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martedì 26 marzo 2013

IMPIEGO ALLE DIPENDENZE DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - ILLEGITTIMA DESTITUZIONE DALL'INCARICO - RESPONSABILITA' DELL'ENTE PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE DERIVANTE DALLA PRIVAZIONE DELLE MANSIONI




IMPIEGO ALLE DIPENDENZE DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - ILLEGITTIMA DESTITUZIONE DALL'INCARICO - RESPONSABILITA' DELL'ENTE PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE DERIVANTE DALLA PRIVAZIONE DELLE MANSIONI

Il dott. G. A. - inizialmente sospeso, poi dichiarato decaduto ed infine destituito dall'impiego di primario incaricato del reparto di cardiochirurgia infantile con provvedimenti del consiglio di amministrazione dell'Ospedale (omissis) emessi tra il 1976 ed il 1977, e reintegrato in servizio nel 1984 a seguito dell'annullamento di tali provvedimenti da parte del giudice amministrativo - convenne in giudizio, con citazione del 1987, il Comune e la Usl (omissis) e successivamente anche la (omissis), chiedendone la condanna al risarcimento del danno, in cinque miliardi di lire, conseguente all'assenza coatta dal servizio, protrattasi per otto anni, danni che indicò nella perdita della possibilità di partecipare a concorsi, di operare, di clientela e di offerte di insegnamento universitario, nella caduta dell'immagine professionale, nel venir meno di inviti a congressi.
Resistendo i convenuti, con sentenza 451/93 l'adito Tribunale di Massa, riconosciuta la legittimazione passiva della (omissis) e della Usl, rigettò tuttavia la domanda per difetto di prova del dolo o colpa degli amministratori pubblici che avevano emesso i provvedimenti poi annullati.
La decisione fu confermata dalla Corte di appello, ma la pronuncia fu cassata con rinvio da questa C. S. (sentenza 9700/97), che affermò il principio che la p.a. è tenuta a risarcire i danni cagionati a privati con provvedimenti poi dichiarati illegittimi.
La causa fu riassunta dall'A., nel 1998 nei confronti della Regione (omissis) e della Asl (omissis), nonché, ma solo per le spese di lite, del Comune di Massa.
Con la sentenza, ora gravata, il giudice del rinvio, esclusa la legittimazione passiva - così qualificata - dell'Azienda Usl (omissis) ha condannato la sola Regione (omissis) quale successore nelle obbligazioni della cessata Usl (omissis) al risarcimento del danno liquidato in lire 350.000.000 oltre accessori, ed ha condannato l'A. al pagamento delle spese processuali nei confronti della predetta Azienda
Per quanto ancora interessa la Corte ha osservato che, non essendo stati provati, e neppure prospettati, fatti configurabili come reati, non si poneva il problema della rifusione di danni non patrimoniali; gran parte del danno emergente, riferibile alle obbligazioni nascenti dal rapporto di pubblico impiego, risultava già refuso a seguito di transazione per la lesione dei diritti della personalità era equa la somma di lire 350 milioni tenuto conto della seria "ferita" alla fama ed all'immagine del cardiochirurgo ma anche della circostanza che i provvedimenti amministrativi sopra indicati erano stati annullati non per riconosciuta inesistenza o falsità degli addebiti, ma solo per difetto di motivazione, tanto che la Corte dei conti aveva mandato assolti gli amministratori ospedalieri dell'epoca dagli addebiti oggetto del relativo giudizio di responsabilità; mancavano prove adeguate del lucro cessante; l'A. aveva bensì perduto la possibilità di partecipare a concorsi, e tuttavia, per quanto concerne lo stesso ospedale (omissis), egli, dopo la riammissione in servizio, era stato messo in condizione di concorrere ma aveva presentato la domanda fuori termine mentre nulla indicava un suo interesse a ricoprire posti presso altri ospedali; alla stregua della sentenza 1712/95 delle Sezioni Unite, la rivalutazione della somma liquidata decorreva dalla data del fatto illecito, determinata nel 1984, mentre gli interessi, nella misura del 6%, erano dovuti sulle somme annualmente risultanti in dipendenza della rivalutazione Istat, con cadenza annuale a decorrere dalla data suddetta.
Per la cassazione di tale decisione l'A. ha proposto ricorso, affidato a cinque motivi, cui l'Asl e la Regione resistono con distinti controricorsi. Quest'ultima ha contestualmente proposto ricorso incidentale. Il Comune non ha svolto attività difensiva il ricorrente principale ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
 I due ricorsi, iscritti con numeri di ruolo diversi, devono essere riuniti (art. 335 c.p.c.) perché investono la medesima sentenza. Il ricorso incidentale - il cui esame dovrebbe precedere quello del ricorso principale perché ha ad oggetto una questione, la titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio, logicamente antecedente le censure elevate dal ricorrente principale in ordine alla liquidazione del danno ed alle spese - è inammissibile.
