N. 61 SENTENZA 9 gennaio - 10 aprile 2020
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Impiego pubblico - Falsa attestazione della presenza in servizio del
dipendente - Danno all'immagine della PA - Configurazione come
autonoma fattispecie di responsabilita' amministrativa e previsione
dei criteri per la determinazione del risarcimento - Violazione dei
limiti della delega legislativa in materia di responsabilita'
disciplinare - Illegittimita' costituzionale.
- Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, art. 55-quater, comma
3-quater, secondo, terzo e quarto periodo, inserito dall'art. 1,
comma 1, lettera b), del decreto legislativo 20 giugno 2016, n.
116.
- Costituzione, art. 3, 23, 76 e 117, primo comma; Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,
art. 6; Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 4.
(GU n.16 del 15-4-2020 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Aldo CAROSI;
Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 55-quater,
comma 3-quater, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche), inserito dall'art. 1,
comma 1, lettera b), del decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116,
recante «Modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s),
della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento
disciplinare», promosso dalla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale regionale per l'Umbria, nel giudizio vertente tra il
Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte
dei conti per l'Umbria e C. S. con ordinanza del 9 ottobre 2018,
iscritta al n. 180 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale,
dell'anno 2018.
Visti l'atto di costituzione, fuori termine, di C. S., nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2019 il Giudice
relatore Aldo Carosi;
deliberato nella camera di consiglio del 9 gennaio 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Con sentenza non definitiva e ordinanza del 9 ottobre 2018,
la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l'Umbria,
nel giudizio di responsabilita' promosso dalla Procura regionale nei
confronti di C. S., ha sollevato questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 55-quater, comma 3-quater, ultimo periodo,
del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche), inserito dall'art. 1, comma 1, lettera b), del decreto
legislativo 20 giugno 2016, n. 116, recante «Modifiche all'articolo
55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi
dell'articolo 17, comma 1, lettera s), della legge 7 agosto 2015, n.
124, in materia di licenziamento disciplinare», in attuazione
dell'art. 17, comma 1, lettera s) della legge 7 agosto 2015, n. 124
(Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche), in riferimento all'art 76 della
Costituzione, nonche' all'art. 3 Cost., anche in combinazione con gli
artt. 23 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della
Convenzione, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU) e all'art. 4
del Protocollo n. 7 di detta Convenzione fatto a Strasburgo il 22
novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990,
n. 98.
1.1.- Il giudice a quo riferisce che la Procura regionale aveva
convenuto in giudizio la sig.ra C. S. per sentirla condannare al
pagamento di euro 20.064,81 in quanto, in qualita' di pubblica
dipendente, aveva falsamente attestato la propria presenza in
servizio in quattro giornate tra le ore 17:00 e le ore 18:00.
Piu' specificamente, la Procura regionale aveva contestato alla
convenuta un danno patrimoniale pari a 64,81 euro, derivante dalla
percezione indebita della retribuzione nei periodi per i quali era
mancata la prestazione lavorativa. Aveva chiesto inoltre la condanna
al pagamento del danno all'immagine da determinarsi in via
equitativa, per un importo ritenuto congruo e pari a 20.000,00 euro,
tanto ai sensi dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n. 165
del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 116 del 2016, in attuazione
dell'art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015.
Il giudice a quo riferisce ancora che la causa, in quanto
ritenuta matura, e' stata trattenuta in decisione ed e' stata
definita nella camera di consiglio del 19 luglio 2018, tenutasi al
termine della complessiva udienza pubblica.
Il Collegio, con sentenza non definitiva, ha ritenuto fondata
l'azione risarcitoria promossa nei confronti della convenuta,
condannandola al risarcimento del danno patrimoniale da percezione
indebita della retribuzione in mancanza di prestazione lavorativa e,
limitatamente all'an debeatur, anche a risarcire il pregiudizio
recato all'immagine della pubblica amministrazione di appartenenza.
In particolare, il giudice contabile umbro ha ritenuto integrata
dalla convenuta la condotta di falsa attestazione della presenza in
servizio mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento e altre
modalita' fraudolente di cui all'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del
2001, introdotto dall'art. 69, comma 1, del decreto legislativo 27
ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 115, in
materia di ottimizzazione della produttivita' del lavoro pubblico e
di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), nella
formulazione in vigore al tempo dei fatti in questione, in quanto la
condotta era stata accertata attraverso strumenti di sorveglianza e
di registrazione.
