N. 81 SENTENZA 7 - 8 aprile 2014
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Mafia - Condannati per delitti di criminalita' organizzata o
sottoposti a misure di prevenzione indiziati di appartenenza ad
associazioni di tipo mafioso - Reato di omissione dell'obbligo di
comunicazione di variazioni patrimoniali - Trattamento
sanzionatorio.
- Legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure
di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi
27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio
1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul
fenomeno della mafia), art. 31, parzialmente trasfuso nell'art.
76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159
(Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione,
nonche' nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia,
a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136).
-
(GU n.17 del 16-4-2014 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Gaetano SILVESTRI;
Giudici :Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo
Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo
GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio
MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano
AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 31 della
legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di
prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27
dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n.
575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della
mafia), parzialmente trasfuso nell'art. 76, comma 7, del decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e
delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136), promosso dal Giudice dell'udienza preliminare
del Tribunale di Trapani nel procedimento penale a carico di C.T. con
ordinanza del 23 gennaio 2013, iscritta al n. 52 del registro
ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2013.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 2014 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 23 gennaio 2013, il Giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale di Trapani ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3, 27, terzo comma, e 42 della Costituzione, questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 31 della legge 13 settembre
1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di
carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956,
n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575.
Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della
mafia), parzialmente trasfuso nell'art. 76, comma 7, del decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e
delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede, per il reato di
omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, la pena minima di
due anni di reclusione e di euro 10.329 di multa, nonche' la confisca
obbligatoria del bene acquistato o del corrispettivo
dell'alienazione.
Il giudice a quo premette di essere investito, a seguito di
richiesta di giudizio abbreviato, del processo penale nei confronti
di una persona imputata del reato di cui agli artt. 30 e 31 della
legge n. 646 del 1982.
Al riguardo, il rimettente riferisce che con decreto del 20
aprile 2006, divenuto definitivo il 13 marzo 2007, l'imputato era
stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza
speciale con obbligo di soggiorno per la durata di quattro anni, in
quanto indiziato di appartenenza ad una associazione di tipo mafioso.
A seguito di accertamenti della Guardia di finanza, era emerso
che il 28 dicembre 2007 - e, dunque, in data successiva a quella in
cui il provvedimento era divenuto definitivo - l'imputato, a mezzo
dell'institore nominato al fine di amministrare la sua impresa
individuale, aveva venduto ad un privato, mediante atto pubblico
rogato da un notaio, un fabbricato (di legittima provenienza) per il
prezzo di euro 480.000.
Ne' l'imputato ne' l'institore avevano peraltro effettuato, nei
trenta giorni successivi e comunque entro il 31 gennaio dell'anno
seguente, la prescritta comunicazione alla polizia tributaria della
variazione patrimoniale determinata dalla compravendita. Di qui
l'esercizio dell'azione penale per il reato dianzi indicato.
Tanto premesso, il giudice a quo osserva come, tramite gli artt.
30 e 31 della legge n. 646 del 1982, sia stata introdotta una
speciale forma di «monitoraggio» delle variazioni del patrimonio di
persone da ritenere socialmente pericolose.
L'art. 30 ha previsto, in particolare, che le persone condannate
con sentenza definitiva per il delitto di associazione di tipo
mafioso (art. 416-bis cod. pen.) o sottoposte con provvedimento
definitivo a misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio
1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo
mafioso, anche straniere), in quanto indiziate di appartenenza ad una
delle associazioni previste dall'art. 1 della medesima legge, debbano
comunicare al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora
abituale, per un periodo di dieci anni a partire dalla data del
decreto di applicazione della misura o della sentenza definitiva di
condanna, tutte le variazioni nell'entita' e nella composizione del
loro patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro
10.329,14. Per tale comunicazione e' previsto sia un termine
decorrente dal compimento del singolo atto di disposizione - trenta
giorni - che un termine riferito al complesso degli atti dispositivi
compiuti nell'anno solare, fissato nel 31 gennaio dell'anno
successivo.
