N. 86 SENTENZA 21 marzo - 23 aprile 2018
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Lavoro e occupazione - Tutela del lavoratore in caso di licenziamento
illegittimo - Condanna del datore di lavoro alla corresponsione di
un'indennita' di natura risarcitoria dal giorno del licenziamento
sino alla effettiva reintegrazione e/o alla riforma della prima
decisione.
- Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e
dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita'
sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), art. 18,
quarto comma, come sostituito dall'art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di
riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).
-
(GU n.17 del 26-4-2018 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO',
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 18, quarto
comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della
liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e
dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), come sostituito dall'art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), promosso dal
Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, nel procedimento
vertente tra Mariangela Segata e la Cassa rurale di Trento, con
ordinanza del 26 luglio 2016, iscritta al n. 253 del registro
ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 51, prima serie speciale, dell'anno 2016.
Visti l'atto di costituzione di Mariangela Segata, nonche' l'atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 20 marzo 2018 il Giudice relatore
Mario Rosario Morelli;
uditi l'avvocato Maria Cristina Osele per Mariangela Segata e
l'avvocato dello Stato Leonello Mariani per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Nel corso di un giudizio di opposizione - proposto da una
lavoratrice avverso il decreto ingiuntivo con il quale la Cassa
rurale sua datrice di lavoro, le aveva richiesto la restituzione
dell'indennita' corrispostale per il periodo intercorrente tra la
data del licenziamento e la data della sentenza che aveva riformato
l'ordinanza di annullamento del licenziamento per giusta causa
intimatole e di reintegrazione nel posto di lavoro, emessa a
conclusione della fase sommaria - l'adito giudice monocratico del
Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, premessane la
rilevanza e ritenutane la non manifesta infondatezza, in riferimento
all'art. 3, primo comma, della Costituzione, ha sollevato, con
l'ordinanza in epigrafe, questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 18 (Tutela del lavoratore in caso di licenziamento
illegittimo), quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme
sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), come sostituito dall'art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), «nella parte
in cui [...] attribuisce, irragionevolmente, natura risarcitoria,
anziche' retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro e'
tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla
pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla
reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino
all'effettiva ripresa dell'attivita' lavorativa o fino alla pronuncia
di riforma della prima».
Secondo il rimettente, la qualificazione legislativa delle somme
in questione in termini risarcitori contrasterebbe, appunto, con
l'art. 3, primo comma, Cost.
Per effetto dell'accertamento dell'illegittimita' del
licenziamento e della conseguente condanna del datore di lavoro alla
riassunzione del lavoratore, vi sarebbe, infatti, un pronto
ripristino del rapporto lavorativo (in base alla riaffermata vigenza
della lex contractus), con il correlato diritto del lavoratore a
percepire il trattamento retributivo spettante, quale obbligazione
primaria e finale con valenza corrispettiva, e cio' anche quando il
datore di lavoro non adempia (come nella specie) all'obbligo di
riammissione in servizio e corrisponda, invece, la relativa
indennita', poiche', in tal caso, si realizzerebbe «un'ipotesi di
mora accipiendi ([...] con correlativa equiparazione, ai fini della
spettanza della retribuzione, della mera utilizzabilita' delle
energie lavorative del dipendente all'effettiva utilizzazione)».
Diversamente, se «solo l'effettiva riammissione del lavoratore in
servizio [fosse] in grado di mutare da risarcitori[a] a retributiv[a]
la natura del titolo di corresponsione delle somme (commisurate alle
retribuzioni maturate) versate dal datore successivamente alla
pronuncia di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel
posto di lavoro», si determinerebbe una ingiustificata disparita' di
trattamento, sotto il profilo della ripetibilita' delle somme
corrisposte a tale titolo, tra il datore di lavoro che ottemperi
all'ordine di reintegra e il datore di lavoro inadempiente rispetto a
tale ordine, che si limiti a versare la retribuzione a titolo
risarcitorio, "scommettendo" con cio' sulla sua ripetibilita'.
Ove, dunque, fosse riconosciuta la «natura retributiva»
dell'indennita' (sostitutiva) versata dal datore di lavoro nel
periodo successivo alla ordinanza di reintegrazione, ne conseguirebbe
- conclude il giudice a quo - che la situazione venutasi a creare
dopo tale pronuncia assumerebbe «i tratti della fattispecie (di
diritto sostanziale e non gia' processuale) prevista dall'art. 2126
cod. civ., come gia' ritenevano le Sezioni Unite della Suprema Corte
(Cass. S.U. n. 2925/1988) nella vigenza dell'originario art. 18 L.
300/1970».
