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giovedì 14 luglio 2011
Ministero dell'interno Circ. 12-7-2011 n. 18/2011 Nuova normativa che semplifica e riduce i termini per ottenere il divorzio consensuale in Brasile. Emanata dal Ministero dell'interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, Direzione centrale per i servizi demografici, Area III - Stato civile. Circ. 12 luglio 2011, n. 18/2011 (1).
Nuova normativa che semplifica e riduce i termini per ottenere il divorzio consensuale in Brasile.
(1) Emanata dal Ministero dell'interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, Direzione centrale per i servizi demografici, Area III - Stato civile.
Ai
Sigg. Prefetti della Repubblica
Loro sedi
Al
Sig. Commissario del Governo per la provincia di Trento
38100 - Trento
Al
Sig. Commissario del Governo per la provincia di Bolzano
39100 - Bolzano
Al
Sig. Presidente della regione autonoma Valle d'Aosta
Servizio affari di prefettura
Piazza della Repubblica, 15
11100 - Aosta
e, p.c.:
Al
Commissario dello Stato per la regione siciliana
90100 - Palermo
Al
Rappresentante del Governo per la regione Sardegna
09100 - Cagliari
Al
Ministero degli affari esteri
Direzione generale italiani all'estero e politiche migratorie Uff. III
Roma
Al
Ministero della giustizia
Ufficio legislativo
Roma
Al
Gabinetto dell'On. Ministro
Sede
All'
Ispettorato generale di amministrazione
Via Cavour, 6
00184 - Roma
Alla
Scuola superiore dell'amministrazione dell'interno
Ufficio della documentazione generale e statistica
Via Cavour, 6
00184 - Roma
All'
Ufficio I
Gabinetto del Capo dipartimento affari interni e territoriali
Sede
All'
Anci
Via dei Prefetti, 46
Roma
All'
Anusca
Via dei Mille, 35E/F
40024 - Castel S. Pietro Terme (BO)
Alla
DeA - Demografici Associati
c/o Amministrazione Comunale
V.le Comaschi 1160
56021 - Cascina (PI)
Il Ministero degli Affari Esteri a seguito della comunicazione dell’Ambasciata d’Italia in Brasilia ha reso noto che in Brasile, a decorrere dal 14 luglio 2010, è entrato in vigore l’emendamento alla legge sul divorzio che semplifica e riduce i tempi per ottenere il divorzio consensuale.
Con l'attuale formulazione della legge brasiliana, qualora i coniugi non abbiano figli di minore età, il requisito della separazione viene abolito e il divorzio può essere riconosciuto su richiesta degli interessati da presentare presso il c.d. "cartorio" brasiliano (ufficio notarile al quale viene affidata la gestione dello stato civile).
Il suddetto Dicastero ha altresì riferito che dalla data dell'emissione dell'atto notarile che deve essere depositato e registrato presso il competente tribunale, decorre il divorzio consensuale, non essendo necessaria una sentenza giudiziale.
Sull'argomento si ritiene opportuno confermare, come già espresso sul testo del Massimario dello stato civile, che la pronuncia del divorzio da parte di un'autorità straniera diversa da quella giurisdizionale non costituisce motivo di irriconoscibilità dello stesso se nell'ordinamento giuridico di quel paese a tale divorzio vengono attribuiti gli stessi effetti di una sentenza di divorzio passata in giudicato, ferma restando la verifica dell'irreversibile dissoluzione del vincolo coniugale.
Detti presupposti rientrano nella fattispecie evidenziata.
Ciò detto si pregano le SS.LL. di portare a conoscenza dei Sig.ri Sindaci il contenuto della presente circolare, ringraziando per la fattiva consueta collaborazione.
Il Direttore centrale
Giovanna Menghini
Cassazione "...Il concorso di colpa del dipendente non salva il datore di lavoro..."
Con ricorso notificato il 1° febbraio
2007, [OMISSIS] chiede la cassazione della sentenza depositata il 7
aprile 2006, con la quale la Corte d’appello di Caltanissetta,
confermando la decisione di primo grado, ha respinto le sue domande di
condanna del datore di lavoro [OMISSIS] a risarcirgli il danno biologico
per lire 131.700.000, in relazione all’infortunio occorsogli in data 4
marzo 1998 in cantiere, mentre era intento al disarmo di una pensilina.
I giudici di merito hanno infatti
ritenuto non provata l’assegnazione del ricorrente, aiuto carpentiere
dipendente di [OMISSIS], al compito di disarmare una pensilina (che
avrebbe comportato la predisposizione di una serie di misure di
sicurezza in quanto questa era situata al terzo piano, dal quale il
lavoratore era precipitato), quindi frutto di una sua imprevedibile
iniziativa, come tale escludente la responsabilità del datore di lavoro.
L’intimato non si è costituito.
Motivi della decisione
Col ricorso la sentenza viene censurata per violazione dell’art. 2087 c.c. e per vizio di motivazione, per non avere sufficientemente valorizzato l’esistenza di un obbligo di vigilanza del datore di lavoro, per non avere correttamente applicato il principio secondo cui il datore di lavoro è esonerato da responsabilità unicamente nel caso di una condotta abnorme e imprevedibile del lavoratore.
Motivi della decisione
Col ricorso la sentenza viene censurata per violazione dell’art. 2087 c.c. e per vizio di motivazione, per non avere sufficientemente valorizzato l’esistenza di un obbligo di vigilanza del datore di lavoro, per non avere correttamente applicato il principio secondo cui il datore di lavoro è esonerato da responsabilità unicamente nel caso di una condotta abnorme e imprevedibile del lavoratore.
Il ricorso è fondato.
Secondo la giurisprudenza di questa
Corte (oltre, da ultimo, Cass. 25 febbraio 2011 n. 4656) “le norme
dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono
dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti
dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia,
negligenza e imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore
di lavoro è sempre responsabile ex art. 2087 c.c. dell infortunio
occorso al lavoratore sia quando ometta di adottare le idonee misure
protettive sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga
fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo
attribuirsi alcun effetto esimente per l‘imprenditore dall‘eventuale
concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare
l‘esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo
quando presenti i caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza
rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da
porsi come causa esclusiva dell‘evento, essendo necessaria a tal fine
una rigorosa dimostrazione dell ‘indipendenza del comportamento del
lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro e,
con essa, dell‘estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle
modalità ed esigenze del lavoro da svolgere
Nel caso in esame, accertato che l’avere
svolto l’attività di disarmo di una pensilina collocata in un piano
alto di un edificio in costruzione aveva costituito una iniziativa del
[OMISSIS], non richiestagli dal datore di lavoro che gli aveva affidato
il diverso incarico di estrarre alcuni chiodi dalle parti di un’altra
pensilina già disarmata e situata anch’essa in un piano elevato
dell’edificio, ne hanno tratto la conseguenza che l’infortunio che ne
era derivato non poteva essere attribuito a responsabilità del datore di
lavoro.