L'art. 31 della medesima legge n. 646 del 1982 punisce la
violazione dell'obbligo di comunicazione con la pena della reclusione
da due a sei anni e della multa da euro 10.329 ad euro 20.568,
stabilendo, altresi', che alla condanna consegua la confisca
obbligatoria dei beni a qualunque titolo acquistati o del
corrispettivo proveniente dall'atto di alienazione.
Il novero dei soggetti gravati dall'obbligo di comunicazione e'
stato successivamente ampliato dalla legge 13 agosto 2010, n. 136
(Piano straordinario contro le mafie, nonche' delega al Governo in
materia di normativa antimafia), il cui art. 7, comma 1, lettera b),
sostituendo il primo comma dell'art. 30 della legge n. 646 del 1982,
vi ha aggiunto le persone condannate con sentenza definitiva per
taluno dei delitti previsti dall'art. 51, comma 3-bis, del codice di
procedura penale o per il reato di cui all'art. 12-quinquies, comma
1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al
nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7
agosto 1992, n. 356. La medesima legge n. 136 del 2010, novellando
l'art. 31 della legge n. 646 del 1982, ha inoltre previsto che, nel
caso in cui risulti impossibile la confisca del bene acquistato o del
corrispettivo di quello venduto, la confisca ha luogo "per
equivalente".
Il quadro normativo e' stato ulteriormente modificato dal d.lgs.
n. 159 del 2011 (emanato in base alla delega conferita dalla stessa
legge n. 136 del 2010), il quale ha scisso in due parti la
fattispecie originariamente prevista dalle norme in questione. Le
disposizioni, precettiva e sanzionatoria, contenute negli artt. 30 e
31 della legge n. 646 del 1982 sono state, infatti, trasfuse negli
artt. 80 e 76, comma 7, del suddetto decreto legislativo,
limitatamente ai soggetti sottoposti a misure di prevenzione. I
predetti artt. 30 e 31 sono rimasti, di conseguenza, in vigore con
riguardo ai soli soggetti condannati con sentenza definitiva.
Nel caso di specie, risulterebbe applicabile l'art. 31 della
legge n. 646 del 1982, essendo i fatti anteriori sia alla legge
delega del 2010 che al decreto delegato del 2011. I dubbi di
legittimita' costituzionale originati da detta norma si
trasferirebbero, peraltro, automaticamente sull'art. 76, comma 7, del
d.lgs. n. 159 del 2011, che ne ha integralmente recepito il contenuto
con riguardo ai sorvegliati speciali.
Il giudice a quo dubita, in specie, della legittimita'
costituzionale del citato art. 31 nella parte in cui prevede, per la
violazione dell'obbligo di comunicazione, una pena edittale minima di
due anni di reclusione e di euro 10.329 di multa, nonche' la confisca
obbligatoria del bene acquistato o del corrispettivo
dell'alienazione.
Il rimettente si dichiara consapevole del fatto che questa Corte
si e' gia' pronunciata in piu' occasioni sulla legittimita'
costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982,
dichiarando manifestamente infondate le questioni sollevate
(ordinanze n. 362 e n. 143 del 2002, n. 442 del 2001).
In dette occasioni - prosegue il giudice a quo - le censure
prospettate dai rimettenti, che investivano sia il precetto che la
sanzione, furono disattese per due concorrenti ragioni. Da un lato,
si ritenne che la denunciata irragionevolezza delle previsioni
normative sottoposte a scrutinio fosse frutto di valutazioni
soggettive dei giudici a quibus, non tradotte in profili apprezzabili
sul piano della verifica di costituzionalita', tenuto conto anche
della discrezionalita' del legislatore nella configurazione degli
illeciti penali e nella determinazione delle relative sanzioni.
Dall'altro lato, la Corte osservo' che la denunciata sproporzione
delle sanzioni, in rapporto a violazioni meramente formali e non
necessariamente indicative di intenti dissimulatori, avrebbe potuto
essere evitata tramite una lettura costituzionalmente orientata delle
norme censurate, che escludesse la sussistenza dell'elemento
soggettivo del reato nei casi in cui la conoscibilita' della
variazione patrimoniale fosse comunque assicurata attraverso forme di
pubblicita' legale e risultasse, di conseguenza, impossibile
l'occultamento degli atti soggetti a comunicazione.