2.- Si e' costituita in questo giudizio la parte opponente nel
procedimento principale, la quale ha preliminarmente precisato di non
contrastare la richiesta di restituzione delle somme percepite per il
periodo dalla data del licenziamento a quella dell'ordine di
reintegrazione, e di contestare la debenza delle sole somme relative
al successivo periodo intercorrente dall'ordine di reintegrazione
alla riforma dello stesso: somme, queste, «da parificarsi ad una
retribuzione per prestazione di fatto, svolta in regime di mora
creditoris in capo alla datrice di lavoro», che non aveva ritenuto di
avvalersi della prestazione lavorativa di essa dipendente.
Ha concluso, quindi, per la declaratoria di illegittimita'
costituzionale della norma denunciata dal giudice a quo.
In subordine, ne ha prospettato una possibile lettura
adeguatrice, nel senso che la prevista indennita' risarcitoria sia
non gia' alternativa o specificativa, ma "aggiuntiva" rispetto
all'effetto reintegratorio, che darebbe titolo alla retribuzione per
il periodo successivo alla reintegrazione.
3.- E' anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, che ha concluso per l'inammissibilita' (per difetto di
chiarezza del petitum e carenza di motivazione sulla rilevanza) e, in
subordine, per la non fondatezza della questione.
Secondo l'interveniente, che ha anche presentato successiva
memoria, il denunciato quarto comma dell'art. 18 della legge n. 300
del 1970, nella sua attuale formulazione, «contempla a carico del
datore di lavoro due sole obbligazioni, aventi entrambe natura
risarcitoria, alternative tra loro in via di gradata subordinazione,
e costituite, la principale, da un facere, la reintegrazione nel
posto di lavoro in precedenza occupato dal lavoratore
illegittimamente licenziato - risarcimento in forma specifica -, e,
la subordinata, da un dare, operante in caso di inadempimento della
prima, rappresentato dal pagamento di un'indennita' sostitutiva,
predeterminata dalla legge nella misura e nella durata - risarcimento
per equivalente». Con la conseguenza che, in caso di mancata
reintegra, il diritto al risarcimento mediante il pagamento
dell'indennita' sostitutiva non potrebbe cumularsi, come prospettato
dalla difesa della lavoratrice, con il diritto alla retribuzione, che
presuppone l'effettivo svolgimento della prestazione lavorativa.
Considerato in diritto
1.- L'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla
tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), come novellato dall'art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), con riguardo
alle ipotesi (diverse da quelle, piu' gravi, di cui al primo comma,
riferibili ai datori di lavoro di cui al successivo comma ottavo) in
cui si accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo
soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, al suo
comma quarto testualmente dispone che «[i]l giudice [...] annulla il
licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel
posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennita'
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione,
dedotto quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di
estromissione, per lo svolgimento di altre attivita' lavorative,
nonche' quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza
alla ricerca di una nuova occupazione». Ed aggiunge che «[i]n ogni
caso la misura dell'indennita' risarcitoria non puo' essere superiore
a dodici mensilita' della retribuzione globale di fatto».
2.- Il giudice monocratico del Tribunale ordinario di Trento,
sezione lavoro, dubita che tale disposizione sia compatibile con il
precetto di cui all'art. 3, primo comma, della Costituzione., nella
parte in cui «irragionevolmente», a suo avviso, attribuisce «natura
risarcitoria, anziche' retributiva, alle somme di denaro che il
datore di lavoro e' tenuto a corrispondere in relazione al periodo
intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di
condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente
esecutiva fino all'effettiva ripresa dell'attivita' lavorativa o fino
alla pronuncia di riforma della prima».
Il rimettente ritiene, infatti, che alla indennita' (sostitutiva)
corrisposta, al dipendente, dal datore di lavoro inadempiente
all'ordine di reintegrazione, vada attribuita natura retributiva, in
applicazione della lex contractus riaffermata dal provvedimento
reintegratorio e della cosi' ripristinata continuita' del rapporto di
lavoro, con la correlativa equiparazione alla effettiva utilizzazione
delle energie lavorative del dipendente, della mera utilizzabilita'
di esse, in relazione alla disponibilita' del lavoratore a riprendere
servizio.
Diversamente, la subordinazione della natura retributiva delle
somme versate all'effettiva riammissione in servizio del lavoratore
violerebbe il principio di uguaglianza tra la posizione del datore
che fornisca la collaborazione necessaria al proficuo utilizzo della
prestazione lavorativa e la posizione del datore che si limiti a
versare le somme dovute ma non riammetta in servizio il lavoratore,
rendendosi cosi' inadempiente al suddetto obbligo di collaborazione,
poiche' in tal modo verrebbe premiata la condotta di quest'ultimo, il
quale cosi' conserverebbe la facolta' di ripetere gli importi
corrisposti nell'ipotesi di riforma della pronuncia di annullamento
del licenziamento.