Trattasi di enunciazione meramente
assertiva, non avendo la Corte territoriale preso adeguatamente in
esame, sulla base del contesto in cui si era verificato l’infortunio
(oltre le circostanze indicate, la qualifica di aiuto carpentiere del
dipendente, età e durata del suo rapporto di lavoro e quindi la sua
esperienza professionale in materia, la possibile presenza in cantiere
di altri dipendenti – dalla sentenza sembra di capire che il [OMISSIS]
vi era stato lasciato solo, mentre il datore di lavoro e il carpentiere
si erano allontanati) la possibile prevedibilità della deviazione del
[OMISSIS] – avvenuta comunque sempre all’interno del tipo di lavoro cui
era addetto – dai compiti specificatamente assegnatigli, dopo lo
svolgimento di questi e quindi il corretto adempimento del dovere di
vigilanza gravante sul datore di lavoro in ordine all’effettiva
osservanza degli incarichi impartiti, alla stregua dei principi di
diritto sopra richiamati.
Il ricorso va pertanto accolto e la
sentenza va conseguentemente cassata, con rinvio, anche in ordine al
regolamento delle spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di
Palermo, che si atterrà nella nuova valutazione dei fatti al principio
di diritto sopra enunciato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la
sentenza impugnata e rinvia, anche per il regolamento delle spese di
questo giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Palermo.
Depositata in Cancelleria il 7 luglio 2011
Online volontarioineuropa.eu, le associazioni promuovono i progetti europei
E' online da oggi volontarioineuropa.eu,
il portale a disposizione delle associazioni di volontariato per
condividere i progetti sul web ed entrare in contatto con chi ha fatto
dell'azione di volontariato un scelta di vita.
Il portale è una delle iniziative promosse nel quadro del progetto "Anche io, volontario in Europa" realizzato dal Parlamento europeo, dalla Commissione europea e dal Dipartimento Politiche Europee, in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri, in occasione dell'Anno europeo del Volontariato.
Il progetto, concordato con l'Osservatorio nazionale del volontariato, è destinato a far emergere le associazioni di volontariato e le organizzazioni di terzo settore che operano al fine di rafforzare il sentimento di cittadinanza europea e di amicizia con gli altri cittadini dell'Unione Europea.
volontarioineuropa.eu rappresenta una rete di scambio di esperienze: ogni associazione può registrarsi sul portale e inserire informazioni sulle proprie attività, i progetti realizzati, ma anche immagini e contatti.
I progetti che volontarioineuropa.eu ospita devono promuovere i valori europei e il senso di appartenenza dei cittadini all'Unione Europea; ma devono essere anche replicabili, sostenibili e coinvolgere i cittadini di altri Stati membri.
Nel corso del 2011 saranno inoltre organizzati dei workshop per diffondere le esperienze raccolte delle associazioni.
Altre informazioni
Per associazioni di volontariato si intendono quelle che svolgono una qualsiasi attività di volontariato come definita dalla Decisione del Consiglio europeo del 27 novembre 2009, istitutiva dell'Anno Europeo del Volontariato 2011. Tali caratteri solidaristici e senza scopo di lucro dell'attività saranno attestati nell'atto costitutivo dell'associazione e non è necessaria l'iscrizione ai registri di cui alla legge n. 266 del 1991, art. 6.
Il Parlamento europeo, la Commissione europea, il Dipartimento Politiche Europee non si assumono alcuna responsabilità per il contenuto caricato sul sito da parte delle singole associazioni o dei suoi operatori. Dette istituzioni si riservano comunque il diritto di oscurare eventuali contenuti illegali o idonei.
I progetti presentati dalle singole associazioni e presenti sul sito non sono finanziati né patrocinati dalle istituzioni promotrici della presente iniziativa.
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Corte Costituzionale "..O.210/2011 del 04/07/2011 Camera di Consiglio del 22/06/2011, Presidente QUARANTA , Redattore QUARANTA Norme impugnate: Art. 126 bis, c. 2°, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), nel testo modificato dall'art. 2, c. 164°, lett. b), del decreto legge 03/10/2006, n. 262, convertito con modificazioni dall'art. 1, c. 1°, della legge 24/11/2006, n. 286. Oggetto: Circolazione stradale - Decurtazione di punti dalla patente per violazioni del codice della strada - Obbligo del proprietario del veicolo di comunicare all'organo di polizia i dati del conducente non identificato al momento dell'infrazione - Necessità, secondo la giurisprudenza della Cassazione, che l'adempimento avvenga entro sessanta giorni dalla notificazione del verbale di contestazione dell'infrazione (ossia nello stesso termine accordato per proporre ricorso amministrativo o giurisdizionale avverso il verbale) - Conseguente imposizione al proprietario, ove non diverso dal conducente, del dovere di autoaccusarsi prima della definizione dei ricorsi eventualmente proposti, per non incorrere nella sanzione amministrativa pecuniaria altrimenti applicabile; Previsione di sanzione amministrativa pecuniaria in caso di inosservanza (salvo giustificato e documentato motivo) - Sostanziale attribuzione al proprietario che sia anche trasgressore della facoltà di scelta tra pagare la sanzione pecuniaria e subire la decurtazione dei punti..."
ORDINANZA N.
210
ANNO 2011
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO
”
- Franco GALLO
”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE
”
- Giuseppe TESAURO
”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO
”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI
”
- Giorgio LATTANZI
”
ha pronunciato
la seguente
ORDINANZA
nel giudizio
di legittimità costituzionale dell’articolo 126-bis, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo
codice della strada), nel testo modificato dall’art.
2, comma 164, lettera b), del
decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia
tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 24 novembre 2006, n. 286, promosso dal
Giudice di pace di Ficarolo nel procedimento vertente tra G.R. e il Comune di
Castelmassa con ordinanza del 6 luglio 2010, iscritta al n. 318 del registro
ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
43, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22
giugno 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.