Negli anni immediatamente successivi alle pronunce ora ricordate,
tuttavia, si e' definitivamente affermato, nella giurisprudenza di
legittimita', il contrario indirizzo secondo il quale il delitto in
questione e' configurabile anche quando l'omissione riguardi
operazioni effettuate mediante atti pubblici, trattandosi di un reato
di pericolo presunto, avente non solo la finalita' di consentire
all'amministrazione finanziaria di conoscere con immediatezza il dato
sensibile, ma anche quella di rendere obbligatoria per
l'amministrazione una verifica altrimenti solo eventuale. La Corte di
cassazione ha negato, inoltre, che l'ignoranza dell'obbligo di
comunicazione possa escludere il dolo, posto che la previsione
dell'art. 30 della legge n. 646 del 1982 integra il precetto penale.
La figura criminosa in discussione verrebbe, pertanto,
interpretata dal «diritto vivente» in termini molto piu' rigorosi di
quelli suggeriti dai pregressi interventi della Corte costituzionale.
In simile situazione, il minimo edittale della pena e la previsione
della confisca obbligatoria si paleserebbero iniqui non sulla base di
una semplice valutazione soggettiva, ma in ragione della loro
inconciliabilita' con «precisi parametri costituzionali».
Il regime sanzionatorio denunciato si porrebbe in contrasto,
anzitutto, con l'art. 3 Cost., tenuto conto del carattere «meramente
formale» della violazione penalmente repressa, la quale
prescinderebbe non soltanto dalla illegittima provenienza dei beni,
ma anche da qualsiasi intento dissimulatorio. Alla luce del ricordato
indirizzo giurisprudenziale, la sanzione penale colpirebbe, infatti,
anche chi ha concluso l'operazione tramite atto pubblico, rogato da
un notaio e comunicato, quindi, per legge all'agenzia delle entrate:
articolazione dell'amministrazione finanziaria, quest'ultima, alla
quale la Guardia di finanza e' costantemente collegata attraverso il
sistema informatico «SERPICO» (Servizio per il contribuente) -
inesistente all'epoca in cui fu introdotta la norma in esame - grazie
al quale la polizia tributaria e' in grado di conoscere in qualsiasi
momento tutti i movimenti finanziari di un soggetto sottoposto a
misura di prevenzione, anche in attuazione del disposto dell'art. 25
della legge n. 646 del 1982, come modificato dalla legge n. 136 del
2010.
Se pure non potrebbe porsi in discussione la facolta' del
legislatore di imporre, per fini di prevenzione speciale e di tutela
dell'ordine pubblico, la comunicazione ad un nucleo specializzato di
investigatori delle operazioni di un certo importo effettuate da
soggetti dei quali sia stata accertata la pericolosita', apparirebbe,
tuttavia, incompatibile con i principi di eguaglianza e di
ragionevolezza la previsione, per una violazione quale quella
considerata, di una pena detentiva e pecuniaria dal minimo cosi'
elevato.
La norma denunciata sanziona, infatti, un'omissione spesso priva
di finalita' dissimulatorie con la medesima pena detentiva minima (e
massima) prevista per il delitto di trasferimento fraudolento di
valori al fine di eludere la legge in materia di misure di
prevenzione o di commettere uno dei reati di cui agli artt. 648,
648-bis e 648-ter del codice penale (art. 12-quinquies del d.l. n.
306 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 356 del
1992); pena alla quale si aggiunge anche quella pecuniaria, non
contemplata per tale delitto.
L'auspicata eliminazione del minimo edittale non comporterebbe,
d'altra parte, «alcun vulnus all'integrita' dell'ordinamento penale».
In conseguenza di essa, la determinazione delle sanzioni minime
resterebbe affidata alle disposizioni generali degli artt. 23 e 24
cod. pen., sulla falsariga di quanto indicato da questa Corte in
occasione della dichiarazione di illegittimita' costituzionale della
pena minima del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, prevista
dall'art. 341 cod. pen., nel testo allora vigente (sentenza n. 341
del 1994).
