olsson - che viene descritto come un pacifico pensionato di
72 anni - racconta cosi' il rapporto con quelle donne
nell'angusto corridoio tappezzato di moquette della banca. ''Gli
ostaggi mi erano sempre piu' o meno vicini, praticamente mi
proteggevano e cosi' la polizia non poteva spararmi'', ha detto
alla Afp. ''Anche quando andavano in bagno, dove la polizia
avrebbe potuto intervenire per salvarle, alla fine tornavano
sempre''.
C'era, emerse subito, uno strano legame tra sequestratori e
sequestrate successivo alla paura iniziale che Olsson aveva
cercato di incutere loro; c'era, lo disse subito l'ostaggio
Kristin, un capovolgimento del senso comune: ''Lo capite che non
ho paura di Clark e di quell'altro tizio, lo capite che ho solo
paura della polizia? Ci crediate o no noi qui non stiamo male'',
grido' nel telefono agli agenti la' fuori.
Ce n'era abbastanza perche' lo psichiatra americano Franck
Ochberg si occupasse della vicenda e coniasse il termine
'Sindrome di Stoccolma', ad indicare che c'era qualcosa di non
sano nell'attaccamento tra vittima e carnefice nato nel buio
corridoio in quei sei giorni.
Un disagio - oggi il termine e' abusato, in Italia si usa
persino in politica - che si regge su tre pilastri, secondo lo
studioso: attaccamento che puo' sconfinare nell'amore,
reciprocita' tra i due protagonisti e immedesimazione, disgusto
nei confronti del mondo esterno, quasi vi fosse un 'noi e loro'
che separa i protagonisti della vicenda estrema dalle persone
normali, 'quelle la' fuori'.
Da allora quando l'animo umano si conferma insondabile,
innumerevoli volte in tutto il mondo si e' evocata la sindrome
coniata da Ochberg, perche' resta difficile ad un osservatore
comune penetrare e comprendere casi come quello di Patricia
Hearst, ricca ereditiera americana diventata guerrigliera
simbionese, o dell'austriaca Natascha Kampusch sequestrata per
anni dal padre aguzzino, o ancora dell'italiana Giovanna Amati
vittima di un sequestro dei marsigliesi, o come l'ultima
terribile realta' emersa a Cleveland, dove per decenni mostri
come Ariel Castro e i suoi fratelli hanno tenuto in cattivita'
tre giovani donne. (ANSA).
TV
21-AGO-13 16:35 NNNN
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