La Regione (omissis), controricorrente e ricorrente incidentale, risulta infatti rappresentata e difesa come da mandato in calce al ricorso notificato e, dunque, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, irritualmente, mancando la certezza dell'effettivo rilascio del mandato in data anteriore o coeva alla notificazione dell'atto (da ultimo, Cass. nn. 4991, 7432 e 7998 del 2002); tale modalità di conferimento resta tuttavia valida ai soli fini della costituzione della parte e della avvenuta partecipazione del difensore alla discussione, partecipazione che peraltro non consente il riesame di tale questione in difetto di valido ricorso incidentale. La Corte del merito ha negato all'A. il risarcimento del danno non patrimoniale con il rilievo che non era stata provata e neppure prospettata "l'insorgenza di fatti configurabili come reato" punto della decisione investito dal primo motivo del ricorso principale, con il quale il ricorrente deduce la violazione dell'art. 2043 c.c. osservando che egli aveva denunciato la lesione del valore della propria persona in senso soggettivo, del proprio personalissimo diritto alla identità personale ed alla dignità, tutelato dall'art. 2 Cost., e richiamando poi, in memoria, la sentenza n. 8828 del 2003 di questa Corte suprema. La censura è fondata. Nel decidere come sopra alla stregua del dato ritenuto assorbente, della non configurabilità di ipotesi di reato a carico degli amministratori pubblici autori degli atti amministrativi poi annullati e dai quali è derivato il danno posto a fondamento della domanda, la Corte territoriale ha tuttavia, e sia pure solo implicitamente, ritenuto sussistente il danno in questione.
Ciò, del tutto legittimamente, avendo questa Corte Suprema affermato (sentenza n. 10 del 2002) che la negazione o l'impedimento allo svolgimento delle mansioni al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato (vedansi anche Cass., sez. lavoro, nn. 8835/91, 13299/92 11727/99, 14443/00, 12553/03): affermazioni dalle quali la stessa Corte ha talora tratto che il danno cagionato dalla lesione di tale diritto è risarcibile anche se esso è di natura non patrimoniale (Cass. n. 1026/97; Cass. n. 10/02, già citata, ha precisato che l'affermazione di un valore superiore della professionalità direttamente collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale in qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove fosse stata fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale).
Sul piano generale, deve rilevarsi che danno patrimoniale e danno non patrimoniale furono disciplinati dal legislatore del 1942 rispettivamente agli artt. 2043 e 2059 c.c., norma, quest'ultima, che limitò il risarcimento ai soli "casi determinati dalla legge": lettera della legge che ha indotto la Corte territoriale a negare nella specie il chiesto risarcimento. Il quadro normativo è, però, successivamente e profondamente mutato: l'art. 2 della Costituzione, di ispirazione democratica e liberale, riconosce e garantisce infatti i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità mentre diverse norme ordinarie (ad esempio l'art. 2 legge n. 89 del 2001 sul mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo) assicurano il risarcimento del danno non patrimoniale oltre la previsione degli artt. 185 c.p. e 89 c.p.c. cui il citato art. 2059 si riferisce.
Sono queste - unitamente agli interventi della Corte costituzionale, ad esempio in materia di danno biologico - le ragioni per le quali di recente (sentenza n. 8828 del 2003) questa stessa Corte ha affermato, interpretando l'art. 2059 c.c. in senso conforme alle norme costituzionali, ad esso sovraordinate, che il danno non patrimoniale, che detta disposizione contempla, comprende oltre al danno morale soggettivo anche ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di un valore inerente alla persona costituzionalmente garantito, dalla quale derivino effetti dannosi insuscettibili di valutazione economica senza che sia necessario che tale lesione configuri reato. Tali affermazioni devono essere condivise. Come questa C. S. ebbe a rilevare (sent. n. 3563 del 1996), peraltro in tema di danno biologico, esso è immanente al fatto illecito lesivo dell'integrità biopsichica del danneggiato, a differenza delle conseguenze patrimoniali derivanti dalla stessa lesione, trascendenti lo stesso fatto.
Tali rilievi devono essere estesi dalla tutela del diritto alla salute alla lesione di ogni altro valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, e comportano pertanto il risarcimento del danno relativo, indipendentemente dai riflessi patrimoniali della stessa lesione, che costituiscono una voce di danno eventuale, autonoma ed aggiuntiva. Nella specie il ricorrente allega la violazione non dell'art. 2059 c.c. ma dell'art. 2043 c.c.: profilo, peraltro, non ostativo all'accoglimento del motivo, decisiva in tal senso essendo la prospettazione di un danno non patrimoniale. Sul punto, l'impugnata sentenza deve pertanto essere cassata, con rinvio ad altro giudice che riesaminerà il corrispondente motivo d'appello attenendosi a tali criteri. Con il secondo motivo il ricorrente censura la quantificazione in lire 350 milioni del risarcimento del danno patrimoniale all'immagine sia all'interno che all'esterno della struttura ospedaliera, quantificazione che afferma viziata nella motivazione.