La previsione della confisca obbligatoria risulterebbe
inconciliabile, oltre che - per i motivi esposti - con l'art. 3
Cost., anche con l'art. 42 Cost. Imponendo di adottare il
provvedimento ablatorio anche quando l'operazione riguardi beni di
legittima provenienza e sia stata effettuata mediante atto pubblico,
la norma denunciata impedirebbe, infatti, al giudice di graduare la
risposta sanzionatoria in rapporto all'effettivo disvalore della
condotta, con il risultato di collegare ad una violazione puramente
formale una eccessiva compressione del diritto di proprieta', in
assenza di qualsiasi connotazione di pericolosita' intrinseca del
bene.
La norma censurata violerebbe, da ultimo, l'art. 27, terzo comma,
Cost., che, nello stabilire che le pene debbano tendere alla
rieducazione del condannato, implica necessariamente una proporzione
tra disvalore del fatto e sanzione. Nella specie, per converso, la
pena minima e la confisca obbligatoria previste dall'art. 31 della
legge n. 646 del 1982 rischierebbero di allontanare ulteriormente i
soggetti interessati da un gia' difficile percorso di recupero
sociale. Non di rado, infatti, tali sanzioni vengono applicate a
persone che hanno scontato interamente la pena loro inflitta o il
periodo di sottoposizione alla misura di prevenzione, colpendole
pesantemente a distanza di anni nella liberta' personale o nel
patrimonio per un comportamento di mera disobbedienza, quando non per
una mera dimenticanza o per la stessa ignoranza del precetto.
La questione sarebbe, altresi', rilevante nel giudizio a quo,
posto che - a fronte di quanto in precedenza riferito e non
sussistendo ragioni per escludere l'elemento soggettivo del reato,
anche alla luce dell'attuale orientamento della giurisprudenza di
legittimita' - l'imputato si troverebbe esposto all'applicazione
delle sanzioni previste dalla norma denunciata, pur non avendo
dissimulato in alcun modo l'atto di disposizione patrimoniale del
quale si discute.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o
manifestamente infondata.
La difesa dello Stato rileva come la Corte costituzionale, nel
dichiarare manifestamente inammissibili o manifestamente infondate
precedenti questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 30 e
31 della legge n. 646 del 1982, abbia rimarcato la legittimita' della
scelta legislativa di sanzionare penalmente la mancata comunicazione
delle operazioni patrimoniali da parte di una persona sottoposta con
provvedimento definitivo a misura di prevenzione qualificata,
nell'ambito di un sistema di contrasto della criminalita' organizzata
fortemente caratterizzato dall'utilizzo di strumenti di tipo
patrimoniale.
Ne' potrebbe ravvisarsi alcuna violazione del canone della
ragionevolezza nel trattamento sanzionatorio dell'illecito. Al
riguardo, occorrerebbe considerare come l'obbligo di comunicazione
previsto dagli artt. 30 della legge n. 646 del 1982 e 80 del d.lgs.
n. 159 del 2011 richieda un «impegno assolutamente irrisorio» a
coloro che vi sono soggetti, onde sarebbe del tutto ragionevole che
la sua inosservanza sia riguardata «in termini di massimo sospetto».
Non condivisibile sarebbe, altresi', la valutazione del
rimettente di «inoffensivita'» dell'omissione penalmente sanzionata,
allorche' - come nella specie - essa riguardi un trasferimento
effettuato mediante atto pubblico, rogato da notaio: valutazione
basata sull'assunto che, in tal caso, la comunicazione alla polizia
tributaria risulterebbe "assorbita" dalla comunicazione dell'atto
notarile all'agenzia delle entrate, obbligatoria per legge. Ben
diversa sarebbe, infatti, la funzione delle comunicazioni in
discorso. La comunicazione degli atti pubblici all'agenzia delle
entrate, cui fa riferimento il giudice a quo, sembrerebbe
identificarsi in quella prevista ai fini della loro registrazione dal
d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle
disposizioni concernenti l'imposta di registro). Si tratterebbe,
dunque, di una comunicazione avente una finalita' meramente fiscale.
