ORDINANZA N.
210
ANNO 2011
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO
”
- Franco GALLO
”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE
”
- Giuseppe TESAURO
”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO
”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI
”
- Giorgio LATTANZI
”
ha pronunciato
la seguente
ORDINANZA
nel giudizio
di legittimità costituzionale dell’articolo 126-bis, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo
codice della strada), nel testo modificato dall’art.
2, comma 164, lettera b), del
decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia
tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 24 novembre 2006, n. 286, promosso dal
Giudice di pace di Ficarolo nel procedimento vertente tra G.R. e il Comune di
Castelmassa con ordinanza del 6 luglio 2010, iscritta al n. 318 del registro
ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
43, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22
giugno 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.
Ritenuto
che il Giudice
di pace di Ficarolo, con ordinanza del 6 luglio 2010, ha
sollevato – in riferimento agli articoli 24 e 3 della Costituzione – due
questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 126-bis, comma 2, del decreto legislativo 30
aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nel testo modificato dall’art.
2, comma 164, lettera b), del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262
(Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre 2006, n.
286;
che, secondo
il giudice remittente, la giurisprudenza di legittimità (è citata Corte di
cassazione, Sezione II civile, sentenza n. 17348 del 30 maggio 2007) avrebbe
prospettato un’interpretazione della norma censurata secondo cui l’illecito
amministrativo da essa previsto – e consistente nell’omessa comunicazione, da
parte del proprietario di un veicolo, dei dati personali e della patente del
conducente dello stesso, resosi responsabile di un’infrazione stradale,
sanzionata oltre che sul piano pecuniario, anche con la decurtazione del
punteggio dalla patente di guida – avrebbe carattere «istantaneo», consumandosi
«nel termine di sessanta giorni dalla notificazione del verbale» relativo,
appunto, ad una di tali infrazioni per le quali è previsto il suddetto obbligo
di comunicazione;
che siffatto
indirizzo, tuttavia, darebbe luogo – secondo il giudice a quo – alla «lesione del principio nemo tenetur se detegere», giacché il
proprietario del veicolo, richiesto di comunicare i dati personali e della
patente del responsabile della precedente infrazione (non identificato al
momento dell’accertamento della stessa), dovrebbe «necessariamente fare la
predetta dichiarazione ex art. 126-bis» nello stesso termine di sessanta
giorni «di cui dispone per la proposizione dei ricorsi» esperibili avverso il
verbale di contestazione dell’infrazione stradale
«presupposto»;
che tale
opzione ermeneutica – sempre a dire del remittente – sarebbe, tuttavia, «in
rotta di collisione» con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 27 del
2005, giacché essa preciserebbe che in «nessun caso» il proprietario del
veicolo è «tenuto a rivelare i dati personali e della patente del conducente
prima della definizione dei procedimenti giurisdizionali o amministrativi per
l’annullamento del verbale di contestazione
dell’infrazione»;
che
l’alternativa in cui viene posto il proprietario del veicolo – per effetto di
tale interpretazione della norma censurata – sarebbe in contrasto, secondo il
giudice a quo, con il principio della
inviolabilità del diritto di difesa, e dunque con l’art. 24
Cost.;
che
l’interessato, infatti, potrebbe o «liberarsi dalla necessità di “confessare”
scegliendo di pagare la sanzione pecuniaria di cui all’art. 126-bis» del codice della strada, ovvero
rendere «una confessione di responsabilità», ciò che però equivarrebbe a
riconoscere «che lo Stato possa pretendere che egli confessi di essere stato il
conducente del veicolo, al diverso fine dell’applicazione della sanzione
accessoria della decurtazione dei punti dalla patente di guida», prefigurando,
così, un modello del tutto inedito di «collaborazione del cittadino all’attività
della P.A.»;
che, per
contro, prima dell’introduzione della cosiddetta “patente a punti”, il codice
della strada si limitava al più a sanzionare – all’art. 180, comma 8 – «la
mancata collaborazione consistente nell’omessa esibizione di documenti, dei
quali il conducente di un veicolo» fosse risultato sprovvisto allorché
«fermato»;
che nel
sistema previgente, in altri termini, era «ovvio il principio secondo cui
l’onere della prova degli illeciti amministrativi» non può «trasferirsi al
cittadino, men che meno prevedendo l’obbligatorietà della confessione della sua
eventuale responsabilità»;
che su tali
basi, pertanto, il remittente ha chiesto dichiararsi l’illegittimità
costituzionale dell’art. 126-bis,
comma 2, del codice della strada, peraltro limitatamente «al caso in cui il
proprietario» – ovvero l’altro soggetto, diverso dal conducente, tenuto alla
comunicazione (cioè l’obbligato in solido ai sensi dell’articolo 196 del
medesimo codice) – dovesse «confessare la propria
responsabilità»;
che il giudice
remittente – pur ritenendo assorbente tale questione rispetto a quella
prospettata dalla difesa del ricorrente nel giudizio a quo – ha sollevato, per l’ipotesi in
cui «così non fosse ritenuto» dalla Corte costituzionale, un’ulteriore questione
di legittimità costituzionale;
che, difatti,
la norma censurata – ove fosse da interpretare nel senso che costringe il
