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domenica 20 aprile 2014

Corte Costituzionale: N. 81 SENTENZA 7 - 8 aprile 2014 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Mafia - Condannati per delitti di criminalita' organizzata o sottoposti a misure di prevenzione indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso - Reato di omissione dell'obbligo di comunicazione di variazioni patrimoniali - Trattamento sanzionatorio.


N. 81 SENTENZA 7 - 8 aprile 2014

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Mafia  -  Condannati  per  delitti  di  criminalita'  organizzata   o
  sottoposti a misure di prevenzione  indiziati  di  appartenenza  ad
  associazioni di tipo mafioso - Reato di omissione  dell'obbligo  di
  comunicazione   di   variazioni    patrimoniali    -    Trattamento
  sanzionatorio.
- Legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di  misure
  di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi
  27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962,  n.  57  e  31  maggio
  1965, n. 575.  Istituzione  di  una  commissione  parlamentare  sul
  fenomeno della mafia), art. 31,   parzialmente  trasfuso  nell'art.
  76, comma 7, del decreto  legislativo  6  settembre  2011,  n.  159
  (Codice delle  leggi  antimafia  e  delle  misure  di  prevenzione,
  nonche' nuove disposizioni in materia di documentazione  antimafia,
  a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136).
-  
(GU n.17 del 16-4-2014 )  

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Gaetano SILVESTRI;
Giudici :Luigi MAZZELLA,  Sabino  CASSESE,  Giuseppe  TESAURO,  Paolo
  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe  FRIGO,  Alessandro  CRISCUOLO,  Paolo
  GROSSI, Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Sergio
  MATTARELLA, Mario Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,  Giuliano
  AMATO,
     
    ha pronunciato la seguente

                              SENTENZA

    nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  31  della
legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di
prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle  leggi  27
dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965,  n.
575. Istituzione di una commissione parlamentare sul  fenomeno  della
mafia), parzialmente trasfuso nell'art.  76,  comma  7,  del  decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia  e
delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136), promosso dal Giudice  dell'udienza  preliminare
del Tribunale di Trapani nel procedimento penale a carico di C.T. con
ordinanza del 23  gennaio  2013,  iscritta  al  n.  52  del  registro
ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2013.
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri;
    udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 2014  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo.

                          Ritenuto in fatto

    1.- Con ordinanza del 23 gennaio 2013,  il  Giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale di Trapani  ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3, 27, terzo comma, e 42 della Costituzione, questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 31  della  legge  13  settembre
1982, n. 646 (Disposizioni in materia di  misure  di  prevenzione  di
carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27  dicembre  1956,
n. 1423,  10  febbraio  1962,  n.  57  e  31  maggio  1965,  n.  575.
Istituzione  di  una  commissione  parlamentare  sul  fenomeno  della
mafia), parzialmente trasfuso nell'art.  76,  comma  7,  del  decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia  e
delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede,  per  il  reato  di
omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, la pena minima di
due anni di reclusione e di euro 10.329 di multa, nonche' la confisca
obbligatoria   del    bene    acquistato    o    del    corrispettivo
dell'alienazione.
    Il giudice a quo premette  di  essere  investito,  a  seguito  di
richiesta di giudizio abbreviato, del processo penale  nei  confronti
di una persona imputata del reato di cui agli artt.  30  e  31  della
legge n. 646 del 1982.
    Al riguardo, il rimettente  riferisce  che  con  decreto  del  20
aprile 2006, divenuto definitivo il 13  marzo  2007,  l'imputato  era
stato  sottoposto  alla  misura  di  prevenzione  della  sorveglianza
speciale con obbligo di soggiorno per la durata di quattro  anni,  in
quanto indiziato di appartenenza ad una associazione di tipo mafioso.
    A seguito di accertamenti della Guardia di  finanza,  era  emerso
che il 28 dicembre 2007 - e, dunque, in data successiva a  quella  in
cui il provvedimento era divenuto definitivo -  l'imputato,  a  mezzo
dell'institore nominato  al  fine  di  amministrare  la  sua  impresa
individuale, aveva venduto ad  un  privato,  mediante  atto  pubblico
rogato da un notaio, un fabbricato (di legittima provenienza) per  il
prezzo di euro 480.000.
    Ne' l'imputato ne' l'institore avevano peraltro  effettuato,  nei
trenta giorni successivi e comunque entro  il  31  gennaio  dell'anno
seguente, la prescritta comunicazione alla polizia  tributaria  della
variazione  patrimoniale  determinata  dalla  compravendita.  Di  qui
l'esercizio dell'azione penale per il reato dianzi indicato.
    Tanto premesso, il giudice a quo osserva come, tramite gli  artt.
30 e 31 della legge  n.  646  del  1982,  sia  stata  introdotta  una
speciale forma di «monitoraggio» delle variazioni del  patrimonio  di
persone da ritenere socialmente pericolose.