Ritenuto
che il Giudice
di pace di Ficarolo, con ordinanza del 6 luglio 2010, ha
sollevato – in riferimento agli articoli 24 e 3 della Costituzione – due
questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 126-bis, comma 2, del decreto legislativo 30
aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nel testo modificato dall’art.
2, comma 164, lettera b), del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262
(Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre 2006, n.
286;
che, secondo
il giudice remittente, la giurisprudenza di legittimità (è citata Corte di
cassazione, Sezione II civile, sentenza n. 17348 del 30 maggio 2007) avrebbe
prospettato un’interpretazione della norma censurata secondo cui l’illecito
amministrativo da essa previsto – e consistente nell’omessa comunicazione, da
parte del proprietario di un veicolo, dei dati personali e della patente del
conducente dello stesso, resosi responsabile di un’infrazione stradale,
sanzionata oltre che sul piano pecuniario, anche con la decurtazione del
punteggio dalla patente di guida – avrebbe carattere «istantaneo», consumandosi
«nel termine di sessanta giorni dalla notificazione del verbale» relativo,
appunto, ad una di tali infrazioni per le quali è previsto il suddetto obbligo
di comunicazione;
che siffatto
indirizzo, tuttavia, darebbe luogo – secondo il giudice a quo – alla «lesione del principio nemo tenetur se detegere», giacché il
proprietario del veicolo, richiesto di comunicare i dati personali e della
patente del responsabile della precedente infrazione (non identificato al
momento dell’accertamento della stessa), dovrebbe «necessariamente fare la
predetta dichiarazione ex art. 126-bis» nello stesso termine di sessanta
giorni «di cui dispone per la proposizione dei ricorsi» esperibili avverso il
verbale di contestazione dell’infrazione stradale
«presupposto»;
che tale
opzione ermeneutica – sempre a dire del remittente – sarebbe, tuttavia, «in
rotta di collisione» con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 27 del
2005, giacché essa preciserebbe che in «nessun caso» il proprietario del
veicolo è «tenuto a rivelare i dati personali e della patente del conducente
prima della definizione dei procedimenti giurisdizionali o amministrativi per
l’annullamento del verbale di contestazione
dell’infrazione»;
che
l’alternativa in cui viene posto il proprietario del veicolo – per effetto di
tale interpretazione della norma censurata – sarebbe in contrasto, secondo il
giudice a quo, con il principio della
inviolabilità del diritto di difesa, e dunque con l’art. 24
Cost.;
che
l’interessato, infatti, potrebbe o «liberarsi dalla necessità di “confessare”
scegliendo di pagare la sanzione pecuniaria di cui all’art. 126-bis» del codice della strada, ovvero
rendere «una confessione di responsabilità», ciò che però equivarrebbe a
riconoscere «che lo Stato possa pretendere che egli confessi di essere stato il
conducente del veicolo, al diverso fine dell’applicazione della sanzione
accessoria della decurtazione dei punti dalla patente di guida», prefigurando,
così, un modello del tutto inedito di «collaborazione del cittadino all’attività
della P.A.»;
che, per
contro, prima dell’introduzione della cosiddetta “patente a punti”, il codice
della strada si limitava al più a sanzionare – all’art. 180, comma 8 – «la
mancata collaborazione consistente nell’omessa esibizione di documenti, dei
quali il conducente di un veicolo» fosse risultato sprovvisto allorché
«fermato»;
che nel
sistema previgente, in altri termini, era «ovvio il principio secondo cui
l’onere della prova degli illeciti amministrativi» non può «trasferirsi al
cittadino, men che meno prevedendo l’obbligatorietà della confessione della sua
eventuale responsabilità»;
che su tali
basi, pertanto, il remittente ha chiesto dichiararsi l’illegittimità
costituzionale dell’art. 126-bis,
comma 2, del codice della strada, peraltro limitatamente «al caso in cui il
proprietario» – ovvero l’altro soggetto, diverso dal conducente, tenuto alla
comunicazione (cioè l’obbligato in solido ai sensi dell’articolo 196 del
medesimo codice) – dovesse «confessare la propria
responsabilità»;
che il giudice
remittente – pur ritenendo assorbente tale questione rispetto a quella
prospettata dalla difesa del ricorrente nel giudizio a quo – ha sollevato, per l’ipotesi in
cui «così non fosse ritenuto» dalla Corte costituzionale, un’ulteriore questione
di legittimità costituzionale;
che, difatti,
la norma censurata – ove fosse da interpretare nel senso che costringe il
proprietario del veicolo ad una scelta «tra il pagamento della sanzione
pecuniaria e l’effettuazione della dichiarazione» – violerebbe l’art. 3 Cost.,
giacché le «persone meno abbienti, in realtà, non possono avvalersi della “prima
possibilità”», a differenza di «quelle facoltose», le quali possono conservare
intatti «i propri diritti (punti patente, sospensione della stessa)
semplicemente pagando»;
che è
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che le questioni
vengano dichiarate manifestamente infondate;
che viene
richiamata la sentenza n. 165 del
2008 della Corte costituzionale, la quale – nel rigettare, a dire della
difesa statale, analoga questione di legittimità costituzionale – ebbe ad
osservare come il giudice a quo non
avesse attribuito il dovuto rilievo «alla circostanza che agli illeciti
amministrativi contemplati dal codice della strada si applica la disciplina
generale dell’illecito depenalizzato di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689
(Modifiche al sistema penale), il cui art. 3, nel subordinare la responsabilità
all’esistenza di un’azione od omissione che sia “cosciente e volontaria”, ha
inteso, appunto, prevedere il caso fortuito o la forza maggiore quali
circostanze idonee ad esonerare l’agente da
responsabilità»;
che non in
contrasto con tali principi si porrebbe – secondo l’Avvocatura generale dello
Stato – l’interpretazione della norma censurata proposta dalla giurisprudenza di
legittimità;
che, difatti,
il «compito di verificare l’esimente della responsabilità omissiva a carico del
proprietario del veicolo» – prosegue la difesa statale – «è esercitato dal
Giudice di pace nel momento in cui il primo proponga ricorso, sostenendo
l’ingiusta valutazione da parte dell’autorità verbalizzante del motivo addotto a
giustificazione dell’impossibilità di fornire i dati del
conducente»;
che in
riferimento, invece, «all’obbligo di comunicazione del nominativo del conducente
prima e a prescindersi dall’intervenuta definitività dell’accertamento della
violazione», l’Avvocatura generale dello Stato richiama la sentenza della Corte
costituzionale n. 27 del 2005;
che la stessa,
infatti, «pur non affrontando ex professo
il tema», ebbe ad affermare – osserva sempre la difesa statale – che «in
nessun caso il proprietario è tenuto a rivelare i dati personali e della patente
del conducente prima della definizione dei procedimenti giurisdizionali o
amministrativi per l’annullamento del verbale di contestazione dell’infrazione»,
dovendo la contestazione ritenersi definita solo «quando sia avvenuto il
pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria o siano conclusi i
procedimenti dei ricorsi amministrativi o giurisdizionali ammessi ovvero siano
decorsi i termini per la proposizione dei medesimi»;
che quanto,
infine, all’ipotizzata violazione dell’art. 3 Cost., la difesa statale rileva
che il legislatore, a fronte della comprovata sussistenza di condizioni
personali giustificative, «ha apprestato appositi strumenti per agevolare il
pagamento delle sanzioni pecuniarie amministrative (rateizzazione della somma
dovuta a seguito dell’acquisizione della forma di titolo esecutivo del
verbale)», secondo quanto previsto dall’art. 203, comma 3, del codice della
strada e dall’art. 26 della legge n. 689 del 1981.
