Il prezzo della pace
di Rostislav Iščenko
Ho più volte affermato che gli obiettivi strategici di politica estera dell'amministrazione Trump non differiscono sostanzialmente da quelli perseguiti dall'amministrazione Biden e dagli alleati europei degli Stati Uniti. Tutti condividono il medesimo intento: mantenere l'egemonia globale dell'Occidente sotto la guida di Washington.
La principale contraddizione tra le élite liberali di sinistra europee, i democratici di Clinton e Biden negli Stati Uniti e i trumpiani è di natura interna, intra-occidentale: riguarda la scelta della via di sviluppo futuro.
I liberali di sinistra puntano a trasformare l'Occidente in una sorta di riserva bancaria e tecnologica, popolata da "élite intellettuali multiculturali" e dal personale al loro servizio.
Si tratta, in sostanza, di prolungare all'infinito la teoria del "miliardo d'oro". Ma la debolezza di questa visione è evidente: il "miliardo d'oro" non esiste più. L'Occidente potrà considerarsi fortunato se riuscirà a conservare anche solo un "cento milioni d'oro". La pelle di zigrino della prosperità occidentale si restringe, perché il sistema militare-politico e finanziario-economico globale che la sosteneva è ormai impazzito, precipitato in una crisi sistemica dalla quale non si può uscire se non creando un nuovo sistema fondato su principi diversi.
Per chiarire, immaginiamo un'attività di traghettamento sul fiume: finché non esisteva un ponte, il servizio prosperava. Da una barca a remi si passò a solide imbarcazioni a motore, fino a costruire un traghetto. Ma quando il governo eresse un ponte gratuito, il flusso di persone e merci si spostò tutto su quella via, lasciando solo qualche turista occasionale. Le entrate crollarono e l'attività declinò, costringendo il proprietario a ritirare il capitale e investirlo altrove, o a condannarsi a un lento declino, tenendo in vita un'impresa ormai inutile per pura ostinazione.
Gli Stati Uniti, tuttavia, restano una delle potenze più forti del pianeta. Decisero quindi di neutralizzare il "fattore ponte" tentando di redistribuire a proprio vantaggio le risorse globali. In passato, simili stratagemmi avevano funzionato, e si illusero che potessero riuscire ancora. Ma un tempo le "attività" americane erano redditizie: anche chi pagava un tributo a Washington per usare il sistema del dollaro e beneficiare della sua "leadership globale" poteva prosperare.
Oggi invece, con la progressiva perdita di redditività del sistema globale americano, rimanervi significa condannarsi alla rovina — solo per permettere agli Stati Uniti di fallire per ultimi.
Già sotto Obama, gli Stati Uniti iniziarono a subire le defezioni dei propri alleati, dapprima periferici e poi sempre più centrali. Washington reagì aumentando la pressione sugli avversari, interni ed esterni.
Sul piano interno, ciò alimentò la nascita del trumpismo; in Europa si manifestò con figure come Orbán, l'AfD e la crescita delle destre conservatrici, che però non riuscirono mai a costituire un movimento unitario.
Sul piano esterno, la reazione dell'Occidente generò una crescente resistenza globale: nacque il G20 e si rafforzarono organizzazioni come la SCO e i BRICS.
Il trumpismo, nella sua essenza, proponeva di superare la crisi sistemica attraverso un degrado controllato: riportare la produzione industriale negli Stati Uniti, spostare risorse dalla finanza all'economia reale, abbandonare la degenerazione culturale della "tolleranza elevata a culto" e tornare ai valori tradizionali. In altre parole, far regredire il sistema alle posizioni del terzo quarto del XX secolo per recuperare spazio di manovra e di sviluppo.
Ma con una parte crescente del mondo ormai fuori dal controllo americano — il "ponte" alternativo russo-cinese è già stato costruito e sempre più Paesi vi si collegano — quel ritorno è divenuto impossibile. I finanzieri non sono disposti a cedere risorse interne, e gli attori esterni accetterebbero di cooperare solo in cambio di una rinuncia americana all'egemonia globale. Il "fattore ponte" è dunque insormontabile: gli Stati Uniti