    L'art. 30 ha previsto, in particolare, che le persone  condannate
con sentenza definitiva  per  il  delitto  di  associazione  di  tipo
mafioso (art. 416-bis  cod.  pen.)  o  sottoposte  con  provvedimento
definitivo a misura di prevenzione ai sensi  della  legge  31  maggio
1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo
mafioso, anche straniere), in quanto indiziate di appartenenza ad una
delle associazioni previste dall'art. 1 della medesima legge, debbano
comunicare al nucleo  di  polizia  tributaria  del  luogo  di  dimora
abituale, per un periodo di dieci  anni  a  partire  dalla  data  del
decreto di applicazione della misura o della sentenza  definitiva  di
condanna, tutte le variazioni nell'entita' e nella  composizione  del
loro patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad  euro
10.329,14.  Per  tale  comunicazione  e'  previsto  sia  un   termine
decorrente dal compimento del singolo atto di disposizione  -  trenta
giorni - che un termine riferito al complesso degli atti  dispositivi
compiuti  nell'anno  solare,  fissato  nel   31   gennaio   dell'anno
successivo.
    L'art. 31 della  medesima  legge  n.  646  del  1982  punisce  la
violazione dell'obbligo di comunicazione con la pena della reclusione
da due a sei anni e della  multa  da  euro  10.329  ad  euro  20.568,
stabilendo,  altresi',  che  alla  condanna  consegua   la   confisca
obbligatoria  dei  beni  a  qualunque   titolo   acquistati   o   del
corrispettivo proveniente dall'atto di alienazione.
    Il novero dei soggetti gravati dall'obbligo di  comunicazione  e'
stato successivamente ampliato dalla legge 13  agosto  2010,  n.  136
(Piano straordinario contro le mafie, nonche' delega  al  Governo  in
materia di normativa antimafia), il cui art. 7, comma 1, lettera  b),
sostituendo il primo comma dell'art. 30 della legge n. 646 del  1982,
vi ha aggiunto le persone  condannate  con  sentenza  definitiva  per
taluno dei delitti previsti dall'art. 51, comma 3-bis, del codice  di
procedura penale o per il reato di cui all'art.  12-quinquies,  comma
1, del decreto-legge 8 giugno 1992,  n.  306  (Modifiche  urgenti  al
nuovo codice di procedura penale e provvedimenti  di  contrasto  alla
criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla  legge  7
agosto 1992, n. 356. La medesima legge n. 136  del  2010,  novellando
l'art. 31 della legge n. 646 del 1982, ha inoltre previsto  che,  nel
caso in cui risulti impossibile la confisca del bene acquistato o del
corrispettivo  di  quello  venduto,  la  confisca   ha   luogo   "per
equivalente".
    Il quadro normativo e' stato ulteriormente modificato dal  d.lgs.
n. 159 del 2011 (emanato in base alla delega conferita  dalla  stessa
legge n.  136  del  2010),  il  quale  ha  scisso  in  due  parti  la
fattispecie originariamente prevista dalle  norme  in  questione.  Le
disposizioni, precettiva e sanzionatoria, contenute negli artt. 30  e
31 della legge n. 646 del 1982 sono state,  infatti,  trasfuse  negli
artt.  80  e  76,  comma  7,  del   suddetto   decreto   legislativo,
limitatamente ai soggetti  sottoposti  a  misure  di  prevenzione.  I
predetti artt. 30 e 31 sono rimasti, di conseguenza,  in  vigore  con
riguardo ai soli soggetti condannati con sentenza definitiva.
    Nel caso di specie,  risulterebbe  applicabile  l'art.  31  della
legge n. 646 del 1982, essendo  i  fatti  anteriori  sia  alla  legge
delega del 2010  che  al  decreto  delegato  del  2011.  I  dubbi  di
legittimita'   costituzionale   originati   da   detta    norma    si
trasferirebbero, peraltro, automaticamente sull'art. 76, comma 7, del
d.lgs. n. 159 del 2011, che ne ha integralmente recepito il contenuto
con riguardo ai sorvegliati speciali.
    Il  giudice  a  quo  dubita,  in   specie,   della   legittimita'
costituzionale del citato art. 31 nella parte in cui prevede, per  la
violazione dell'obbligo di comunicazione, una pena edittale minima di
due anni di reclusione e di euro 10.329 di multa, nonche' la confisca
obbligatoria   del    bene    acquistato    o    del    corrispettivo
dell'alienazione.
    Il rimettente si dichiara consapevole del fatto che questa  Corte
si  e'  gia'  pronunciata  in  piu'  occasioni   sulla   legittimita'
costituzionale degli artt. 30 e 31  della  legge  n.  646  del  1982,
dichiarando   manifestamente   infondate   le   questioni   sollevate
(ordinanze n. 362 e n. 143 del 2002, n. 442 del 2001).
    In dette occasioni - prosegue il  giudice  a  quo  -  le  censure
prospettate dai rimettenti, che investivano sia il  precetto  che  la
sanzione, furono disattese per due concorrenti ragioni. Da  un  lato,
si  ritenne  che  la  denunciata  irragionevolezza  delle  previsioni
normative  sottoposte  a  scrutinio  fosse  frutto   di   valutazioni
soggettive dei giudici a quibus, non tradotte in profili apprezzabili
sul piano della verifica di  costituzionalita',  tenuto  conto  anche
della discrezionalita' del  legislatore  nella  configurazione  degli
illeciti penali  e  nella  determinazione  delle  relative  sanzioni.