Per converso, la comunicazione prescritta dall'art. 30 della
legge n. 646 del 1982 e dall'art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, da
effettuare alla polizia tributaria, ha una funzione strumentale
rispetto ai controlli periodici previsti dalla stessa normativa di
prevenzione, intesi a verificare che non perduri il collegamento
dell'interessato con la criminalita' organizzata (art. 25 della legge
n. 646 del 1982). La comunicazione in questione avrebbe, quindi, una
finalita' di ordine pubblico, iscrivendosi tra i meccanismi di
contrasto del fenomeno associativo criminale di stampo mafioso.
Per altro verso, poi, la Corte costituzionale avrebbe chiarito
che la struttura stessa della fattispecie incriminatrice garantisce
la possibilita' di applicarla in maniera costituzionalmente corretta:
cio', in particolare, tramite l'esclusione dell'elemento soggettivo
del reato «quando la pubblicita' sia comunque assicurata e dunque sia
di per se' impossibile l'occultamento degli atti soggetti a
comunicazione» (ordinanza n. 442 del 2001). Indicazione, questa, che
- ad avviso dell'Avvocatura dello Stato - sarebbe stata
sostanzialmente recepita dalla giurisprudenza di legittimita',
secondo la quale il dolo del reato in questione implica la
consapevolezza da parte dell'imputato del presupposto da cui sorge
l'obbligo e va desunto da elementi sintomatici, legati segnatamente
alle vicende di acquisizione del bene e al valore dello stesso.
Considerato in diritto
1.- Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Trapani
dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 31 della legge 13
settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di
prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27
dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n.
575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della
mafia), parzialmente trasfuso nell'art. 76, comma 7, del decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e
delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede, per il reato di
omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, la pena minima di
due anni di reclusione e di euro 10.329 di multa, nonche' la confisca
obbligatoria del bene acquistato o del corrispettivo
dell'alienazione.
A parere del rimettente, la norma censurata violerebbe l'art. 3
della Costituzione, per contrasto con i principi di eguaglianza e di
ragionevolezza. Essa punirebbe, infatti, una violazione meramente
formale, indipendente dalla illegittima provenienza dei beni e che
puo' risultare priva di ogni intento dissimulatorio - come nel caso
in cui l'omessa comunicazione riguardi un trasferimento patrimoniale
operato tramite atto pubblico rogato da un notaio, comunicato per
legge all'amministrazione finanziaria - con la stessa pena detentiva
minima prevista per il delitto di trasferimento fraudolento di valori
al fine di eludere la legge in materia di misure di prevenzione o di
commettere uno dei reati di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter del
codice penale (art. 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n.
306, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa», convertito,
con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356); pena alla
quale si aggiunge una pena pecuniaria, non prevista per tale delitto,
oltre alla misura patrimoniale della confisca obbligatoria del bene
acquisito o del corrispettivo del trasferimento.
La disposizione denunciata si porrebbe, altresi', in contrasto
con l'art. 42 Cost., giacche', prevedendo la confisca obbligatoria
anche quando l'operazione riguardi beni di legittima provenienza e
sia stata effettuata con atto pubblico, impedirebbe di commisurare la
risposta sanzionatoria all'effettivo disvalore della condotta,
collegando ad una violazione puramente formale una eccessiva
compressione del diritto di proprieta', in assenza di qualsiasi
connotazione di pericolosita' intrinseca del bene.
Sarebbe violato, infine, l'art. 27, terzo comma, Cost., giacche'
la previsione di sanzioni sproporzionate per eccesso rispetto alla
gravita' della violazione ostacolerebbe la rieducazione del
condannato.
2.- La questione e' inammissibile.
L'art. 30 della legge n. 646 del 1982, nel testo novellato dalla
legge 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie,
nonche' delega al Governo in materia di normativa antimafia), prevede
che le persone condannate con sentenza definitiva per delitti di
criminalita' organizzata (art. 51, comma 3-bis, del codice di
procedura penale) o per trasferimento fraudolento di valori (art.
