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giovedì 15 settembre 2011

Cassazione "...Come questa Corte ha  già  precisato (cfr.  Cass.  n. 3785/2009), per mobbing si intende una condotta  del datore  di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta bel  tempo,  tenuta  nei  confronti del lavoratore  nell'ambiente  di lavoro,  che  si  risolve  in sistematici e  reiterati  comportamenti ostili  che  finiscono  per assumere forme  di  prevaricazione  o  di persecuzione  psicologica, da cui può conseguire  la  mortificazione morale  e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del  suo equilibrio fisio - psichico e del complesso della sua  personalità...."


DANNI IN MATERIA CIVILE E PENALE - LAVORO (RAPPORTO DI)
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-05-2011, n. 12048
Fatto Diritto ####################Q.M.
Svolgimento del processo
####################  ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale  di San  Remo  la  ####################  sas esponendo  di  aver  lavorato  presso l'Agenzia di viaggi di quest'ultima come impiegata, rivestendo  anche il   ruolo  di  direttore  tecnico,  dapprima  con  un  contratto  di collaborazione  coordinata e continuativa e  successivamente  con  un contratto  di  lavoro  subordinato, in realtà prestando  la  propria attività lavorativa sempre alle dipendenze e sotto le direttive  del titolare  dell'impresa, e di avere subito nel corso del  rapporto  di lavoro,  a causa delle sue richieste di regolarizzazione del rapporto stesso,  una serie di comportamenti vessatori e ostili tendenti  alla sua  completa emarginazione professionale e al progressivo isolamento dai  colleghi, comportamenti per i quali aveva sofferto  di  disturbi sia fisici che psichici. Ha chiesto quindi la condanna del datore  di
lavoro  al risarcimento del danno biologico, del danno alla  vita  di relazione e del danno morale.
Il Tribunale ha respinto la domanda ritenendo che  non fosse emersa la prova   di   un   atteggiamento  persecutorio  nei  confronti   della dipendente.  Anche  l'appello  proposto  dalla       ####################  è   stato respinto  dalla Corte di Appello di Genova, che ha ritenuto  che  non fosse stata raggiunta la prova di un tale atteggiamento persecutorio.
Avverso  tale  sentenza  ricorre per cassazione                #################### affidandosi  a  cinque motivi di ricorso. L'intimata  non  ha  svolto attività difensiva.Motivi della decisione
1.-   Con il primo motivo la ricorrente deduce l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il  giudizio, sull'assunto che la Corte territoriale avrebbe ritenuto come   circostanza  pacifica  che  nel  periodo  iniziale  si   fosse instaurato  tra le parti un rapporto di lavoro autonomo,  laddove  la ricorrente aveva dedotto di avere sempre svolto attività  di  lavoro dipendente,  come,  del  resto,  era  chiaramente  emerso   all'esito dell'attività istruttoria svolta nel giudizio di primo grado.
2.-  Con  il  secondo motivo la ricorrente lamenta omessa valutazione complessiva delle prove e relativo vizio di motivazione, sul  rilievo che  il  giudice  di  appello avrebbe omesso  di  valutare  nel  loro complesso  gli  episodi posti a fondamento della   domanda,  omettendo altresì di prendere in considerazione le risultanze della consulenza tecnica  d'ufficio  disposta  in primo grado,  che  aveva  confermato l'esistenza  dei  disturbi psichici denunciati dalla ricorrente,  pur negando  il  nesso causale tra tali disturbi e l'attività lavorativa svolta.
3.-  Con  il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell'art.  2087 c.c.,  formulando il seguente quesito di diritto:  "la responsabilità   del   datore  di  lavoro   per   violazione   della personalità   morale  del  lavoratore  può  sussistere   anche   in conseguenza di uno (o più) atti lesivi della dignità e  del  decoro personale  e professionale dello stesso pur in difetto di un  disegno persecutorio  finalizzato ad espellere il dipendente (fattispecie  di mobbing)?".  4.- Con il quarto e il quinto motivo di ricorso si denunciano omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla domanda di risarcimento   del   danno  per  violazione  dell'art.   2087   c.c.,  sottolineando  che l'esistenza della responsabilità  del  datore  di lavoro,  nel  caso in esame, era stata invocata e doveva riconoscersi anche  come fondata sulla violazione
dell'art. 2043 c.c.,  non potendo dubitarsi  che  i  fatti indicati dalla ricorrente costituissero,  al tempo  stesso, violazione di obblighi contrattualmente  gravanti  sul datore  di  lavoro, ex art. 2087 c.c.,  e violazione del precetto  del neminem  laedere gravante sulla generalità dei consociati,  ex  art. 3043 c.c. 5.-  Il  ricorso  è infondato. Come questa Corte ha  già  precisato (cfr.  Cass.  n. 3785/2009), per mobbing si intende una condotta  del datore  di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta bel  tempo,  tenuta  nei  confronti del lavoratore  nell'ambiente  di lavoro,  che  si  risolve  in sistematici e  reiterati  comportamenti ostili  che  finiscono  per assumere forme  di  prevaricazione  o  di persecuzione  psicologica, da cui può conseguire  la  mortificazione morale  e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del  suo equilibrio
fisio - psichico e del complesso della sua  personalità.