Dall'altro lato, la Corte osservo'  che  la  denunciata  sproporzione
delle sanzioni, in rapporto a  violazioni  meramente  formali  e  non
necessariamente indicative di intenti dissimulatori,  avrebbe  potuto
essere evitata tramite una lettura costituzionalmente orientata delle
norme  censurate,  che  escludesse   la   sussistenza   dell'elemento
soggettivo  del  reato  nei  casi  in  cui  la  conoscibilita'  della
variazione patrimoniale fosse comunque assicurata attraverso forme di
pubblicita'  legale  e  risultasse,   di   conseguenza,   impossibile
l'occultamento degli atti soggetti a comunicazione.
    Negli anni immediatamente successivi alle pronunce ora ricordate,
tuttavia, si e' definitivamente affermato,  nella  giurisprudenza  di
legittimita', il contrario indirizzo secondo il quale il  delitto  in
questione  e'  configurabile  anche   quando   l'omissione   riguardi
operazioni effettuate mediante atti pubblici, trattandosi di un reato
di pericolo presunto, avente non  solo  la  finalita'  di  consentire
all'amministrazione finanziaria di conoscere con immediatezza il dato
sensibile,   ma   anche   quella   di   rendere   obbligatoria    per
l'amministrazione una verifica altrimenti solo eventuale. La Corte di
cassazione  ha  negato,  inoltre,  che  l'ignoranza  dell'obbligo  di
comunicazione possa  escludere  il  dolo,  posto  che  la  previsione
dell'art. 30 della legge n. 646 del 1982 integra il precetto penale.
    La  figura   criminosa   in   discussione   verrebbe,   pertanto,
interpretata dal «diritto vivente» in termini molto piu' rigorosi  di
quelli suggeriti dai pregressi interventi della Corte costituzionale.
In simile situazione, il minimo edittale della pena e  la  previsione
della confisca obbligatoria si paleserebbero iniqui non sulla base di
una  semplice  valutazione  soggettiva,  ma  in  ragione  della  loro
inconciliabilita' con «precisi parametri costituzionali».
    Il regime sanzionatorio  denunciato  si  porrebbe  in  contrasto,
anzitutto, con l'art. 3 Cost., tenuto conto del carattere  «meramente
formale»   della   violazione   penalmente   repressa,    la    quale
prescinderebbe non soltanto dalla illegittima provenienza  dei  beni,
ma anche da qualsiasi intento dissimulatorio. Alla luce del ricordato
indirizzo giurisprudenziale, la sanzione penale colpirebbe,  infatti,
anche chi ha concluso l'operazione tramite atto pubblico,  rogato  da
un notaio e comunicato, quindi, per legge all'agenzia delle  entrate:
articolazione dell'amministrazione  finanziaria,  quest'ultima,  alla
quale la Guardia di finanza e' costantemente collegata attraverso  il
sistema  informatico  «SERPICO»  (Servizio  per  il  contribuente)  -
inesistente all'epoca in cui fu introdotta la norma in esame - grazie
al quale la polizia tributaria e' in grado di conoscere in  qualsiasi
momento tutti i movimenti finanziari  di  un  soggetto  sottoposto  a
misura di prevenzione, anche in attuazione del disposto dell'art.  25
della legge n. 646 del 1982, come modificato dalla legge n.  136  del
2010.
    Se pure  non  potrebbe  porsi  in  discussione  la  facolta'  del
legislatore di imporre, per fini di prevenzione speciale e di  tutela
dell'ordine pubblico, la comunicazione ad un nucleo specializzato  di
investigatori delle operazioni di  un  certo  importo  effettuate  da
soggetti dei quali sia stata accertata la pericolosita', apparirebbe,
tuttavia,  incompatibile  con  i  principi  di   eguaglianza   e   di
ragionevolezza  la  previsione,  per  una  violazione  quale   quella
considerata, di una pena detentiva  e  pecuniaria  dal  minimo  cosi'
elevato.
    La norma denunciata sanziona, infatti, un'omissione spesso  priva
di finalita' dissimulatorie con la medesima pena detentiva minima  (e
massima) prevista per il  delitto  di  trasferimento  fraudolento  di
valori  al  fine  di  eludere  la  legge  in  materia  di  misure  di
prevenzione o di commettere uno dei reati  di  cui  agli  artt.  648,
648-bis e 648-ter del codice penale (art. 12-quinquies  del  d.l.  n.
306 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n.  356  del
1992); pena alla quale  si  aggiunge  anche  quella  pecuniaria,  non
contemplata per tale delitto.
    L'auspicata eliminazione del minimo edittale  non  comporterebbe,
d'altra parte, «alcun vulnus all'integrita' dell'ordinamento penale».
