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Mentre l’Ucraina festeggia il rientro dei prigionieri VIP, migliaia di semplici soldati rimangono dimenticati in prigione
Ieri, mentre pubblicavo il reportage sull’incontro tra i prigionieri di guerra ucraini ed i loro cari avvenuto a Donetsk, è girata la notizia della consegna all’Ucraina dei comandanti dell’Azovstal da parte della Turchia. E qui mi sono tornate in mente le parole di Marina Ashifina, moglie di uno dei semplici soldati ucraini abbandonati da Kiev. Questa ragazza ha fatto di tutto per ritrovare il marito. La questione dei prigionieri di guerra è delicata e, come dimostra il caso dei comandanti “VIP” nasconde ingiustizie e contraddizioni.
Ieri sera i comandanti dell’Azov rilasciati da Erdogan, accompagnati da Zelensky, sono stati accolti a Leopoli in pompa magna. Come se fossero calciatori tornati a casa dopo aver vinto il campionato. In effetti questa è un vera vittoria mediatica. Ai tempi della battaglia di Mariupol, attorno alle figure di Prokopenko, Volynskij e company, la propaganda ucraina aveva costruito vere e proprie leggende.
Eppure mentre questi comandanti oggi girano tranquilli per Leopoli, affermando di essere pronti a prender parte a nuove battaglie al fronte, gran parte dei loro vecchi compagni di “avventura” (quelli sopravvissuti) continuano a rimanere in cella. Solitamente i capitani sono gli ultimi ad abbandonare la nave, ma non in questo caso. Gli equipaggi per questi condottieri continuano ad essere raccolti con la forza lungo le strade delle città ucraine.
Sono migliaia i soldati ucraini che ancora si trovano in prigionia. E nei confronti di essi Kiev non dimostra lo stesso interesse. Si tratta per buona parte di coloro che sono finiti nell’esercito contro la loro volontà o per mancanza di alternative. Sono persone che difficilmente avrebbero desiderato finire coinvolte in questo conflitto, separati dai loro affetti, rischiando il peggio. Molte volte ho incontrato queste persone, leggendo le inequivocabili espressioni riflesse dai loro occhi.
Tra questi soldati c’era Pavel Ashifin, arruolatosi nell’esercito ucraino perché «serviva urgentemente denaro e nella sua città non c’era altro lavoro», ha affermato Marina, la moglie del giovane.
Nel marzo dello scorso anno il suo battaglione era stato trasferito a Mariupol. Dopo poche settimane, quando la città è stata accerchiata i militari hanno potuto scegliere tra la resa o la morte. «Loro hanno fatto la scelta giusta: arrendersi», spiega la ragazza.
Per lei, scoprire la verità sulla sorte del marito, inizialmente dato per disperso, non è stato per nulla semplice. Rivolgersi alle autorità ucraine, lanciando appelli personalmente a Zelensky e alla stampa, così come manifestare nel centro di Kiev non ha dato alcun risultato. «Ho fatto di tutto per cercare visibilità. Di solito vengono scambiati i militari famosi, quelli grazie ai quali, una volta rientrati, qualcuno può guadagnarsi una medaglia. Nel mio caso non ha funzionato. Alle sorti dei soldati semplici non importano a nessuno», ha affermato la ragazza.
Dopo aver bussato a tutte le porte possibili Marina ha lasciato l’Ucraina raggiungendo Donetsk, dove ha iniziato a rivolgersi alle autorità locali. In poco tempo è giunta la risposta tanto attesa: Pavel era vivo, in uno dei penitenziari della regione. Quando le autorità hanno stabilito che il prigioniero ucraino non aveva commesso reati, è stato rilasciato, senza passare attraverso la formula dello scambio di prigionieri: la coppia ha deciso di iniziare una nuova vita a Mosca.
La loro storia ha avuto risalto mediatico sia in Russia che in Ucraina, dove ovviamente i media di Kiev non hanno visto di buon occhio la decisione della ragazza di recarsi nei territori considerati “occupati” e trattare con i “nemici”. Ciò però ha sortito un effetto sottovalutato dai giornalisti ucraini: la diffusione di questa storia ha portato numerose persone che si trovano in una situazione simile a rivolgersi a Marina, chiedendole consigli ed aiuto, consapevoli di non poter contare sulle autorità del proprio paese e di dover cercare vie alternative.