3.- La questione cosi' sollevata, secondo l'Avvocatura generale
dello Stato, sarebbe inammissibile, poiche' dalla lettura
dell'ordinanza e, in particolare, dal suo dispositivo non sarebbe
dato comprendere «quale tipo di intervento» chieda il giudice a quo,
e perche' non parrebbe sussisterne la rilevanza.
3.1.- Tali eccezioni, che vanno preliminarmente esaminate, non
colgono nel segno.
E' ben chiaro, infatti, quel che il rimettente richiede ai fini
della auspicata reductio ad legitimitatem della disposizione
censurata: e, cioe', una pronuncia "sostitutiva", che sostanzialmente
ripristini l'originario contenuto precettivo dell'art. 18 della legge
n. 300 del 1970, per il quale il datore di lavoro, non ottemperante
all'ordine di reintegrazione, «e' tenuto inoltre a corrispondere al
lavoratore», per il periodo dalla data stessa di tale provvedimento e
fino alla reintegrazione, non gia', come nel testo attuale,
«un'indennita' risarcitoria», bensi' «le retribuzioni dovutegli in
virtu' del rapporto di lavoro». Retribuzioni che, ai fini della
rilevanza della questione, il giudice a quo ritiene, appunto,
irripetibili in caso di riforma della pronuncia di annullamento del
licenziamento, in applicazione dei principi posti dall'art. 2126 cod.
civ., secondo l'orientamento espresso dalle sezioni unite della Corte
di cassazione, con la sentenza 13 aprile 1988, n. 2925.
4.- Nel merito, la questione non e' fondata.
4.1.- Antecedentemente alle modifiche apportate dalla legge 11
maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali) e poi
dall'art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, l'art.
18 della legge n. 300 del 1970, nella sua formulazione originaria,
oltre a riconoscere al lavoratore «il diritto al risarcimento del
danno subito per il licenziamento di cui sia stata accertata la
inefficacia o la invalidita'», poneva a carico del datore di lavoro,
che non avesse ottemperato all'ordine di reintegrazione, l'obbligo
ulteriore di «corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli»
in virtu', e dalla data, della sentenza di annullamento del
licenziamento e «fino a quella della reintegrazione».
4.1.1.- In sede di esegesi del riferito testo originario della
norma in esame, il risalente precedente della Corte di legittimita'
richiamato dal giudice a quo (sezioni unite civili, sentenza 13
aprile 1988, n. 2925) - nell'escludere che, in caso di successiva
riforma della sentenza dichiarativa della inefficacia o della
invalidita' del licenziamento, il datore di lavoro potesse ripetere
le "retribuzioni" corrisposte al lavoratore non reintegrato nel posto
di lavoro - motivava tale irripetibilita' facendo applicazione della
disposizione di cui all'art. 2126 cod. civ.
Detta norma - per cui (la nullita' o) l'annullamento del
contratto di lavoro (cui era appunto ricondotta l'ipotesi del
licenziamento giudizialmente confermato) «non produce effetto» (e
quindi non travolge le retribuzioni corrisposte) «per il periodo in
cui il rapporto ha avuto esecuzione» - era, appunto, considerata
riferibile anche alla fattispecie della mancata ottemperanza del
datore di lavoro all'ordine di reintegrazione del lavoratore. E cio'
sul presupposto che la (manifestata) disponibilita' del dipendente a
riprendere servizio fosse equiparabile alla effettiva prestazione
dell'attivita' lavorativa e, quindi, ad intervenuta "esecuzione del
rapporto".
4.1.2.- Tale premessa ermeneutica - oltreche' superata dal nuovo
testo dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, introdotto dalla
legge n. 108 del 1990 - e' risultata, comunque, non piu' in linea con
la successiva, e poi consolidatasi, giurisprudenza della stessa Corte
di cassazione, a tenore della quale il rapporto di lavoro affetto da
nullita' puo' rientrare nella sfera di applicazione dell'art. 2126
cod. civ. unicamente nel caso, e per il periodo, in cui il rapporto
stesso abbia avuto «materiale esecuzione» (ex plurimis, sezione
lavoro, sentenze 21 novembre 2016, n. 23645; 30 giugno 2016, n.
13472; 25 gennaio 2016, n. 1256; 3 febbraio 2012, n. 1639; 11
febbraio 2011, n. 3385). Il che e' in linea con la nozione di
retribuzione ricavabile dalla Costituzione (art. 36) e dal codice
civile (artt. 2094, 2099), per cui il diritto a percepirla sussiste
solo in ragione (e in proporzione) della eseguita prestazione
lavorativa.
4.2.- Se e' pur vero, quindi, che l'ordine di reintegrazione del
lavoratore illegittimamente licenziato ripristina, sul piano
giuridico, la lex contractus, cio' non e' vero anche sul piano
fattuale, poiche' la concreta attuazione di quell'ordine non puo'
prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro, avendo ad
oggetto un facere infungibile.