proprietario del veicolo ad una scelta «tra il pagamento della sanzione
pecuniaria e l’effettuazione della dichiarazione» – violerebbe l’art. 3 Cost.,
giacché le «persone meno abbienti, in realtà, non possono avvalersi della “prima
possibilità”», a differenza di «quelle facoltose», le quali possono conservare
intatti «i propri diritti (punti patente, sospensione della stessa)
semplicemente pagando»;
che è
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che le questioni
vengano dichiarate manifestamente infondate;
che viene
richiamata la sentenza n. 165 del
2008 della Corte costituzionale, la quale – nel rigettare, a dire della
difesa statale, analoga questione di legittimità costituzionale – ebbe ad
osservare come il giudice a quo non
avesse attribuito il dovuto rilievo «alla circostanza che agli illeciti
amministrativi contemplati dal codice della strada si applica la disciplina
generale dell’illecito depenalizzato di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689
(Modifiche al sistema penale), il cui art. 3, nel subordinare la responsabilità
all’esistenza di un’azione od omissione che sia “cosciente e volontaria”, ha
inteso, appunto, prevedere il caso fortuito o la forza maggiore quali
circostanze idonee ad esonerare l’agente da
responsabilità»;
che non in
contrasto con tali principi si porrebbe – secondo l’Avvocatura generale dello
Stato – l’interpretazione della norma censurata proposta dalla giurisprudenza di
legittimità;
che, difatti,
il «compito di verificare l’esimente della responsabilità omissiva a carico del
proprietario del veicolo» – prosegue la difesa statale – «è esercitato dal
Giudice di pace nel momento in cui il primo proponga ricorso, sostenendo
l’ingiusta valutazione da parte dell’autorità verbalizzante del motivo addotto a
giustificazione dell’impossibilità di fornire i dati del
conducente»;
che in
riferimento, invece, «all’obbligo di comunicazione del nominativo del conducente
prima e a prescindersi dall’intervenuta definitività dell’accertamento della
violazione», l’Avvocatura generale dello Stato richiama la sentenza della Corte
costituzionale n. 27 del 2005;
che la stessa,
infatti, «pur non affrontando ex professo
il tema», ebbe ad affermare – osserva sempre la difesa statale – che «in
nessun caso il proprietario è tenuto a rivelare i dati personali e della patente
del conducente prima della definizione dei procedimenti giurisdizionali o
amministrativi per l’annullamento del verbale di contestazione dell’infrazione»,
dovendo la contestazione ritenersi definita solo «quando sia avvenuto il
pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria o siano conclusi i
procedimenti dei ricorsi amministrativi o giurisdizionali ammessi ovvero siano
decorsi i termini per la proposizione dei medesimi»;
che quanto,
infine, all’ipotizzata violazione dell’art. 3 Cost., la difesa statale rileva
che il legislatore, a fronte della comprovata sussistenza di condizioni
personali giustificative, «ha apprestato appositi strumenti per agevolare il
pagamento delle sanzioni pecuniarie amministrative (rateizzazione della somma
dovuta a seguito dell’acquisizione della forma di titolo esecutivo del
verbale)», secondo quanto previsto dall’art. 203, comma 3, del codice della
strada e dall’art. 26 della legge n. 689 del 1981.
Considerato che il
Giudice di pace di Ficarolo ha sollevato – in riferimento agli articoli 24 e 3
della Costituzione – due questioni di legittimità costituzionale dell’articolo
126-bis, comma 2, del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nel testo
modificato dall’art. 2, comma 164, lettera b), del decreto-legge 3
ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre
2006, n. 286;
che le
questioni appaiono manifestamente inammissibili;
che, difatti,
il giudice remittente – oltre a proporre, quanto alla prima questione, un
quesito oscuro, non essendo chiaro come il carattere “istantaneo” dell’illecito
amministrativo, conseguente alla violazione dell’obbligo di comunicazione di cui
alla norma censurata, possa determinare una lesione del principio nemo tenetur se detegere (specie ove si
consideri che questa Corte ha individuato una serie di ipotesi nella quali la
contestazione, in sede giudiziale o amministrativa, della legittimità del
verbale di accertamento dell’illecito “presupposto”, rispetto a quello previsto
dalla norma censurata, risulta «idonea ex se ad integrare quel
“documentato e giustificato motivo” al quale dà espresso rilievo l’art.
126-bis, comma 2, del codice della strada»; ordinanza n. 306 del
2009) – omette completamente di descrivere la fattispecie concreta oggetto
del giudizio principale;
che tale
carenza, impedendo a questa Corte ogni valutazione sulla rilevanza delle
questioni sollevate, comporta la manifesta inammissibilità delle stesse (si
vedano, da ultimo, le ordinanze numeri 158, 154 e 131 del
2011).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
per
questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta
inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo
126-bis, comma 2, del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nel testo
modificato dall’art. 2, comma 164, lettera b), del decreto-legge 3
ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre
2006, n. 286, sollevate – in riferimento agli articoli 24 e 3 della Costituzione
– dal Giudice di pace di Ficarolo.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio
2011.
F.to:
Alfonso
QUARANTA, Presidente e
Redattore
Gabriella
MELATTI,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 13 luglio
2011.
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