Il giudice rimettente rammenta che gli artt. 55-quater e
55-quinquies del d.lgs. n. 165 del 2001 prevedono, inoltre, che la
Procura regionale della Corte dei conti debba perseguire i
responsabili richiedendo la condanna al risarcimento sia del «danno
patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione
nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione», che
del danno all'immagine, la cui liquidazione e' rimessa alla
«valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza
del fatto per i mezzi di informazione [fermo restando che]
l'eventuale condanna non puo' essere inferiore a sei mensilita'
dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di
giustizia».
Osserva che i dipendenti pubblici tenuti al rispetto di un orario
di lavoro, in quanto la prestazione puo' essere svolta solo presso
l'ufficio pubblico, sono obbligati a prestarla secondo le modalita',
le forme e i tempi stabiliti dal datore di lavoro pubblico, avendo
l'utenza un vero e proprio diritto pubblico soggettivo all'esercizio
del potere e al disbrigo delle pratiche di ufficio per tutto il
periodo di apertura della struttura.
La convenuta, invece, in violazione delle predette regole di
condotta e degli obblighi di presenza in servizio, aveva modificato
l'orario di uscita, anticipandolo di un'ora rispetto a quello da lei
dichiarato e attestato, disvelando una predeterminazione
intenzionale.
Per tali ragioni, il giudice a quo ha condannato la convenuta al
pagamento di euro 64,81, pari alle retribuzioni indebitamente
percepite in assenza di prestazione lavorativa.
Quanto al danno all'immagine, il Collegio ha ritenuto sussistenti
nella fattispecie tutti gli elementi oggettivi, soggettivi e sociali
della posta risarcitoria avendo avuto la vicenda risonanza nella
stampa locale allegata agli atti del giudizio.
Osserva che le nuove previsioni normative applicabili alla specie
presenterebbero funzioni sanzionatorie e deterrenti per rendere
efficace il contrasto dei comportamenti assenteistici. Sicche'
l'azione di responsabilita' contabile intestata alla procura
regionale, ontologicamente compensativa, tendendo al ripristino del
patrimonio pubblico danneggiato, come anche riconosciuto dalla Corte
europea dei diritti dell'uomo nella sentenza 13 maggio 2014, Rigolio
contro Italia, subirebbe nella norma impugnata una evidente «torsione
sanzionatoria» che, comunque, secondo il giudice rimettente, non si
presenterebbe, sotto questo specifico profilo funzionale,
costituzionalmente irragionevole, in considerazione delle condotte
che tende a contrastare.
Tuttavia, il giudice a quo ritiene che la quantificazione del
danno all'immagine come introdotta dalla riforma del 2016, renderebbe
rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimita'
costituzionale secondo i seguenti profili.
1.2.- Il giudice a quo ritiene che sia innanzitutto violato
l'art. 76 Cost.
Espone il rimettente che la norma e' stata introdotta dal
legislatore delegato (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 116 del 2016,
rubricato «Modifiche all'art. 55-quater del decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165»), in attuazione dell'art. 17, comma 1, lettera
s), della legge n. 124 del 2015, il quale fissa il seguente principio
e criterio direttivo: «introduzione di norme in materia di
responsabilita' disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad
accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di
conclusione l'esercizio dell'azione disciplinare».
Secondo il Collegio rimettente, il decreto delegato non avrebbe
potuto incidere sulla disciplina dell'azione di responsabilita'
amministrativa intestata alla Procura regionale della Corte dei
conti, ne' tanto meno avrebbe potuto porre regole finalizzate a far
assumere ai criteri di computo del danno all'immagine una funzione
sanzionatoria, comunque non confondibile, sia funzionalmente che
strutturalmente, con il procedimento disciplinare che il legislatore
delegato aveva posto a oggetto della delega.
Anche in ragione della natura di mero «riordino» del decreto
legislativo in materia disciplinare, fissata espressamente dall'art.
17 della legge n. 124 del 2015, il giudice a quo sostiene che il
legislatore delegato non avrebbe potuto introdurre norme di diritto
sostanziale volte a fissare criteri di liquidazione del danno
all'immagine da falsa attestazione della presenza in servizio
fissando una soglia sanzionatoria inderogabile nel minimo, che
potrebbe essere sproporzionata rispetto al caso concreto.
Osserva che nell'ordinamento italiano sarebbe ampiamente ammesso,
nella materia del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, il cumulo di sanzioni civili, penali, amministrative
e contabili (viene citata la sentenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo, Grande camera, 15 novembre 2016, A. e B. contro Norvegia;
nonche' la sentenza di questa Corte n. 43 del 2018).