Per cui, ove il datore di lavoro non ottemperi all'ordine di
reintegrazione, tale suo comportamento, riconducibile ad una
fattispecie di illecito istantaneo ad effetti permanenti,
perpetuerebbe le conseguenze dannose del licenziamento intimato
contra ius, da cui propriamente deriva una obbligazione risarcitoria
del danno stesso da parte del datore nei confronti del dipendente non
reintegrato.
4.3.- La disposizione di cui al novellato quarto comma dell'art.
18 della legge n. 300 del 1970 - con il prevedere che il datore di
lavoro, in caso di inottemperanza all'ordine (immediatamente
esecutivo) del giudice, che lo condanni a reintegrare il dipendente
nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via
sostitutiva, una «indennita' risarcitoria» - non e' dunque
"irragionevole", come sospetta il rimettente, bensi' coerente al
contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione
di detta indennita' ad una condotta contra ius del datore di lavoro e
non ad una prestazione di attivita' lavorativa da parte del
dipendente.
Ne' e' sostenibile che una tale qualificazione risarcitoria della
suddetta indennita' sia contraddetta dalla prevista sua
commisurazione «all'ultima retribuzione globale di fatto», e che cio'
appunto inneschi un contrasto della disposizione censurata con l'art.
3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza.
Come correttamente, infatti, osservato dall'Avvocatura generale
dello Stato, il ragguaglio dell'indennita' sostitutiva all'ultima
retribuzione percepita dal lavoratore e', a sua volta, coerente alla
qualificazione risarcitoria della fattispecie in esame.
Viene, in tale contesto, in rilievo il "lucro cessante" - il
mancato guadagno, cioe', subito dal lavoratore per effetto, prima,
del licenziamento illegittimamente intimato e, poi, della mancata
riassunzione - e tale voce di danno e' coerentemente rapportata a
quanto il dipendente avrebbe percepito se, senza il licenziamento,
avesse continuato a lavorare e poi se, dopo l'annullamento di questo,
fosse stato riassunto in esecuzione dell'ordine di reintegrazione
imposto dal giudice.
Ed e' appunto (e solo) in tale prospettiva risarcitoria (ed in
applicazione del principio della compensatio lucri cum damno) che si
spiega e si giustifica l'ulteriore previsione della detrazione,
dall'indennita' dovuta dal datore di lavoro a titolo di risarcimento
del danno, di quanto il lavoratore abbia percepito, nel periodo di
estromissione, per lo svolgimento di altre attivita' lavorative,
nonche' di quanto il medesimo avrebbe potuto percepire dedicandosi
con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.
4.4.- Neppure sussiste l'ulteriore vulnus all'art. 3, primo
comma, Cost., che il rimettente sospetta arrecato dalla disposizione
censurata per il profilo della disparita' di trattamento che, a suo
avviso, ingiustificatamente ne deriverebbe (nel quadro della sequenza
tra annullamento del licenziamento e successiva sua riforma) tra il
datore di lavoro che, medio tempore, adempia all'ordine di
reintegrazione del dipendente e il datore di lavoro che,
"scommettendo" su quella riforma, viceversa non vi ottemperi,
limitandosi a corrispondere al lavoratore l'indennita' risarcitoria.
E' pur vero, infatti, che il primo non avra' titolo a ripetere le
retribuzioni corrisposte al dipendente all'interno del periodo in
questione, mentre il secondo potra' ripetere l'indennita'
risarcitoria versatagli una volta accertata la legittimita' del
licenziamento ed escluso, quindi, che abbia agito contra ius. Ma si
tratta di due situazioni non omogenee e non suscettibili per cio' di
entrare in comparazione nell'ottica dell'art. 3 Cost.
Il datore di lavoro ottemperante all'ordine del giudice ottiene,
infatti, quale corrispettivo dell'esborso retributivo, una
controprestazione lavorativa, che manca invece al datore di lavoro
inadempiente.
4.4.1-Va poi considerato che il datore di lavoro, ove messo in
mora, dal lavoratore, ai fini dell'adempimento del suo obbligo di
ottemperanza all'ordine del giudice, nel contesto della disciplina
lavoristica ispirata al favor praestatoris, puo' andare, a sua volta,
incontro alla richiesta risarcitoria che, secondo i principi generali
delle obbligazioni (artt. 1206 e 1207, secondo comma, cod. civ.), nei
suoi confronti, formuli il lavoratore medesimo, per il danno
conseguente al mancato reinserimento nell'organizzazione del lavoro,
nel periodo intercorrente dalla statuizione di annullamento del
licenziamento a quello della sua successiva riforma.
4.5.- Da qui la non fondatezza della questione di legittimita'
costituzionale sollevata dal rimettente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme
sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), come sostituito dall'art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), sollevata, in
riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, dal
Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, con l'ordinanza
indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2018.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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