Considerato che il
Giudice di pace di Ficarolo ha sollevato – in riferimento agli articoli 24 e 3
della Costituzione – due questioni di legittimità costituzionale dell’articolo
126-bis, comma 2, del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nel testo
modificato dall’art. 2, comma 164, lettera b), del decreto-legge 3
ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre
2006, n. 286;
che le
questioni appaiono manifestamente inammissibili;
che, difatti,
il giudice remittente – oltre a proporre, quanto alla prima questione, un
quesito oscuro, non essendo chiaro come il carattere “istantaneo” dell’illecito
amministrativo, conseguente alla violazione dell’obbligo di comunicazione di cui
alla norma censurata, possa determinare una lesione del principio nemo tenetur se detegere (specie ove si
consideri che questa Corte ha individuato una serie di ipotesi nella quali la
contestazione, in sede giudiziale o amministrativa, della legittimità del
verbale di accertamento dell’illecito “presupposto”, rispetto a quello previsto
dalla norma censurata, risulta «idonea ex se ad integrare quel
“documentato e giustificato motivo” al quale dà espresso rilievo l’art.
126-bis, comma 2, del codice della strada»; ordinanza n. 306 del
2009) – omette completamente di descrivere la fattispecie concreta oggetto
del giudizio principale;
che tale
carenza, impedendo a questa Corte ogni valutazione sulla rilevanza delle
questioni sollevate, comporta la manifesta inammissibilità delle stesse (si
vedano, da ultimo, le ordinanze numeri 158, 154 e 131 del
2011).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
per
questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta
inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo
126-bis, comma 2, del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nel testo
modificato dall’art. 2, comma 164, lettera b), del decreto-legge 3
ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre
2006, n. 286, sollevate – in riferimento agli articoli 24 e 3 della Costituzione
– dal Giudice di pace di Ficarolo.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio
2011.
F.to:
Alfonso
QUARANTA, Presidente e
Redattore
Gabriella
MELATTI,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 13 luglio
2011.
L'INPS, con messaggio n. 14448/2011, ha fornito alcuni chiarimenti susseguenti alla sentenza della Corte Costituzionale n. 116 del 4 aprile 2011, affermando che in caso di parto prematuro e di ricovero del bimbo in una struttura ospedaliera, la lavoratrice madre può posticipare l'astensione obbligatoria dal lavoro al rientro del bambino in famiglia. Uguale facoltà, viene riconosciuta al padre qualora lo stesso si avvalga dell'astensione al posto della madre (es. decesso, grave infermità, affidamento esclusivo del neonato al padre).
[ELG:SOMMARIO]
SENTENZA N. 116
ANNO 2011
[ELG:COLLEGIO]
REPUBBLICA ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO
Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO “
Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
- Giorgio LATTANZI “
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’articolo 16 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151
(Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a
norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promosso dal Tribunale di Palermo nel procedimento
vertente tra C. C. e l’INPS ed altra con ordinanza del 30 marzo 2010, iscritta
al n. 215 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell’anno
2010.
Visto l’atto di costituzione
dell’INPS;
udito nell’udienza pubblica del 22 marzo
2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
udito l’avvocato Antonietta Coretti per
l’INPS.
Ritenuto in fatto
1. — Il Tribunale di Palermo,
in funzioni di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha
sollevato, in riferimento agli articoli 3, 29, primo
comma, 30, primo comma, 31 e 37 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 16 del decreto legislativo 26 marzo 2001,
n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e
sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge
8 marzo 2000, n. 53), «nella parte in cui non prevede, nell’ipotesi di parto
prematuro, qualora il neonato abbia necessità di un periodo di ricovero
ospedaliero, la possibilità per la madre lavoratrice di usufruire del congedo
obbligatorio o di parte di esso dalla data di ingresso del bambino nella casa
familiare».
2. — Il giudice a quo premette di essere chiamato a
pronunziarsi nel giudizio di merito, iniziato dalla signora C. C. nei confronti
dell’Istituto Nazionale della Previdenza sociale (INPS) e di Telecom Italia
Mobile (TIM) Italia Spa ai sensi dell’art. 669-octies del codice di procedura civile ed
espone che l’attrice, la cui figlia era stata ricoverata fin dalla nascita
presso il Policlinico di Palermo in terapia intensiva, venendo dimessa soltanto
l’8 agosto 2005, era stata posta in congedo obbligatorio dall’INPS, in base
all’art. 16 d.lgs. n. 151 del 2001, a far tempo
dalla data del parto medesimo.
La lavoratrice aveva inoltrato
all’ente previdenziale la richiesta di usufruire del periodo obbligatorio di
astensione con decorrenza dalla data presunta del parto, oppure dall’ingresso
della neonata nella casa familiare, offrendo al datore di lavoro la propria
prestazione lavorativa fino ad una di tali date, ma l’INPS aveva respinto detta
richiesta.
Pertanto – aggiunge il
rimettente – la parte privata aveva promosso un procedimento cautelare ai sensi
dell’art. 700 cod. proc. civ., in esito al quale il Tribunale di Palermo, in
accoglimento del ricorso, aveva dichiarato il diritto della donna ad astenersi
dall’attività lavorativa a far data dall’8 agosto 2005 e per i cinque mesi
successivi, fissando il termine perentorio di trenta giorni per l’inizio del
giudizio di merito, instaurato con domanda diretta ad ottenere la declaratoria
del diritto della signora C. C. ad astenersi dal lavoro per il periodo di tempo
suddetto.