In conseguenza di  essa,  la  determinazione  delle  sanzioni  minime
resterebbe affidata alle disposizioni generali degli artt.  23  e  24
cod. pen., sulla falsariga di quanto  indicato  da  questa  Corte  in
occasione della dichiarazione di illegittimita' costituzionale  della
pena minima del delitto di oltraggio a pubblico  ufficiale,  prevista
dall'art. 341 cod. pen., nel testo allora vigente  (sentenza  n.  341
del 1994).
    La   previsione   della   confisca   obbligatoria    risulterebbe
inconciliabile, oltre che - per i  motivi  esposti  -  con  l'art.  3
Cost.,  anche  con  l'art.  42  Cost.  Imponendo   di   adottare   il
provvedimento ablatorio anche quando l'operazione  riguardi  beni  di
legittima provenienza e sia stata effettuata mediante atto  pubblico,
la norma denunciata impedirebbe, infatti, al giudice di  graduare  la
risposta sanzionatoria  in  rapporto  all'effettivo  disvalore  della
condotta, con il risultato di collegare ad una  violazione  puramente
formale una eccessiva compressione  del  diritto  di  proprieta',  in
assenza di qualsiasi connotazione  di  pericolosita'  intrinseca  del
bene.
    La norma censurata violerebbe, da ultimo, l'art. 27, terzo comma,
Cost.,  che,  nello  stabilire  che  le  pene  debbano  tendere  alla
rieducazione del condannato, implica necessariamente una  proporzione
tra disvalore del fatto e sanzione. Nella specie,  per  converso,  la
pena minima e la confisca obbligatoria previste  dall'art.  31  della
legge n. 646 del 1982 rischierebbero di allontanare  ulteriormente  i
soggetti interessati  da  un  gia'  difficile  percorso  di  recupero
sociale. Non di rado, infatti,  tali  sanzioni  vengono  applicate  a
persone che hanno scontato interamente la pena  loro  inflitta  o  il
periodo di sottoposizione  alla  misura  di  prevenzione,  colpendole
pesantemente a distanza  di  anni  nella  liberta'  personale  o  nel
patrimonio per un comportamento di mera disobbedienza, quando non per
una mera dimenticanza o per la stessa ignoranza del precetto.
    La questione sarebbe, altresi', rilevante  nel  giudizio  a  quo,
posto che  -  a  fronte  di  quanto  in  precedenza  riferito  e  non
sussistendo ragioni per escludere l'elemento  soggettivo  del  reato,
anche alla luce dell'attuale  orientamento  della  giurisprudenza  di
legittimita' -  l'imputato  si  troverebbe  esposto  all'applicazione
delle sanzioni  previste  dalla  norma  denunciata,  pur  non  avendo
dissimulato in alcun modo l'atto  di  disposizione  patrimoniale  del
quale si discute.
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo  che  la   questione   sia   dichiarata   inammissibile   o
manifestamente infondata.
    La difesa dello Stato rileva come la  Corte  costituzionale,  nel
dichiarare manifestamente inammissibili  o  manifestamente  infondate
precedenti questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 30  e
31 della legge n. 646 del 1982, abbia rimarcato la legittimita' della
scelta legislativa di sanzionare penalmente la mancata  comunicazione
delle operazioni patrimoniali da parte di una persona sottoposta  con
provvedimento  definitivo  a  misura  di   prevenzione   qualificata,
nell'ambito di un sistema di contrasto della criminalita' organizzata
fortemente  caratterizzato  dall'utilizzo  di   strumenti   di   tipo
patrimoniale.
    Ne'  potrebbe  ravvisarsi  alcuna  violazione  del  canone  della
ragionevolezza  nel  trattamento  sanzionatorio   dell'illecito.   Al
riguardo, occorrerebbe considerare come  l'obbligo  di  comunicazione
previsto dagli artt. 30 della legge n. 646 del 1982 e 80  del  d.lgs.
n. 159 del 2011  richieda  un  «impegno  assolutamente  irrisorio»  a
coloro che vi sono soggetti, onde sarebbe del tutto  ragionevole  che
la sua inosservanza sia riguardata «in termini di massimo sospetto».
    Non  condivisibile  sarebbe,   altresi',   la   valutazione   del
rimettente di «inoffensivita'» dell'omissione penalmente  sanzionata,
allorche' - come  nella  specie  -  essa  riguardi  un  trasferimento
effettuato mediante atto  pubblico,  rogato  da  notaio:  valutazione
basata sull'assunto che, in tal caso, la comunicazione  alla  polizia
tributaria risulterebbe  "assorbita"  dalla  comunicazione  dell'atto
notarile all'agenzia  delle  entrate,  obbligatoria  per  legge.  Ben
diversa  sarebbe,  infatti,  la  funzione  delle   comunicazioni   in
discorso. La comunicazione  degli  atti  pubblici  all'agenzia  delle
entrate,  cui  fa  riferimento  il   giudice   a   quo,   sembrerebbe
identificarsi in quella prevista ai fini della loro registrazione dal
d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione  del  testo  unico  delle
disposizioni concernenti  l'imposta  di  registro).  Si  tratterebbe,
dunque, di una comunicazione avente una finalita' meramente fiscale.