12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992), ovvero sottoposte, con
provvedimento definitivo, a misura di prevenzione personale ai sensi
della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le
organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), debbano
comunicare al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora
abituale tutte le variazioni nell'entita' e nella composizione del
loro patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro
10.329,14. La comunicazione va effettuata entro trenta giorni dal
fatto, ovvero entro il 31 gennaio di ciascun anno per le variazioni
dell'anno precedente che, sommate, risultino di valore non inferiore
a detto importo (cio', onde evitare elusioni del precetto tramite
l'artificioso frazionamento delle operazioni). L'obbligo sussiste per
un periodo di dieci anni dalla definitivita' della sentenza o del
provvedimento.
Il successivo art. 31 punisce l'omessa comunicazione con la
reclusione da due a sei anni e la multa da 10.329 a 20.568 euro,
stabilendo, altresi', che alla condanna consegua la confisca
obbligatoria (anche "per equivalente") dei beni acquistati o del
corrispettivo dell'alienazione.
La norma precettiva e quella sanzionatoria risultano ora
trasfuse, rispettivamente, negli artt. 80 e 76, comma 7, del d.lgs.
n. 159 del 2011, limitatamente alle persone sottoposte a misure di
prevenzione. Le disposizioni della legge n. 646 del 1982 restano,
dunque, in vigore per i soli condannati.
3.- L'ipotesi risultata maggiormente problematica,
nell'applicazione della previsione punitiva, e' quella in cui la
variazione patrimoniale non comunicata alla polizia tributaria derivi
da un'operazione soggetta a forme di pubblicita' legali che ne
assicurino la pronta e agevole conoscibilita'. Il caso paradigmatico
- che viene in rilievo nel giudizio a quo - e' quello della
compravendita immobiliare stipulata mediante atto pubblico rogato da
notaio (s'intende, senza fittizie interposizioni di persona che
dissimulino la partecipazione ad essa del condannato o del sottoposto
a misura di prevenzione): atto del quale il notaio rogante e' tenuto
a curare entro brevi termini tanto la trascrizione nei registri
immobiliari (art. 2671 del codice civile, art. 6 del d.lgs. 31
ottobre 1990, n. 347, recante «Approvazione del testo unico delle
disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale»), quanto
la registrazione a fini fiscali (artt. 10, comma 1, lettera b, e 13
del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, recante «Approvazione del Testo
unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro»),
comunicandolo, in tal modo, direttamente all'amministrazione
finanziaria.
Sul presupposto che, in simili frangenti, l'operativita' della
norma incriminatrice in esame risultasse priva di adeguato fondamento
razionale e tale da condurre a risultati iniqui, era emerso in
giurisprudenza, all'inizio degli anni 2000, un indirizzo
interpretativo volto ad escludere la configurabilita' del reato:
soluzione che faceva peraltro leva, piu' che sulla carenza di
tipicita' del fatto connessa ad un deficit di offensivita', sulla
ritenuta insussistenza dell'elemento soggettivo. Muovendo dal rilievo
che lo scopo dell'incriminazione - anche a fronte della sua
collocazione nel capo III della legge n. 646 del 1982, recante
«Disposizioni fiscali e tributarie» - fosse quello di impedire
l'occultamento all'amministrazione finanziaria degli incrementi dei
patrimoni di soggetti collegati ad associazioni mafiose, se ne
deduceva che il dolo del delitto di omessa comunicazione delle
variazioni patrimoniali non potesse essere, a sua volta, che un «dolo
di occultamento», logicamente non ipotizzabile quando l'operazione
fosse stata compiuta con le modalita' dianzi indicate.
E' in tale quadro interpretativo che si collocano le precedenti
pronunce di questa Corte sull'argomento. Chiamata a scrutinare, a
piu' riprese, tanto la norma precettiva (art. 30 della legge n. 646
del 1982) che quella sanzionatoria (art. 31), la Corte dichiaro' le
questioni manifestamente infondate, sul rilievo che le citate
previsioni normative costituivano esercizio, non manifestamente
arbitrario o irragionevole, dell'ampia discrezionalita' spettante al
legislatore in tema di configurazione degli illeciti penali e di
determinazione delle relative sanzioni: e cio', tanto piu' a fronte
del fatto che la giurisprudenza dell'epoca, attraverso una lettura
qualificata come «conforme a Costituzione», escludeva «la sussistenza
dell'elemento soggettivo del reato quando la pubblicita' sia comunque
assicurata e dunque sia di per se' impossibile l'occultamento degli
atti soggetti a comunicazione» (ordinanza n. 442 del 2001, sulla cui
scia le ordinanze n. 362 e n. 143 del 2002).