Ai  fini  della configurabilità della condotta lesiva del datore  di lavoro   sono,   pertanto,   rilevanti:  a)   la   molteplicità   di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche  leciti  se considerati  singolarmente, che siano stati posti in essere  in  modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità  del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore  o  del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico  -  fisica del   lavoratore;   d)  la  prova  dell'elemento  soggettivo,   cioè dell'intento  persecutorio.  La domanda  di  risarcimento  del  danno proposta dal lavoratore per il mobbing subito è soggetta a specifica allegazione  e  prova  in ordine agli specifici fatti  asseriti  come lesivi  (Cass.  n. 19053/2005). Cass. 6 marzo 2006, n.  4774
 ha  poi ritenuto  che  l'illecito  del datore di  lavoro  nei  confronti  del lavoratore consistente nell'osservanza di una condotta protratta  nel tempo   e  con  le  caratteristiche  della  persecuzione  finalizzata all'emarginazione del dipendente (c.d. mobbing) - che rappresenta una violazione  dell'obbligo di sicurezza posto  a  carico  dello  stesso datore  dall'art.  2087 c.c. - si può realizzare  con  comportamenti materiali   o   provvedimentali   dello  stesso   datore   di   lavoro indipendentemente    dall'inadempimento   di    specifici    obblighi contrattuali  previsti  dalla  disciplina  del  rapporto  di   lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto  e  delle sue   conseguenze   deve  essere  verificata  -   procedendosi   alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi -  considerando l'idoneità offensiva della
condotta  del  datore  di lavoro,  che può essere dimostrata, per la sistematicità  e  durata dell'azione  nel  tempo,  dalle  sue  caratteristiche  oggettive   di persecuzione  e  discriminazione, risultanti  specificamente  da  una connotazione   emulativa  e  pretestuosa,  anche  in  assenza   della violazione  di specifiche norme attinenti alla tutela del  lavoratore subordinato.
Nella  specie, la Corte territoriale ha preso in esame l'insieme  dei comportamenti  del  datore  di  lavoro  dedotti  come  lesivi   dalla ricorrente,  escludendone ogni intento persecutorio  o emulativo,  sia con   riferimento   agli   episodi  collegati,   secondo   l'assunto, all'insorgenza  delle  "prime  manifestazioni  patologiche   sia  con riferimento  agli  episodi successivi, osservando,  quanto  a  questi ultimi,  che  dalle risultanze istruttorie non era emersa l'esistenza di  comportamenti connotati da carattere persecutorio  nei  confronti della  dipendente  e  che gli unici episodi,  comunque  marginali  ed isolati,  rispetto  ai quali poteva essere espresso  un  giudizio  di biasimo   (lancio   dello  stipendio  sul  tavolo,   consegna   della retribuzione in un sacco di monetine) si erano verificati  "in  tempi di  molto successivi all'inizio della manifestazione delle
patologie, quando la      #################### non andava più a lavorare e si recava in agenzia solo  per  ritirare  lo stipendio ...", sì che,  valutate  tutte  le circostanze  sopra  indicate,  doveva  escludersi  che  fosse   stata raggiunta la prova di un atteggiamento emarginante, discriminatorio o persecutorio nei confronti della lavoratrice.
