Cass. pen. Sez. VI, (ud. 10-05-2006) 06-09-2006, n. 29772
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISCUOLO Alessandro - Presidente
Dott. ROMANO Francesco - Consigliere
Dott. AGRO' Antonio S. - Consigliere
Dott. CORTESE Arturo - Consigliere
Dott. CARCANO Domenico - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
B.E., nato in (OMISSIS);
contro la sentenza 10 dicembre 2004 del
giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vigevano;
Sentita la relazione svolta dal Consigliere
Dr. Domenico Carcano;
Lette le richieste del Procuratore Generale
con le quali si conclude per l'inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
che B.E. propone ricorso contro la sentenza
10 dicembre 2004 del giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
di Vigevano con la quale è stata applicata ex art. 444 c.p.p.
la pena di anni due e mesi otto di reclusione, come determinata
dalle parti in anni due di reclusione quale pena base stabilità per
più grave delitto di peculato di cui al capo n. 3 unificato nel
vincolo della continuazione con gli altri reati satelliti per i
quali si è determinato un ulteriore aumento di mesi otto di
reclusione;
che il ricorrente, con un primo motivo,
deduce la nullità dell'impugnata sentenza per erronea applicazione
della legge penale, in relazione all'art. 314 c.p. di cui
al capo n. 8 della richiesta di rinvio a giudizio, per avere, quale
vigile del fuoco in servizio volontario, utilizzato il telefono
d'ufficio, effettuando una conversazione privata con l'amico D.A.
per ragioni del tutto estranee al servizio;
che la difesa del ricorrente deduce la
violazione di legge in relazione alla qualifica di pubblico
ufficiale riconosciuta a B. E., in quanto non è tale un vigile del
fuoco in servizio volontario, in mancanza di un atto normativo dal
quale fare discendere tale qualifica ed essendo il rapporto, oltre
di natura occasionale, privo di contenuto economico e istaurato con
la Caserma;
che, con un secondo motivo, il ricorrente
deduce la nullità dell'impugnata sentenza per violazione di legge,
in quanto erroneamente non è stata riconosciuta l'attenuante
prevista dall'art. 323 bis c.p.p. in relazione alle imputazioni di
peculato di cui ai capi nn. 3 e 8;
che i beni, dei quali B.E. si è impossessato,
sono di particolare tenuità, come tali, hanno arrecato al soggetto
passivo un danno di minima entità, e, pertanto, vi erano le
condizioni per applicare la norma invocata, introdotta per mitigare
in tali ipotesi la pena per il delitto di peculato;
che, con un terzo motivo, il ricorrente
deduce la nullità della sentenza per violazione della legge penale
in quanto erroneamente configurato il fatto contestato quale delitto
di peculato, potendosi in quadrare in quello di abuso d'ufficio;
che tale è la sintesi ex art. 173 disp.
att. c.p.p., comma 1, delle questioni poste.
Motivi della decisione
Che il ricorso è inammissibile per manifesta
infondatezza;
che il primo motivo è manifestatemene
infondato, in quanto l'indubbia funzione pubblica svolta dai vigili
del fuoco, nei cui compiti tra l'altro rientra anche il potere di
verificare la idoneità delle misure per prevenire gli incendi e di
impartire prescrizioni in proposito, non può che essere indipendente
dalle modalità di instaurazione del rapporto organico e
dall'ulteriore profilo sottostante del collegamento o meno a un
rapporto di servizio o a un "servizio di volontariato";
che, come noto, elemento imprescindibile è
l'esercizio, anche di fatto, di pubbliche funzioni, poichè tale
oggettiva situazione vale a riconoscere, in ogni caso, la relativa
qualifica al soggetto agente nell'ambito delle figure funzionali
previste dall'art. 357 c.p.;
che il principio di diritto in questione va
ricondotto al consolidato indirizzo espresso dalle Sezioni unite di
questa Corte, secondo cui la qualifica di pubblico ufficiale - ai
sensi dell'art. 357 c.p., come novellato dalla L. n. 86
del 1990 e L. n. 181 del 1992 deve essere riconosciuta
a quei soggetti che, pubblici dipendenti o "semplici privati", quale
che sia la loro posizione soggettiva, possono e debbono, nell'ambito
di una potestà regolata dal diritto pubblico, esercitare,
indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi,
deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente
considerati (Sez. un., 27 marzo 1992, Delogu, rv.
191171);
che il secondo motivo e il terzo motivo sono
altrettanto manifestamente infondati e, in ogni caso, riconducibili
a questioni non censurabili in sede di legittimità avverso sentenze
pronunciate ex art. 444 c.p.p.;
che, come noto, una volta che l'accordo tra
le parti sia stato ratificato dal giudice con la sentenza di
patteggiamento, non è consentito, fuori dei casi di palese
incongruenza, censurare il provvedimento in punto di qualificazione
giuridica del fatto e di ricorrenza delle circostanze, neppure sotto
il profilo della mancanza di motivazione, ricorrendo in proposito un
dovere di specifica motivazione solo per il caso che l'accordo abbia
presupposto una modifica dell'originaria imputazione (Cass. 10
aprile 2003, dep. 29 luglio 2003, n. 32004);
che l'attenuante della particolare tenuità
prevista dall'art. 323 bis c.p. non è solo correlata all'entità del
vantaggio o del danno e concerne, invece, il fatto illecito in tutti
i suoi profili, compreso quello psicologico, e possono di
conseguenza rilevare anche i motivi sottesi alla condotta
dell'agente (Cass. 8 maggio 2003, dep. 20 giugno 2003, n. 26998),
accertamento, ancorato a profili fattuali, per il quale vi è stato
accordo tra le parti;
che è ormai diritto vivente che l'indebito
uso, da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico
servizio, dell'utenza telefonica intestata alla pubblica
amministrazione, di cui egli abbia la disponibilità, costituisce
peculato, comportando la suddetta condotta l'appropriazione delle
energie, entrate nelle sfera di disponibilità della pubblica
amministrazione, occorrenti per le conversazioni telefoniche, salvo
per le telefonate a propri famigliari per ragioni d'urgenza
autorizzabili dal dirigente dell'ufficio (ex plurimis, Cass 15
gennaio 15 gennaio 2003, dep. 17 febbraio 2003, n. 7772; Cass. 13
ottobre 2000, dep. 15 dicembre 2000, n. 3879);
che il ricorso è, dunque, inammissibile e il
ricorrente, a norma dell'art. 616 c.p.p., va condannato,
oltre che al pagamento delle spese del procedimento, anche a pagare
una somma in favore della Cassa delle ammende che si ritiene equo
determinare nella misura di Euro 1.000,00, non ricorrendo le
condizioni richieste dalla sentenza della Corte Costituzionale 13
giugno 2000, n. 186.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna
il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè della
somma di Euro mille a favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 10 maggio 2006.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2006
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