Ciò premesso, il giudicante –
ritenuta rilevante la questione sollevata, in quanto dalla dichiarazione
d’illegittimità costituzionale della norma censurata dipenderebbe l’accoglimento
della domanda nel merito – richiama il dettato di tale norma che, disciplinando
il congedo di maternità, vieta di adibire al lavoro le donne: a) durante i due
mesi precedenti la data presunta del parto, salvo quanto previsto dall’art. 20
d.lgs. n 151 del 2001; b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo
intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto; c) durante i
tre mesi dopo il parto; d) durante gli ulteriori giorni non goduti prima del
parto, qualora esso avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali
giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto. Inoltre,
richiama il successivo art. 17 che disciplina l’estensione del divieto, nonché
l’art. 18 il quale sanziona con l’arresto fino a sei mesi l’inosservanza delle
disposizioni de quibus.
In questo quadro, il Tribunale
osserva che l’art. 16 d.lgs. n. 151 del 2001 trova un precedente nell’art. 4
della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), come
modificato dall’art. 11 della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il
sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla
formazione e per il coordinamento dei tempi delle città).
Il detto art. 4, poi abrogato
con l’intera legge n. 1204 del 1971 dall’art. 86 d.lgs. n. 151 del 2001,
stabiliva (tra l’altro) il divieto di adibire al lavoro la donna durante i tre
mesi dopo il parto.
Questa Corte, con sentenza n. 270 del
1999, dichiarò l’illegittimità costituzionale della norma, «nella parte in
cui non prevede(va) per l’ipotesi di parto prematuro
una decorrenza dei termini del periodo dell’astensione obbligatoria idonea ad
assicurare una adeguata tutela della madre e del bambino».
Il rimettente osserva che,
anche in base al tenore del citato art. 16, la domanda della
attrice, diretta ad usufruire dell’intero periodo di congedo (tre mesi
più due mesi) dalla data d’ingresso della figlia nella casa familiare, ovvero
dalla data presunta del parto, non potrebbe essere accolta, neppure in via
parziale, restando l’obbligo del datore di lavoro, sanzionato penalmente, di non
adibire la donna al lavoro dopo il parto, per il periodo già
detto.
Il Tribunale rileva che il
giudice del procedimento cautelare ha dato luogo ad una
interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, in guisa da
consentire, nell’ipotesi in esame, la decorrenza dell’intero periodo di congedo
obbligatorio dal momento dell’ingresso in famiglia della neonata. Ritiene, però,
di non poter condividere la detta interpretazione, in quanto essa trova un ostacolo non aggirabile per effetto del citato
art. 18 d.lgs. n. 151 del 2001, il quale punisce l’inosservanza delle
disposizioni contenute negli artt. 16 e 17 con l’arresto fino a sei
mesi.
Pertanto, ad avviso del
rimettente, la nuova disciplina della materia presenta gli stessi vizi di
legittimità costituzionale riscontrati da questa Corte con riferimento all’art.
4 della legge n. 1204 del 1971, perché il circoscritto intervento del
legislatore non sarebbe sufficiente.
La norma censurata, infatti,
determinerebbe una ingiustificata disparità di
trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost., tra il caso di parto a termine e
quello di parto prematuro, consentendo soltanto nel primo caso un’adeguata
tutela della maternità e la salvaguardia dei diritti, costituzionalmente
garantiti, dei minori e del nucleo familiare (artt. 29, 30, 31, 37
Cost.).
Invero, come già sottolineato
da questa Corte nella sentenza citata, finalità dell’istituto dell’astensione
obbligatoria (oggi congedo) dal lavoro sarebbe sia la
tutela della puerpera, sia la tutela del nascituro e
della speciale relazione tra madre e figlio, che si instaura fin dai primi
attimi di vita in comune ed è decisiva per il corretto sviluppo del bambino e
per lo svolgimento del ruolo di madre.
La norma censurata, non
prevedendo la possibilità di differire il congedo obbligatorio fino al momento
in cui il bambino può fare ingresso in famiglia dopo il ricovero successivo alla
nascita, non garantirebbe la suddetta esigenza di tutela, specialmente quando,
come nel caso in esame, la dimissione del bambino coincide con il termine del
congedo.
Inoltre, la detta norma non
consentirebbe alla puerpera di tornare al lavoro se non con il decorso di cinque
mesi dal parto, anche quando, pur non potendo svolgere il suo ruolo di madre e
di assistenza del minore affidato alle cure dei sanitari, le sue condizioni di
salute lo permetterebbero.
Sarebbe innegabile, dunque,
che anche la norma in esame sia in contrasto con il principio di parità di
trattamento e con i valori costituzionali di protezione della famiglia e del
minore, con conseguente violazione dei predetti parametri
costituzionali.
In definitiva, ad avviso del
rimettente, la norma censurata non ha colmato il vuoto normativo già posto in
evidenza con la citata sentenza della Corte costituzionale; e, a sostegno della
necessità di un ulteriore intervento del giudice delle leggi, andrebbe
richiamato l’art. 14, comma 5, decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno
2002, n. 163 (Recepimento dello schema di concertazione per le
Forze armate relativo al quadriennio normativo 2002-2005 ed al biennio
economico 2002-2003), alla stregua del quale «In caso di parto prematuro, al
personale militare femminile spetta comunque il periodo di licenza di maternità
non goduto prima della data presunta del parto. Qualora il figlio nato prematuro
abbia necessità di un periodo di degenza presso una struttura ospedaliera
pubblica o privata, la madre ha facoltà di riprendere servizio richiedendo,
previa presentazione di un certificato medico attestante la sua idoneità al
servizio, la fruizione del restante periodo di licenza di maternità post-parto e
del periodo ante-parto, qualora non fruito, a decorrere dalla data di effettivo
rientro a casa del bambino».
3. — Nel giudizio di
legittimità costituzionale si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza
sociale (INPS), depositando il 3 settembre 2010 una memoria, con la quale ha
chiesto che la questione sollevata dal rimettente sia dichiarata inammissibile
o, comunque, non fondata.