Si  tratta  di  una  valutazione di fatto, devoluta  al  giudice  del merito, non censurabile nel giudizio di cassazione in quanto comunque assistita  da  motivazione sufficiente e non  contraddittoria;  anche perchè la ricorrente non ha riportato in ricorso il contenuto  delle deposizioni testimoniali delle quali assume essere stato omesso  ogni esame  (tranne  quello di una deposizione, che   tuttavia  non  appare decisiva ai fini della collocazione temporale degli episodi di cui si discute)  e non ha neppure indicato quali sarebbero gli elementi  che la Corte territoriale avrebbe trascurato di esaminare (in conseguenza della erronea interpretazione degli atti di causa, denunciata con  il primo  motivo) e che avrebbero dovuto orientare la decisione in senso diverso, sicchè le censure espresse nei primi due motivi di  ricorso -  al  di  là della loro corretta impostazione in diritto
circa  la definizione  dei comportamenti che possono integrare in  astratto  la fattispecie  del  mobbing  -  rimangono poi  confinate  ad  una  mera contrapposizione  rispetto alla valutazione di merito  operata  dalla Corte   d'appello,  inidonea  a  radicare  un  deducibile  vizio   di motivazione di quest'ultima. Deve ribadirsi, al riguardo,  che,  come è  stato  più volte affermato da questa Corte, la deduzione  di  un vizio  di  motivazione  della  sentenza  impugnata  con  ricorso  per cassazione  conferisce al giudice  di legittimità non  il  potere  di riesaminare  il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta  al suo  esame,  bensì la sola facoltà di  controllo, sotto  il  profilo della  correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in  via esclusiva,   il   compito  di  individuare  le
fonti   del   proprio convincimento, di assumere e valutare le prove e di scegliere, tra le complessive  risultanze  del processo, quelle  ritenute  maggiormente idonee  a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi,  senza essere  tenuto  ad  un'esplicita confutazione  degli  altri  elementi probatori  non accolti, anche se allegati dalle parti.  Il  vizio  di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile  con ricorso  per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.####################c.,  n. 5, ricorre, dunque,  soltanto quando nel ragionamento del giudice di   merito  sia riscontrabile  il  mancato o insufficiente esame  di  punti  decisivi della  controversia, prospettati dalle parti o rilevabili  d'ufficio, ovvero  un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate,  tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto  a  base  della decisione,
mentre tale vizio non  si  configura allorchè  il  giudice di merito abbia semplicemente attribuito  agli elementi   valutati  un  valore  e  un  significato   diversi   dalle aspettative  e  dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis  Cass.  n. 10657/2010,  Cass.  n.  9908/2010,  Cass.  n.  27162/2009,  Cass.  n. 16499/2009,  Cass.  n.  13157/2009,  Cass.  n.  6694/2009,  Cass.  n. 42/2009,   Cass.  n.  17477/2007,  Cass.  n.  15489/2007,  Cass.   n. 7065/2007,  Cass.  n.  1754/2007,  Cass.  n.  14972/2006,  Cass.   n. 17145/2006,  Cass.  n.  12362/2006, Cass.  n.  24589/2005,  Cass.  n. 16087/2003,  Cass.  n.  7058/2003,  Cass.  n.  5434/2003,  Cass.   n. 13045/97, Cass. n. 3205/95).
6.- Il primo ed il secondo motivo vanno, pertanto, rigettati.
7.- Anche il terzo motivo, con il quale, sostanzialmente, si contesta una  non corretta interpretazione delle domande formulate con  l'atto introduttivo  e  della  normativa in  esso   richiamata,  deve  essere respinto. Invero, anche a prescindere dalla pur di per sè assorbente considerazione che la ricorrente non riporta puntualmente nel ricorso per  cassazione  il  contenuto integrale dell'atto introduttivo  (non essendo  sufficiente il richiamo di alcuni passi del ricorso ex  art. 414  c.####################c.  o la riproduzione in forma indiretta dello  stesso  atto contenuta nelle premesse del ricorso per cassazione), nè gli  esatti termini in cui la domanda è stata riproposta in appello, va rilevato che  nel  ricorso non vengono neppure indicate le norme che la  Corte territoriale  avrebbe violato nell'interpretazione di una domanda  che pure,  anche  secondo  la  ricorrente, era  diretta  a
sostenere  la sussistenza del mobbing e che negli stessi termini, a quanto si legge nella  motivazione della sentenza impugnata, sarebbe stata riprodotta nel   grado   di   appello;   e  tutto  ciò  senza  considerare   che l'interpretazione della domanda e l'apprezzamento della sua ampiezza, oltre  che  del suo contenuto, costituiscono, anche nel  giudizio  di appello,  ai  fini  della  individuazione del  devolutum,  un  tipico apprezzamento di fatto  riservato al giudice del merito  e,  pertanto, insindacabile  in  sede  di legittimità, se  non  sotto  il  profilo dell'esistenza, sufficienza  e logicità della motivazione  (Cass.  n. 20373/2008, Cass. n. 19475/2005).
8.-  Al  rigetto del terzo motivo consegue logicamente l'assorbimento del  quarto e del quinto motivo, con i quali si deduce il difetto  di motivazione  in  ordine alla domanda di risarcimento  del  danno  con riferimento    alla    responsabilità    sia    contrattuale     che extracontrattuale,  trattandosi  di motivi  che  ripropongono,  sotto diverso  profilo,  le  stesse censure del  motivo  precedente  e  che incorrono, dunque, per come formulati, negli stessi rilievi.
9.- Il ricorso va quindi rigettato.
10.-  Stante il mancato svolgimento di attività difensiva  da  parte dell'intimata, non deve provvedersi in ordine alle spese del giudizio di legittimità.####################Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso; nulla sulle spese.



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