    Per converso, la  comunicazione  prescritta  dall'art.  30  della
legge n. 646 del 1982 e dall'art. 80 del d.lgs. n. 159 del  2011,  da
effettuare alla  polizia  tributaria,  ha  una  funzione  strumentale
rispetto ai controlli periodici previsti dalla  stessa  normativa  di
prevenzione, intesi a verificare  che  non  perduri  il  collegamento
dell'interessato con la criminalita' organizzata (art. 25 della legge
n. 646 del 1982). La comunicazione in questione avrebbe, quindi,  una
finalita' di  ordine  pubblico,  iscrivendosi  tra  i  meccanismi  di
contrasto del fenomeno associativo criminale di stampo mafioso.
    Per altro verso, poi, la Corte  costituzionale  avrebbe  chiarito
che la struttura stessa della fattispecie  incriminatrice  garantisce
la possibilita' di applicarla in maniera costituzionalmente corretta:
cio', in particolare, tramite l'esclusione  dell'elemento  soggettivo
del reato «quando la pubblicita' sia comunque assicurata e dunque sia
di  per  se'  impossibile  l'occultamento  degli  atti   soggetti   a
comunicazione» (ordinanza n. 442 del 2001). Indicazione, questa,  che
-  ad  avviso   dell'Avvocatura   dello   Stato   -   sarebbe   stata
sostanzialmente  recepita  dalla  giurisprudenza   di   legittimita',
secondo  la  quale  il  dolo  del  reato  in  questione  implica   la
consapevolezza da parte dell'imputato del presupposto  da  cui  sorge
l'obbligo e va desunto da elementi sintomatici,  legati  segnatamente
alle vicende di acquisizione del bene e al valore dello stesso.

                       Considerato in diritto

    1.- Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di  Trapani
dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 31 della legge  13
settembre  1982,  n.  646  (Disposizioni  in  materia  di  misure  di
prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle  leggi  27
dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965,  n.
575. Istituzione di una commissione parlamentare sul  fenomeno  della
mafia), parzialmente trasfuso nell'art.  76,  comma  7,  del  decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia  e
delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede,  per  il  reato  di
omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, la pena minima di
due anni di reclusione e di euro 10.329 di multa, nonche' la confisca
obbligatoria   del    bene    acquistato    o    del    corrispettivo
dell'alienazione.
    A parere del rimettente, la norma censurata violerebbe  l'art.  3
della Costituzione, per contrasto con i principi di eguaglianza e  di
ragionevolezza. Essa punirebbe,  infatti,  una  violazione  meramente
formale, indipendente dalla illegittima provenienza dei  beni  e  che
puo' risultare priva di ogni intento dissimulatorio - come  nel  caso
in cui l'omessa comunicazione riguardi un trasferimento  patrimoniale
operato tramite atto pubblico rogato da  un  notaio,  comunicato  per
legge all'amministrazione finanziaria - con la stessa pena  detentiva
minima prevista per il delitto di trasferimento fraudolento di valori
al fine di eludere la legge in materia di misure di prevenzione o  di
commettere uno dei reati di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter del
codice penale (art. 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992,  n.
306, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
provvedimenti di contrasto alla  criminalita'  mafiosa»,  convertito,
con modificazioni, dalla legge 7 agosto  1992,  n.  356);  pena  alla
quale si aggiunge una pena pecuniaria, non prevista per tale delitto,
oltre alla misura patrimoniale della confisca obbligatoria  del  bene
acquisito o del corrispettivo del trasferimento.
    La disposizione denunciata si porrebbe,  altresi',  in  contrasto
con l'art. 42 Cost., giacche', prevedendo  la  confisca  obbligatoria
anche quando l'operazione riguardi beni di  legittima  provenienza  e
sia stata effettuata con atto pubblico, impedirebbe di commisurare la
risposta  sanzionatoria  all'effettivo  disvalore   della   condotta,
collegando  ad  una  violazione  puramente  formale   una   eccessiva
compressione del diritto  di  proprieta',  in  assenza  di  qualsiasi
connotazione di pericolosita' intrinseca del bene.
    Sarebbe violato, infine, l'art. 27, terzo comma, Cost.,  giacche'
la previsione di sanzioni sproporzionate per  eccesso  rispetto  alla
gravita'  della  violazione   ostacolerebbe   la   rieducazione   del
condannato.
    2.- La questione e' inammissibile.
    L'art. 30 della legge n. 646 del 1982, nel testo novellato  dalla
legge 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario  contro  le  mafie,
nonche' delega al Governo in materia di normativa antimafia), prevede
che le persone condannate con  sentenza  definitiva  per  delitti  di
criminalita'  organizzata  (art.  51,  comma  3-bis,  del  codice  di
procedura penale) o per trasferimento  fraudolento  di  valori  (art.