Ieri, mentre pubblicavo il reportage sull’incontro tra i prigionieri di guerra ucraini ed i loro cari avvenuto a Donetsk, è girata la notizia della consegna all’Ucraina dei comandanti dell’Azovstal da parte della Turchia. E qui mi sono tornate in mente le parole di Marina Ashifina, moglie di uno dei semplici soldati ucraini abbandonati da Kiev. Questa ragazza ha fatto di tutto per ritrovare il marito. La questione dei prigionieri di guerra è delicata e, come dimostra il caso dei comandanti “VIP” nasconde ingiustizie e contraddizioni.
Ieri sera i comandanti dell’Azov rilasciati da Erdogan, accompagnati da Zelensky, sono stati accolti a Leopoli in pompa magna. Come se fossero calciatori tornati a casa dopo aver vinto il campionato. In effetti questa è un vera vittoria mediatica. Ai tempi della battaglia di Mariupol, attorno alle figure di Prokopenko, Volynskij e company, la propaganda ucraina aveva costruito vere e proprie leggende.
Eppure mentre questi comandanti oggi girano tranquilli per Leopoli, affermando di essere pronti a prender parte a nuove battaglie al fronte, gran parte dei loro vecchi compagni di “avventura” (quelli sopravvissuti) continuano a rimanere in cella. Solitamente i capitani sono gli ultimi ad abbandonare la nave, ma non in questo caso. Gli equipaggi per questi condottieri continuano ad essere raccolti con la forza lungo le strade delle città ucraine.
Sono migliaia i soldati ucraini che ancora si trovano in prigionia. E nei confronti di essi Kiev non dimostra lo stesso interesse. Si tratta per buona parte di coloro che sono finiti nell’esercito contro la loro volontà o per mancanza di alternative. Sono persone che difficilmente avrebbero desiderato finire coinvolte in questo conflitto, separati dai loro affetti, rischiando il peggio. Molte volte ho incontrato queste persone, leggendo le inequivocabili espressioni riflesse dai loro occhi.
Tra questi soldati c’era Pavel Ashifin, arruolatosi nell’esercito ucraino perché «serviva urgentemente denaro e nella sua città non c’era altro lavoro», ha affermato Marina, la moglie del giovane.
Nel marzo dello scorso anno il suo battaglione era stato trasferito a Mariupol. Dopo poche settimane, quando la città è stata accerchiata i militari hanno potuto scegliere tra la resa o la morte. «Loro hanno fatto la scelta giusta: arrendersi», spiega la ragazza.
Per lei, scoprire la verità sulla sorte del marito, inizialmente dato per disperso, non è stato per nulla semplice. Rivolgersi alle autorità ucraine, lanciando appelli personalmente a Zelensky e alla stampa, così come manifestare nel centro di Kiev non ha dato alcun risultato. «Ho fatto di tutto per cercare visibilità. Di solito vengono scambiati i militari famosi, quelli grazie ai quali, una volta rientrati, qualcuno può guadagnarsi una medaglia. Nel mio caso non ha funzionato. Alle sorti dei soldati semplici non importano a nessuno», ha affermato la ragazza.
Dopo aver bussato a tutte le porte possibili Marina ha lasciato l’Ucraina raggiungendo Donetsk, dove ha iniziato a rivolgersi alle autorità locali. In poco tempo è giunta la risposta tanto attesa: Pavel era vivo, in uno dei penitenziari della regione. Quando le autorità hanno stabilito che il prigioniero ucraino non aveva commesso reati, è stato rilasciato, senza passare attraverso la formula dello scambio di prigionieri: la coppia ha deciso di iniziare una nuova vita a Mosca.
La loro storia ha avuto risalto mediatico sia in Russia che in Ucraina, dove ovviamente i media di Kiev non hanno visto di buon occhio la decisione della ragazza di recarsi nei territori considerati “occupati” e trattare con i “nemici”. Ciò però ha sortito un effetto sottovalutato dai giornalisti ucraini: la diffusione di questa storia ha portato numerose persone che si trovano in una situazione simile a rivolgersi a Marina, chiedendole consigli ed aiuto, consapevoli di non poter contare sulle autorità del proprio paese e di dover cercare vie alternative.
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