Il motivo è infondato. Trattasi, infatti, di liquidazione equitativa, compiuta dalla Corte territoriale alla stregua della notorietà del danneggiato e della condotta dei danneggianti, condotta che la stessa Corte ha valutato con riferimento all'annullamento solo per vizi di motivazione dei provvedimenti da essi adottati e l'assoluzione da ogni addebito di responsabilità amministrativa, pronunciata dalla Corte dei conti.
Diversamente da quanto preteso dal ricorrente, in tali affermazioni non è ravvisabile alcun vizio logico o giuridico, non senza rilevare che lo stesso ricorrente sollecita nella sostanza il riesame, inammissibile in questa sede di legittimità, della entità del danno subito e della corrispondente traduzione pecuniaria. Fondato è invece il terzo motivo, con il quale il ricorrente afferma che la decorrenza di interessi e rivalutazione doveva datare dal 1976, in cui fu allontanato dal servizio, e non dal 1984, come invece stabilito in sentenza. Il fatto illecito, a carattere permanente, ebbe infatti a verificarsi appunto nel 1976 e si protrasse fino al 1984 - anno della riammissione in servizio -, donde la manifesta erroneità, sul punto, della decisione.
La stessa Corte ha negato il risarcimento del lucro cessante con il rilievo che, sebbene fosse astrattamente ipotizzabile, esso non era stato però provato dall'A. con consistenti elementi dimostrativi di un'apprezzabile diminuzione reddituale in dipendenza dei fatti di cui è causa, ed in particolare ha affermato che egli, dopo la riammissione in servizio, pur messo in condizioni di concorrere al primariato, presentò la domanda fuori termine.
Con il quarto motivo il ricorrente censura tali affermazioni addebitando alla Corte territoriale di avergli ascritto un comportamento omissivo in realtà insussistente, e di avere cosi travisato il fatto. La censura è inammissibile perché l'errore addotto è da natura revocatoria e, pertanto, avrebbe dovuto essere fatto valere nella diversa e competente sede ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c. (da ultimo, in tal senso, Cass. n. 1512/03). L'accoglimento del primo e terzo motivo del ricorso principale non comporta l'assorbimento del quinto motivo dello stesso ricorso, che concerne il regolamento delle spese nei rapporti tra il ricorrente e l'Asl, giacché, per effetto della declaratoria di inammissibilità del ricorso incidentale si è formato il giudicato sulla insussistenza della titolarità passiva di tale azienda nel rapporto dedotto in giudizio, e per conseguenza la stessa non dovrà essere chiamata a partecipare al nuovo giudizio di rinvio. Con il motivo in esame il ricorrente afferma che la condanna al rimborso delle spese di detta azienda, pronunciata a suo carico, è viziata nella motivazione poiché non tiene conto del fatto che egli dovette necessariamente notificare la citazione a detta azienda, parte dei precedenti giudizi, parte la quale aveva anche proposto ricorso incidentale per cassazione.
Il motivo è infondato. Il ricorrente parzialmente vittorioso nei confronti della Regione è invece risultato totalmente soccombente nei riguardi dell'Asl, della quale, e sia pure alternativamente con la Regione, aveva chiesto la condanna al risarcimento del danno come risulta dalle conclusioni trascritte nell'epigrafe della sentenza impugnata; né il mancato esercizio del potere discrezionale di compensazione, sostanzialmente denunciato dal ricorrente, è censurabile in questa sede. Accolti, pertanto, il primo e terzo motivo del ricorso principale e cassata in relazione ad essi la sentenza impugnata, le parti vanno rimesse dinanzi ad altra sezione della stessa Corte la quale, riesaminata la controversia nei limiti anzidetti, all'esito regolerà anche le spese del presente giudizio nei rapporti tra ricorrente e Regione. Nei rapporti, invece, tra ricorrente ed Asl, ricorrono giusti motivi per compensare le spese dello stesso giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte riuniti i ricorsi dichiara inammissibile il ricorso incidentale, accoglie il primo e terzo motivo del ricorso principale, rigetta gli altri motivi dello stesso ricorso, cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Genova anche per le spese del giudizio di cassazione nei rapporti tra ricorrente e Regione; compensa le spese dello stesso giudizio nei rapporti tra ricorrente ed Asl.

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