12-quinquies del d.l.  n.  306  del  1992),  ovvero  sottoposte,  con
provvedimento definitivo, a misura di prevenzione personale ai  sensi
della  legge  31  maggio  1965,  n.  575  (Disposizioni   contro   le
organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche  straniere),  debbano
comunicare al nucleo  di  polizia  tributaria  del  luogo  di  dimora
abituale tutte le variazioni nell'entita' e  nella  composizione  del
loro patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad  euro
10.329,14. La comunicazione va effettuata  entro  trenta  giorni  dal
fatto, ovvero entro il 31 gennaio di ciascun anno per  le  variazioni
dell'anno precedente che, sommate, risultino di valore non  inferiore
a detto importo (cio', onde evitare  elusioni  del  precetto  tramite
l'artificioso frazionamento delle operazioni). L'obbligo sussiste per
un periodo di dieci anni dalla definitivita'  della  sentenza  o  del
provvedimento.
    Il successivo art.  31  punisce  l'omessa  comunicazione  con  la
reclusione da due a sei anni e la multa  da  10.329  a  20.568  euro,
stabilendo,  altresi',  che  alla  condanna  consegua   la   confisca
obbligatoria (anche "per equivalente")  dei  beni  acquistati  o  del
corrispettivo dell'alienazione.
    La  norma  precettiva  e  quella  sanzionatoria   risultano   ora
trasfuse, rispettivamente, negli artt. 80 e 76, comma 7,  del  d.lgs.
n. 159 del 2011, limitatamente alle persone sottoposte  a  misure  di
prevenzione. Le disposizioni della legge n.  646  del  1982  restano,
dunque, in vigore per i soli condannati.
    3.-    L'ipotesi     risultata     maggiormente     problematica,
nell'applicazione della previsione punitiva,  e'  quella  in  cui  la
variazione patrimoniale non comunicata alla polizia tributaria derivi
da un'operazione soggetta  a  forme  di  pubblicita'  legali  che  ne
assicurino la pronta e agevole conoscibilita'. Il caso  paradigmatico
- che viene  in  rilievo  nel  giudizio  a  quo  -  e'  quello  della
compravendita immobiliare stipulata mediante atto pubblico rogato  da
notaio (s'intende,  senza  fittizie  interposizioni  di  persona  che
dissimulino la partecipazione ad essa del condannato o del sottoposto
a misura di prevenzione): atto del quale il notaio rogante e'  tenuto
a curare entro brevi  termini  tanto  la  trascrizione  nei  registri
immobiliari (art. 2671 del  codice  civile,  art.  6  del  d.lgs.  31
ottobre 1990, n. 347, recante «Approvazione  del  testo  unico  delle
disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale»),  quanto
la registrazione a fini fiscali (artt. 10, comma 1, lettera b,  e  13
del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, recante  «Approvazione  del  Testo
unico  delle  disposizioni  concernenti  l'imposta   di   registro»),
comunicandolo,  in   tal   modo,   direttamente   all'amministrazione
finanziaria.
    Sul presupposto che, in simili  frangenti,  l'operativita'  della
norma incriminatrice in esame risultasse priva di adeguato fondamento
razionale e tale da  condurre  a  risultati  iniqui,  era  emerso  in
giurisprudenza,   all'inizio   degli   anni   2000,   un    indirizzo
interpretativo volto ad  escludere  la  configurabilita'  del  reato:
soluzione che  faceva  peraltro  leva,  piu'  che  sulla  carenza  di
tipicita' del fatto connessa ad un  deficit  di  offensivita',  sulla
ritenuta insussistenza dell'elemento soggettivo. Muovendo dal rilievo
che  lo  scopo  dell'incriminazione  -  anche  a  fronte  della   sua
collocazione nel capo III  della  legge  n.  646  del  1982,  recante
«Disposizioni fiscali  e  tributarie»  -  fosse  quello  di  impedire
l'occultamento all'amministrazione finanziaria degli  incrementi  dei
patrimoni di  soggetti  collegati  ad  associazioni  mafiose,  se  ne
deduceva che il  dolo  del  delitto  di  omessa  comunicazione  delle
variazioni patrimoniali non potesse essere, a sua volta, che un «dolo
di occultamento», logicamente non  ipotizzabile  quando  l'operazione
fosse stata compiuta con le modalita' dianzi indicate.
    E' in tale quadro interpretativo che si collocano  le  precedenti
pronunce di questa Corte sull'argomento.  Chiamata  a  scrutinare,  a
piu' riprese, tanto la norma precettiva (art. 30 della legge  n.  646
del 1982) che quella sanzionatoria (art. 31), la Corte  dichiaro'  le
questioni  manifestamente  infondate,  sul  rilievo  che  le   citate
previsioni  normative  costituivano  esercizio,  non   manifestamente
arbitrario o irragionevole, dell'ampia discrezionalita' spettante  al
legislatore in tema di configurazione  degli  illeciti  penali  e  di
determinazione delle relative sanzioni: e cio', tanto piu'  a  fronte
del fatto che la giurisprudenza dell'epoca,  attraverso  una  lettura
qualificata come «conforme a Costituzione», escludeva «la sussistenza
dell'elemento soggettivo del reato quando la pubblicita' sia comunque
assicurata e dunque sia di per se' impossibile  l'occultamento  degli
atti soggetti a comunicazione» (ordinanza n. 442 del 2001, sulla  cui
scia le ordinanze n. 362 e n. 143 del 2002).