4.- Negli anni successivi, tuttavia, si e' consolidato nella
giurisprudenza di legittimita' un orientamento di segno opposto, in
base al quale il delitto in esame e' configurabile anche quando
l'omessa comunicazione riguardi operazioni effettuate mediante atti
pubblici, soggetti ad un regime di pubblicita', trattandosi di atti
comunque non destinati ad essere portati a conoscenza del nucleo di
polizia tributaria competente ne' ad opera del pubblico ufficiale
rogante, ne' di altri.
Al riguardo, si e' rilevato come si sia di fronte ad un reato di
pericolo presunto, finalizzato, da un lato, a garantire che il nucleo
di polizia tributaria venga effettivamente e sollecitamente a
conoscenza della variazione intervenuta nel patrimonio di soggetti di
accertata pericolosita' sociale (e non semplicemente che la possa
conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa); dall'altro, a
rendere obbligatoria per l'amministrazione una verifica altrimenti
solo eventuale. L'elemento soggettivo del delitto, d'altra parte - si
e' aggiunto - e' rappresentato dal dolo generico, il quale esige la
semplice consapevolezza dei presupposti di fatto da cui sorge
l'obbligo di comunicazione (qualita' di condannato o di sottoposto a
misura di prevenzione del soggetto obbligato, superamento della
soglia di rilevanza dell'operazione), senza che l'inadempiente debba
essere animato dallo specifico scopo di occultare alla polizia
tributaria le informazioni che vengono in rilievo. Mentre, poi,
l'ignoranza da parte dell'interessato della stessa esistenza
dell'obbligo di comunicazione risulterebbe inescusabile, trattandosi
di errore di diritto vertente su norma integratrice del precetto
penale.
5.- L'odierno rimettente denuncia come alla stregua di tale
«diritto vivente» - che ingloba nel cono applicativo
dell'incriminazione anche fatti che, secondo le indicazioni delle
pronunce di questa Corte dianzi ricordate, avrebbero dovuto restarvi
estranei - il trattamento sanzionatorio della fattispecie risulti
manifestamente sproporzionato per eccesso, violando, con cio', gli
artt. 3, 27, terzo comma, e 42 Cost.
La questione sollevata coglie un indubbio profilo di criticita'
del paradigma punitivo considerato. Nondimeno, l'intervento che il
giudice a quo propone per porvi rimedio e' impraticabile da questa
Corte.
Con riguardo alla pena, il risultato cui dichiaratamente mira il
rimettente e' di rimuovere i minimi edittali stabiliti dalla norma
censurata, con l'effetto di rendere applicabili le previsioni degli
artt. 23 e 24 cod. pen., che fissano in via generale la durata minima
della reclusione in quindici giorni e l'ammontare minimo della multa
in cinquanta euro.
Al riguardo, e' tuttavia dirimente il rilievo che questa Corte
non puo' rimodulare liberamente le sanzioni degli illeciti penali. Se
lo facesse, invaderebbe un campo riservato alla discrezionalita' del
legislatore, stante il carattere tipicamente politico degli
apprezzamenti sottesi alla determinazione del trattamento
sanzionatorio: discrezionalita' il cui esercizio e' censurabile, sul
piano della legittimita' costituzionale, solo ove trasmodi nella
manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio, come avviene quando si
sia di fronte a sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee
non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (ex plurimis,
sentenze n. 68 del 2012, n. 161 del 2009, n. 324 del 2008 e n. 394
del 2006).
L'odierno rimettente non lamenta, peraltro, che l'omessa
comunicazione delle variazioni patrimoniali sia punita in modo
ingiustificatamente piu' aspro di altra fattispecie omogenea.
Censura, invece, che essa sia punita in modo irragionevolmente uguale
- quanto a pena detentiva - ad altra fattispecie in assunto piu'
grave, individuata segnatamente nel delitto di trasferimento
fraudolento di valori al fine di eludere la legge in materia di
misure di prevenzione o di commettere reati di riciclaggio (art.