Dopo aver riassunto i fatti
esposti nell’ordinanza di rimessione, l’INPS osserva che, ad avviso del
rimettente, la disparità di trattamento sussisterebbe tra «la fattispecie di
parto e termine e quella di parto prematuro», in quanto l’art. 16, comma 1,
lettera d), d.lgs. n. 151 del 2001
(nonché le connesse disposizioni di cui agli artt. 17 e 18 dello stesso
decreto), nel disporre che, in caso di parto prematuro, il congedo obbligatorio
dal lavoro (cinque mesi) si colloca soltanto nel periodo immediatamente
successivo al parto, consentirebbe che solo in caso di parto a termine si
realizzi «un’adeguata tutela della maternità e una salvaguardia dei diritti,
costituzionalmente garantiti, dei minori e del nucleo familiare (artt. 29, 30,
31, 37)».
Tale questione – prosegue
l’Istituto – fu già affrontata da questa Corte con la sentenza n. 270 del
1999. Con tale pronuncia (cosiddetta additiva di principio), fu dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, primo comma, lettera c) della legge n. 1204 del 1971 (ora
art. 16 del d.lgs. n. 151 del 2001), nella parte in cui non prevedeva, per
l’ipotesi di parto prematuro, una decorrenza dei termini del periodo di
astensione obbligatoria idonea ad assicurare un’adeguata tutela della madre e
del bambino.
La citata sentenza indicò
«delle possibili soluzioni da adottare per risolvere la questione oggi in
esame», aggiungendo che la scelta spettava al legislatore.
Orbene, la norma qui censurata
prevede (tra l’altro) il divieto di adibire al lavoro le donne «durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto,
qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta rispetto
a quella presunta. Tali giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità
dopo il parto».
Pertanto, ad avviso dell’INPS,
il legislatore, in caso di parto prematuro, avrebbe stabilito che il periodo di
astensione obbligatoria sia comunque pari a cinque mesi complessivi,
prescindendo dalla data del parto, e, qualora la nascita avvenga in data
anticipata rispetto a quella presunta, avrebbe previsto che i giorni non goduti
(cioè quelli correnti tra la data presunta e quella effettiva) siano aggiunti al
periodo di astensione obbligatoria dopo il parto. Tale soluzione sarebbe in
armonia con altre disposizioni del d.lgs. n. 151 del 2001 e, in particolare, con
l’art. 18 dello stesso decreto, che sanziona con l’arresto fino a sei mesi
l’inosservanza delle disposizioni contenute negli artt. 16 e
17. In altri
termini, si sarebbe ritenuto inderogabile ancorare la decorrenza del congedo
obbligatorio alla data del parto.
In questo quadro l’Istituto
eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale.
Infatti il legislatore del 2001, proprio a seguito della
menzionata sentenza n. 270 del
1999, avrebbe adottato una delle possibili soluzioni idonee a porre rimedio
all’impossibilità di far decorrere, nel caso di parto prematuro, l’intero
congedo obbligatorio dopo il parto effettivo, equilibrando così la situazione
tra il caso di parto a termine e quello di parto
prematuro.
Al contrario di quanto
sostenuto dal giudice a quo, la
richiesta di pronuncia additiva non sarebbe costituzionalmente obbligata. Nella
vicenda in esame, la possibilità di diverse soluzioni con le quali risolvere il
problema della decorrenza dell’astensione obbligatoria in caso di parto
prematuro sarebbe stata posta in evidenza dalla stessa Corte costituzionale;
circostanza, quest’ultima, che confermerebbe come la questione sollevata rientri
nell’ambito della discrezionalità del legislatore.
In ogni caso, la detta
questione sarebbe non fondata.
La soluzione adottata dal
legislatore sarebbe idonea a porre rimedio all’impossibilità di far decorrere,
nel caso di parto prematuro, l’intero congedo obbligatorio dopo il parto
effettivo.
In realtà, proprio l’invocato
intervento additivo «non solo comporterebbe un inammissibile esercizio della
discrezionalità politica riservato al legislatore, ma darebbe anche origine ad
effettive disparità di trattamento».
Infatti, un’eventuale diversa
disciplina della decorrenza del congedo obbligatorio per il caso di parto
prematuro, con degenza ospedaliera del neonato, determinerebbe un’effettiva
discriminazione rispetto al caso di parto a termine con neonato affetto da
malattia necessitante di ricovero ospedaliero.
I principi costituzionali
richiamati dal rimettente sarebbero ben salvaguardati sia dalla norma denunciata
sia dagli altri istituti contemplati dal vigente ordinamento, come il congedo
per malattia del figlio e il congedo facoltativo.
Sarebbe vero che la ratio
dell’astensione obbligatoria è volta alla tutela del nascituro e della speciale
relazione tra madre e figlio, che s’instaura fin dai primi atti della vita in
comune, ma sarebbe vero del pari che tale istituto è diretto anche a favorire il
recupero psico-fisico della partoriente. Consentire alla puerpera di rientrare
al lavoro subito dopo il parto potrebbe dar luogo ad un abbassamento della
tutela della sua salute.
Infine, il richiamo all’art.
14, comma 5, d.P.R. n. 163 del 2002 non sarebbe
pertinente, in quanto tale normativa non potrebbe costituire un idoneo tertium comparationis, dato il suo carattere eccezionale, «siccome riferita ad una categoria di lavoratrici che presta
prestazioni lavorative del tutto speciali (personale militare), non estensibile,
pertanto, fuori del sistema considerato».
Il Presidente del Consiglio
dei ministri non è intervenuto nel presente giudizio.
Considerato in diritto
1. — Il Tribunale di Palermo,
in funzioni di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita
– in riferimento agli articoli 3, 29, primo comma, 30,
primo comma, 31 e 37 della Costituzione – della legittimità costituzionale
dell’art. 16 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della
paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), «nella parte
in cui non prevede, nell’ipotesi di parto prematuro, qualora il neonato abbia
necessità di un periodo di ricovero ospedaliero, la possibilità per la madre
lavoratrice di usufruire del congedo obbligatorio o di parte di esso dalla data
di ingresso del bambino nella casa familiare».