    4.- Negli anni successivi,  tuttavia,  si  e'  consolidato  nella
giurisprudenza di legittimita' un orientamento di segno  opposto,  in
base al quale il delitto  in  esame  e'  configurabile  anche  quando
l'omessa comunicazione riguardi operazioni effettuate  mediante  atti
pubblici, soggetti ad un regime di pubblicita', trattandosi  di  atti
comunque non destinati ad essere portati a conoscenza del  nucleo  di
polizia tributaria competente ne' ad  opera  del  pubblico  ufficiale
rogante, ne' di altri.
    Al riguardo, si e' rilevato come si sia di fronte ad un reato  di
pericolo presunto, finalizzato, da un lato, a garantire che il nucleo
di  polizia  tributaria  venga  effettivamente  e  sollecitamente   a
conoscenza della variazione intervenuta nel patrimonio di soggetti di
accertata pericolosita' sociale (e non  semplicemente  che  la  possa
conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa); dall'altro, a
rendere obbligatoria per l'amministrazione  una  verifica  altrimenti
solo eventuale. L'elemento soggettivo del delitto, d'altra parte - si
e' aggiunto - e' rappresentato dal dolo generico, il quale  esige  la
semplice  consapevolezza  dei  presupposti  di  fatto  da  cui  sorge
l'obbligo di comunicazione (qualita' di condannato o di sottoposto  a
misura di  prevenzione  del  soggetto  obbligato,  superamento  della
soglia di rilevanza dell'operazione), senza che l'inadempiente  debba
essere animato  dallo  specifico  scopo  di  occultare  alla  polizia
tributaria le informazioni  che  vengono  in  rilievo.  Mentre,  poi,
l'ignoranza  da  parte  dell'interessato   della   stessa   esistenza
dell'obbligo di comunicazione risulterebbe inescusabile,  trattandosi
di errore di diritto vertente  su  norma  integratrice  del  precetto
penale.
    5.- L'odierno rimettente  denuncia  come  alla  stregua  di  tale
«diritto   vivente»   -   che   ingloba    nel    cono    applicativo
dell'incriminazione anche fatti che,  secondo  le  indicazioni  delle
pronunce di questa Corte dianzi ricordate, avrebbero dovuto  restarvi
estranei - il trattamento  sanzionatorio  della  fattispecie  risulti
manifestamente sproporzionato per eccesso, violando,  con  cio',  gli
artt. 3, 27, terzo comma, e 42 Cost.
    La questione sollevata coglie un indubbio profilo  di  criticita'
del paradigma punitivo considerato. Nondimeno,  l'intervento  che  il
giudice a quo propone per porvi rimedio e'  impraticabile  da  questa
Corte.
    Con riguardo alla pena, il risultato cui dichiaratamente mira  il
rimettente e' di rimuovere i minimi edittali  stabiliti  dalla  norma
censurata, con l'effetto di rendere applicabili le  previsioni  degli
artt. 23 e 24 cod. pen., che fissano in via generale la durata minima
della reclusione in quindici giorni e l'ammontare minimo della  multa
in cinquanta euro.
    Al riguardo, e' tuttavia dirimente il rilievo  che  questa  Corte
non puo' rimodulare liberamente le sanzioni degli illeciti penali. Se
lo facesse, invaderebbe un campo riservato alla discrezionalita'  del
legislatore,  stante  il   carattere   tipicamente   politico   degli
apprezzamenti   sottesi   alla   determinazione    del    trattamento
sanzionatorio: discrezionalita' il cui esercizio e' censurabile,  sul
piano della legittimita'  costituzionale,  solo  ove  trasmodi  nella
manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio, come  avviene  quando  si
sia di fronte a sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie  omogenee
non sorrette da  alcuna  ragionevole  giustificazione  (ex  plurimis,
sentenze n. 68 del 2012, n. 161 del 2009, n. 324 del 2008  e  n.  394
del 2006).
    L'odierno  rimettente  non  lamenta,   peraltro,   che   l'omessa
comunicazione  delle  variazioni  patrimoniali  sia  punita  in  modo
ingiustificatamente  piu'  aspro  di  altra   fattispecie   omogenea.
Censura, invece, che essa sia punita in modo irragionevolmente uguale
- quanto a pena detentiva - ad  altra  fattispecie  in  assunto  piu'
grave,  individuata  segnatamente  nel   delitto   di   trasferimento
fraudolento di valori al fine di  eludere  la  legge  in  materia  di
misure di prevenzione o di  commettere  reati  di  riciclaggio  (art.
12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992).