12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992).
Le due prospettive non sono, peraltro, equivalenti. Nel primo
caso - ove ravvisi l'arbitrarieta' della soluzione legislativa
denunciata - la Corte puo' rimuovere il vulnus allineando la risposta
punitiva della fattispecie in discussione a quella della fattispecie
analoga; nel secondo dovrebbe scegliere invece essa stessa, in modo
"creativo", la pena da sostituire a quella censurata, cosi' da
"scaglionare" le ipotesi in comparazione sul piano sanzionatorio:
operazione che le e' preclusa. In effetti, «se non si riscontra una
sostanziale identita' tra le fattispecie prese in considerazione, e
si rileva invece, come nel caso in esame, una sproporzione
sanzionatoria rispetto a condotte piu' gravi, un eventuale intervento
di riequilibrio di questa Corte non potrebbe in alcun modo rimodulare
le sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria
valutazione a quella che spetta al legislatore» (sentenza n. 22 del
2007).
Ne', d'altra parte, il parametro cui agganciare l'intervento di
riequilibrio potrebbe essere rappresentato dalle norme generali
sull'entita' minima dei diversi tipi di pena (nella specie, gli artt.
23 e 24 cod. pen.), per la semplice ragione che - come gia' detto -
l'allineamento a tali minimi e' esso stesso una scelta non "a rime
obbligate". E' evidente, in effetti, che, se si avallasse il modus
operandi caldeggiato dal rimettente, si verrebbe ad affermare un
principio inaccettabile: e, cioe', che tutte le volte in cui si
riscontri che due reati di diversa gravita' sostanziale sono puniti
con pene eguali la pena minima del reato meno grave dovrebbe essere
ridotta (nel caso di delitto punibile con pene congiunte) a quindici
giorni di reclusione e ad euro cinquanta di multa.
Nella pronuncia dichiarativa dell'illegittimita' costituzionale
della pena edittale minima del delitto di oltraggio a pubblico
ufficiale, prevista dall'art. 341 cod. pen., nel testo all'epoca
vigente (sentenza n. 341 del 1994) - pronuncia alla quale si richiama
in modo specifico l'odierno rimettente - questa Corte si giovo' in
effetti, sia pure col supporto di un complesso di ulteriori
considerazioni, della comparazione con la fattispecie affine
dell'ingiuria, che, per l'appunto, non prevede un minimo edittale.
6.- Per quanto attiene, poi, alla confisca, lo stesso petitum del
giudice a quo resta indeterminato.
Il rimettente lamenta, infatti, che la previsione della confisca
obbligatoria impedisca al giudice di «graduare» la risposta
sanzionatoria rispetto all'effettivo disvalore del fatto, senza
peraltro precisare l'esatta direzione dell'intervento richiesto: se,
cioe', questo debba consistere nella eliminazione tout court della
confisca, ovvero nella sua trasformazione in confisca facoltativa,
ovvero ancora nella previsione della possibilita' di una confisca
solo parziale (intervento, quest'ultimo, che non potrebbe essere
comunque operato dalla Corte, traducendosi in una innovazione di
sistema: sentenza n. 252 del 2012).
Quando pure si volesse accreditare l'ipotesi della richiesta di
trasformazione della confisca in facoltativa, mancherebbe comunque
l'indicazione del referente normativo che impedisca all'intervento
della Corte di colorarsi di una valenza "creativa": e cio' anche per
quanto attiene all'individuazione dei criteri che dovrebbero
presiedere alla scelta del giudice di applicare o meno la misura
(nella specie, si discute infatti pacificamente di una
confisca-sanzione, e non di una confisca-misura di sicurezza, per la
quale possa valere la generale disciplina dell'art. 240 cod. pen.,
imperniata sulla "pericolosita' della cosa").
7.- La questione va dichiarata, per le esposte ragioni,
inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646
(Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere
patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10
febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una
commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), parzialmente
trasfuso nell'art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre
2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di
prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di documentazione
antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010,
n. 136), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e
42 della Costituzione, dal Giudice dell'udienza preliminare del
Tribunale di Trapani con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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