2. — Il giudice a quo premette che una lavoratrice
dipendente – avendo avuto un parto prematuro perché la figlia, la cui nascita
era prevista per il primo luglio 2005, era venuta alla luce il 25 marzo 2005,
con immediato ricovero in terapia intensiva presso il Policlinico di Palermo, da
cui era stata dimessa soltanto l’8 agosto 2005 – aveva chiesto all’Istituto
nazionale della previdenza sociale (INPS) di usufruire del periodo obbligatorio
di astensione con decorrenza dalla data presunta del parto, oppure dall’ingresso
della neonata nella casa familiare, offrendo al datore di lavoro la propria
prestazione lavorativa fino ad una di tali date, ma l’INPS aveva respinto la
richiesta. Pertanto la lavoratrice aveva promosso, nei confronti del detto
Istituto e di Telecom Italia Mobile (TIM) Italia Spa, un procedimento cautelare
ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, in esito al quale il
Tribunale di Palermo, accogliendo il ricorso, aveva dichiarato il diritto della
donna ad astenersi dall’attività lavorativa a far data dall’8 agosto 2005 e per
i cinque mesi successivi, fissando il termine perentorio di trenta giorni per
l’inizio del giudizio di merito, che era stato instaurato con domanda diretta ad
ottenere la declaratoria del diritto dell’attrice all’astensione dal lavoro per
il periodo di tempo suddetto.
Ciò premesso, il Tribunale
osserva che la norma censurata trova un precedente nell’art. 4 della legge 30
dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), come modificato
dall’articolo 11 della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno
della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e
per il coordinamento dei tempi delle città). Il detto art. 4, poi abrogato con
l’intera legge n. 1204 del 1971 dall’art. 86 del d.lgs. n. 151 del 2001,
stabiliva (tra l’altro) il divieto di adibire al lavoro la donna durante i tre
mesi dopo il parto.
Il rimettente ricorda che
la Corte
costituzionale, con sentenza n. 270 del
1999, dichiarò l’illegittimità costituzionale del medesimo art. 4, «nella
parte in cui non prevede(va) per l’ipotesi di parto
prematuro una decorrenza dei termini del periodo dell’astensione obbligatoria
idonea ad assicurare una adeguata tutela della madre e del bambino». Osserva
che, anche in base al tenore del citato art. 16, la domanda dell’attrice,
diretta ad usufruire dell’intero periodo di congedo (tre mesi più due mesi)
dalla data d’ingresso della figlia nella casa familiare, ovvero dalla data
presunta del parto, non potrebbe essere accolta, restando l’obbligo del datore
di lavoro, sanzionato penalmente (art. 18 d.lgs. n. 151 del 2001), di non
adibire la donna al lavoro dopo il parto, per il periodo già
detto.
Inoltre egli rileva di non
poter condividere l’interpretazione compiuta dal giudice cautelare, avuto
riguardo alla sanzione penale prevista dal citato art. 18 per l’inosservanza
delle disposizioni contenute nell’art. 16 del d.lgs. n. 151 del 2001, e solleva
questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 16, in riferimento
ai parametri sopra indicati (come esposto in narrativa).
3. — In via preliminare, la
difesa dell’INPS ha eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale, sostenendo che il legislatore del 2001, a seguito
della sentenza di questa Corte n. 270 del 1999,
avrebbe adottato «una delle possibili soluzioni idonee a porre rimedio
all’impossibilità di far decorrere, nel caso di parto prematuro, l’intero
congedo obbligatorio dal lavoro dopo il parto effettivo, equilibrando così la
situazione tra la fattispecie di parto a termine e quella di parto
prematuro».
Pertanto, la richiesta
pronuncia additiva non sarebbe costituzionalmente obbligata, ma rientrerebbe tra
le scelte possibili rimesse alla discrezionalità del legislatore, come, del
resto, proprio questa Corte avrebbe posto in evidenza con la statuizione sopra
indicata.
L’eccezione non è
fondata.
E’ vero che la sentenza n. 270
del 1999, dopo aver rilevato «l’incongruenza della disposizione in parola
nell’ipotesi di parto prematuro», osservò che si proponevano diverse soluzioni
«con specifico riguardo alla decorrenza del periodo di astensione, spostandone
l’inizio o al momento dell’ingresso del neonato nella casa familiare, o alla
data presunta del termine fisiologico di una gravidanza normale» (punto 5 del Considerato in diritto). La stessa
sentenza mise in luce che la prima soluzione era analoga a quella relativa
all’ipotesi di affidamento preadottivo del neonato (sentenza n. 332 del
1998), mentre la seconda era parsa meritevole di essere seguita dal disegno
di legge n. 4624, recante «Disposizioni per sostenere la maternità e la
paternità e per armonizzare i tempi di lavoro, di cura e della famiglia»,
presentato dal Governo alla Camera dei Deputati in data 3 marzo 1998. Essa
aggiunse che «La scelta tra le diverse possibili soluzioni spetta al
legislatore», pervenendo comunque alla declaratoria d’illegittimità
costituzionale dell’art. 4, primo comma, lettera c) della legge n. 1204 del 1971, nella
parte in cui non prevedeva per l’ipotesi di parto prematuro una decorrenza dei
termini del periodo dell’astensione obbligatoria idonea ad assicurare una adeguata tutela della madre e del
bambino.
Ciò posto, a parte quanto sarà
detto di qui a poco, allorché si esaminerà il merito della questione, una
riflessione ulteriore va compiuta in ordine al carattere, vincolato o
discrezionale, dell’individuazione della data dalla quale far decorrere il
congedo obbligatorio di maternità nell’ipotesi di parto
prematuro.
Essa non può decorrere dalla
data presunta del termine fisiologico di una gravidanza normale. Questo criterio
è giustificato per calcolare i due mesi precedenti la data presunta del parto
(art. 16, lettera a, d.lgs. n. 151
del 2001), perché è l’unico utilizzabile in relazione ad un evento non ancora
avvenuto, il cui avveramento però è ragionevolmente
certo e riscontrabile. Non altrettanto può dirsi nel caso di parto prematuro,
perché in detta circostanza con il richiamo alla data presunta si opera un
riferimento ipotetico ad un evento che, in realtà, è già avvenuto, onde il
criterio si risolve in una mera fictio che non consente la
verifica della sua idoneità ad assicurare una tutela piena ed adeguata della
madre e del bambino per l’intero periodo di spettanza del congedo. Del resto, lo
stesso legislatore, collegando rigidamente il decorso del congedo post partum
alla data del parto, mostra di volere per la detta decorrenza un riferimento
certo.
Pertanto, per individuare il
dies a quo della decorrenza del periodo di
astensione in caso di parto prematuro, resta la soluzione di ancorare – al
termine del ricovero – la relativa data all’ingresso del neonato nella casa
familiare, vale a dire ad un momento certo, sicuramente idoneo a stabilire tra
madre e figlio quella comunione di vita che l’immediato ricovero del neonato
nella struttura ospedaliera non aveva consentito. Tale soluzione, dunque, appare
l’unica percorribile, con conseguente infondatezza dell’eccezione sollevata
dall’ente previdenziale.