    Le due prospettive non sono,  peraltro,  equivalenti.  Nel  primo
caso  -  ove  ravvisi  l'arbitrarieta'  della  soluzione  legislativa
denunciata - la Corte puo' rimuovere il vulnus allineando la risposta
punitiva della fattispecie in discussione a quella della  fattispecie
analoga; nel secondo dovrebbe scegliere invece essa stessa,  in  modo
"creativo", la pena  da  sostituire  a  quella  censurata,  cosi'  da
"scaglionare" le ipotesi in  comparazione  sul  piano  sanzionatorio:
operazione che le e' preclusa. In effetti, «se non si  riscontra  una
sostanziale identita' tra le fattispecie prese in  considerazione,  e
si  rileva  invece,  come  nel  caso  in  esame,   una   sproporzione
sanzionatoria rispetto a condotte piu' gravi, un eventuale intervento
di riequilibrio di questa Corte non potrebbe in alcun modo rimodulare
le  sanzioni  previste  dalla  legge,  senza  sostituire  la  propria
valutazione a quella che spetta al legislatore» (sentenza n.  22  del
2007).
    Ne', d'altra parte, il parametro cui agganciare  l'intervento  di
riequilibrio  potrebbe  essere  rappresentato  dalle  norme  generali
sull'entita' minima dei diversi tipi di pena (nella specie, gli artt.
23 e 24 cod. pen.), per la semplice ragione che - come gia'  detto  -
l'allineamento a tali minimi e' esso stesso una scelta  non  "a  rime
obbligate". E' evidente, in effetti, che, se si  avallasse  il  modus
operandi caldeggiato dal rimettente,  si  verrebbe  ad  affermare  un
principio inaccettabile: e, cioe', che  tutte  le  volte  in  cui  si
riscontri che due reati di diversa gravita' sostanziale  sono  puniti
con pene eguali la pena minima del reato meno grave  dovrebbe  essere
ridotta (nel caso di delitto punibile con pene congiunte) a  quindici
giorni di reclusione e ad euro cinquanta di multa.
    Nella pronuncia dichiarativa  dell'illegittimita'  costituzionale
della pena edittale  minima  del  delitto  di  oltraggio  a  pubblico
ufficiale, prevista dall'art. 341  cod.  pen.,  nel  testo  all'epoca
vigente (sentenza n. 341 del 1994) - pronuncia alla quale si richiama
in modo specifico l'odierno rimettente - questa Corte  si  giovo'  in
effetti,  sia  pure  col  supporto  di  un  complesso  di   ulteriori
considerazioni,  della  comparazione  con   la   fattispecie   affine
dell'ingiuria, che, per l'appunto, non prevede un minimo edittale.
    6.- Per quanto attiene, poi, alla confisca, lo stesso petitum del
giudice a quo resta indeterminato.
    Il rimettente lamenta, infatti, che la previsione della  confisca
obbligatoria  impedisca  al  giudice  di   «graduare»   la   risposta
sanzionatoria  rispetto  all'effettivo  disvalore  del  fatto,  senza
peraltro precisare l'esatta direzione dell'intervento richiesto:  se,
cioe', questo debba consistere nella eliminazione  tout  court  della
confisca, ovvero nella sua trasformazione  in  confisca  facoltativa,
ovvero ancora nella previsione della  possibilita'  di  una  confisca
solo parziale (intervento,  quest'ultimo,  che  non  potrebbe  essere
comunque operato dalla Corte,  traducendosi  in  una  innovazione  di
sistema: sentenza n. 252 del 2012).
    Quando pure si volesse accreditare l'ipotesi della  richiesta  di
trasformazione della confisca in  facoltativa,  mancherebbe  comunque
l'indicazione del referente normativo  che  impedisca  all'intervento
della Corte di colorarsi di una valenza "creativa": e cio' anche  per
quanto  attiene  all'individuazione  dei   criteri   che   dovrebbero
presiedere alla scelta del giudice di  applicare  o  meno  la  misura
(nella   specie,   si   discute   infatti   pacificamente   di    una
confisca-sanzione, e non di una confisca-misura di sicurezza, per  la
quale possa valere la generale disciplina dell'art.  240  cod.  pen.,
imperniata sulla "pericolosita' della cosa").
    7.-  La  questione  va  dichiarata,  per  le   esposte   ragioni,
inammissibile.
     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara   inammissibile    la    questione    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 31 della legge 13  settembre  1982,  n.  646
(Disposizioni in  materia  di  misure  di  prevenzione  di  carattere
patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10
febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n.  575.  Istituzione  di  una
commissione parlamentare  sul  fenomeno  della  mafia),  parzialmente
trasfuso nell'art. 76, comma 7, del decreto legislativo  6  settembre
2011, n.  159  (Codice  delle  leggi  antimafia  e  delle  misure  di
prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di  documentazione
antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13  agosto  2010,
n. 136), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo  comma,  e
42 della  Costituzione,  dal  Giudice  dell'udienza  preliminare  del
Tribunale di Trapani con l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2014.

                                F.to:
                    Gaetano SILVESTRI, Presidente
                      Giuseppe FRIGO, Redattore
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2014.

                   Il Direttore della Cancelleria
                       F.to: Gabriella MELATTI

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