4. — Nel merito, la questione
è fondata.
Va premesso che, secondo la
giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 270 del
1999, n. 332
del 1988, n.
1 del 1987), il congedo obbligatorio, oggi disposto dall’art. 16 d.lgs. n.
151 del 2001, senza dubbio ha il fine di tutelare la salute della donna nel
periodo immediatamente susseguente al parto, per consentirle di recuperare le
energie necessarie a riprendere il lavoro. La norma, tuttavia, considera e
protegge anche il rapporto che in tale periodo si instaura tra madre e figlio, e
ciò non soltanto per quanto attiene ai bisogni più propriamente biologici, ma
anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale e affettivo
collegate allo sviluppo della personalità del bambino.
Il citato art. 16, che apre il
capo recante la disciplina del congedo di maternità, vieta di adibire al lavoro
le donne: a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo
quanto previsto all’art. 20 (che contempla la flessibilità del detto congedo);
b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la
data presunta e la data effettiva del parto; c) durante i tre mesi dopo il
parto, salvo quanto previsto all’art. 20. La lettera d), infine, dispone che il divieto opera
anche durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora esso
avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni sono aggiunti
al periodo di congedo di maternità dopo il parto.
Come si vede, il principio
secondo cui il congedo obbligatorio post
partum decorre comunque dalla data di questo è
rimasto immutato, anche in relazione ai casi, come la fattispecie in esame,
nei quali il parto non è soltanto precoce rispetto alla
data prevista, ma avviene con notevole anticipo (cosiddetto parto prematuro),
tanto da richiedere un immediato ricovero del neonato presso una struttura
ospedaliera pubblica o privata, dove deve restare per periodi anche molto
lunghi.
In siffatte ipotesi – come
questa Corte ha già avuto occasione di rilevare (sentenza n. 270 del
1999) – la madre, una volta dimessa e pur in congedo obbligatorio, non può
svolgere alcuna attività per assistere il figlio ricoverato. Nel frattempo,
però, il periodo di astensione obbligatoria decorre, ed ella è obbligata a
riprendere l’attività lavorativa quando il figlio deve essere assistito a casa.
Né per porre rimedio a tale situazione può considerarsi sufficiente aggiungere
al periodo di congedo di maternità dopo il parto gli ulteriori giorni non goduti
prima di esso, trattandosi comunque di un periodo breve (al massimo due mesi),
che non garantisce la realizzazione di entrambe le finalità (sopra richiamate)
dell’istituto dell’astensione obbligatoria dal lavoro.
Basta considerare che, nel
caso di specie, rispetto alla data prevista per il 1° luglio 2005, la bambina
venne alla luce il 25 marzo 2005 e rimase ricoverata in ospedale fino all’8
agosto 2005, vale a dire quasi per l’intera durata dell’astensione obbligatoria
della madre ante e
post partum.
In simili casi, com’è
evidente, il fine di proteggere il rapporto, che dovrebbe instaurarsi tra madre
e figlio nel periodo immediatamente successivo alla nascita, rimane di fatto
eluso. Tale situazione è inevitabile quando la donna, per ragioni di salute
(alla cui tutela il congedo obbligatorio post partum è
anche finalizzato), non possa riprendere l’attività lavorativa e, quindi, debba
avvalersi subito del detto congedo. Non altrettanto può dirsi quando sia la
stessa donna, previa presentazione di documentazione medica attestante la sua
idoneità alle mansioni cui è preposta, a chiedere di riprendere l’attività per
poter poi usufruire del restante periodo di congedo a decorrere dalla data
d’ingresso del bambino nella casa familiare.
In detta situazione l’ostacolo
all’accoglimento di tale richiesta, costituito dal rigido collegamento della
decorrenza del congedo dalla data del parto, si pone in contrasto sia con l’art.
3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento – privo di ragionevole
giustificazione – tra il parto a termine e il parto prematuro, sia con i
precetti costituzionali posti a tutela della famiglia (artt. 29, primo comma,
30, 31 e 37, primo comma, Cost.).
La tesi dell’ente
previdenziale, secondo cui i principi dettati sarebbero ben salvaguardati da
altri istituti contemplati nel vigente ordinamento, come il congedo per malattia
del figlio e il congedo facoltativo, non può essere condivisa. Si tratta,
infatti, d’istituti diversi, diretti a garantire una tutela diversa e ulteriore,
che però non possono essere invocati per giustificare la carenza di protezione
nella situazione ora evidenziata.
Quanto alla decorrenza del
congedo obbligatorio dopo il parto, in caso di parto prematuro con ricovero del
neonato presso una struttura ospedaliera pubblica o privata, essa va individuata
nella data d’ingresso del bambino nella casa familiare al termine della degenza
ospedaliera. Si richiamano, al riguardo, le considerazioni svolte nel punto 3
che precede.
5. — Pertanto, deve essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, lettera c), d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte
in cui non consente, in caso di parto prematuro con ricovero del neonato in una
struttura sanitaria pubblica o privata, che la madre lavoratrice possa fruire, a
sua richiesta e compatibilmente con le sue condizioni di salute attestate da
documentazione medica, del congedo obbligatorio che le spetta, o di parte di
esso, a far tempo dalla data d’ingresso del bambino nella casa
familiare.
Infine, è il caso di chiarire,
con riguardo all’art. 18 d.lgs. n. 151 del 2001, che punisce con l’arresto fino
a sei mesi l’inosservanza delle disposizioni contenute negli artt. 16 e 17 del
medesimo decreto, che la suddetta pronuncia non estende l’area della punibilità
della fattispecie penale. Essa, infatti, non modifica i destinatari della norma
né la sanzione, limitandosi ad introdurre per la donna lavoratrice la facoltà di
ottenere una diversa decorrenza del congedo obbligatorio, che rimane pur sempre
nell’ambito applicativo della norma censurata.
per questi
motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 16, lettera c), del
decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a
norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non
consente, nell’ipotesi di parto prematuro con ricovero del neonato in una
struttura sanitaria pubblica o privata, che la madre lavoratrice possa fruire, a
sua richiesta e compatibilmente con le sue condizioni di salute attestate da
documentazione medica, del congedo obbligatorio che le spetta, o di parte di
esso, a far tempo dalla data d’ingresso del bambino nella casa familiare.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 aprile
2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO,
Presidente
Alessandro
CRISCUOLO, Redattore
Gabriella
MELATTI, Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 7 aprile 2011.
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