Cio' posto, secondo il giudice rimettente, la descritta
eterogeneita' e non confondibilita' tra i poteri sanzionatori
disciplinari del datore di lavoro pubblico e i poteri di azione
nell'interesse generale intestati alla Procura regionale della Corte
dei conti, renderebbe palese l'eccesso di delega in cui sarebbe
incorso il legislatore.
1.3.- La Corte dei conti ritiene violato altresi' l'art. 3 Cost.,
anche in combinazione con gli art. 23 e 117, primo comma, Cost., in
relazione all'art. 6 della CEDU e all'art. 4 del Protocollo n. 7, in
quanto norme interposte, per violazione dei principi di gradualita' e
proporzionalita' sanzionatoria.
Secondo il rimettente la previsione normativa sarebbe
manifestamente irragionevole in quanto obbligherebbe il giudice
contabile a infliggere una condanna sanzionatoria senza tener conto
dell'offensivita' in concreto della condotta posta in essere.
Obietta, inoltre, che l'obbligatorieta' del minimo sanzionatorio
(«sei mensilita' dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi
e spese di giustizia»), in ipotesi di fondatezza della contestazione
relativa al danno all'immagine, impedirebbe al Collegio di dare
rilevanza ad altre circostanze peculiari e caratterizzanti il caso
concreto, imponendo al giudicante un verdetto condannatorio pur in
presenza di condotte marginali e tenui che abbiano prodotto un
pregiudizio minimo, violando sia il principio di proporzionalita' che
quello della gradualita' sanzionatoria.
La disposizione violerebbe pertanto i principi fondamentali e
generali in materia sanzionatoria impedendo una valutazione
appropriata della fattispecie concreta ponendosi in contrasto con la
citata giurisprudenza sovranazionale convenzionale ed eurounitaria.
Evidenzia infine il giudice a quo che la formulazione normativa
precluderebbe ogni margine all'interpretazione giudiziale
costituzionalmente orientata, in quanto obbligherebbe comunque il
giudice, in caso di fondatezza dell'azione risarcitoria pubblicistica
esperita dalla procura regionale, a condannare il convenuto nella
misura minima non inferiore a sei mensilita' dell'ultimo stipendio in
godimento.
L'obbligatorieta' del minimo edittale sanzionatorio renderebbe
pertanto impossibile ogni adeguamento al caso concreto, precludendo
l'operativita' del principio di proporzionalita' della sanzione che
impone l'adeguamento della tipologia e consistenza della misura
sanzionatoria al grado, natura e carattere della violazione
riscontrata.
Il Collegio rimettente osserva ulteriormente che, stante la
fondatezza dell'azione e nonostante la tenuita' del fatto e il
carattere lieve delle violazioni riscontrate (pochissime ore di falsa
attestazione in relazione a quattro giornate non reiterate), dovrebbe
applicare il minimo sanzionatorio che, a giudizio del medesimo,
apparirebbe eccessivo, sproporzionato e irragionevole.
2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, deducendo l'infondatezza delle questioni sollevate.
In riferimento alla violazione dei principi e criteri direttivi
di cui all'art. 76 Cost., il Presidente del Consiglio rammenta che la
Corte ha affermato in piu' occasioni che la determinazione dei
principi e dei criteri direttivi, ai sensi dell'art. 76 Cost.,
soprattutto ove riguardi interi settori di disciplina od organici
complessi normativi, non osta all'emanazione da parte del legislatore
delegato di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un
completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, non
essendo il suo compito limitato a una «mera scansione linguistica»
delle previsioni contenute nella delega (sono richiamate le sentenze
n. 10 del 2018, n. 278 del 2016, n. 194 e n. 146 del 2015, n. 47 e n.
229 del 2014, n. 426 del 2008). Il legislatore delegato sarebbe
quindi libero di individuare e tracciare i necessari contenuti
attuativi, secondo l'ordinaria sfera della discrezionalita'
legislativa (e' richiamata la sentenza n. 44 del 1993) e, pur
nell'ambito invalicabile dei confini dati dalle possibilita'
applicative desumibili dalle norme di delega, sarebbe ugualmente
libero di interpretare e scegliere fra le alternative che gli si
offrono, di valutare le specifiche situazioni da disciplinare e di
effettuare le conseguenti scelte nella fisiologica attivita' di
riempimento che lega i due livelli normativi (sono richiamate le
sentenze n. 229 del 2014, n. 98 del 2008 e n. 163 del 2000). Ove
cosi' non fosse, si prosegue, al legislatore delegato verrebbe
riservata una funzione di rango quasi regolamentare, priva di
autonomia precettiva, in aperto contrasto con il carattere pur sempre
primario del provvedimento legislativo delegato.
Il controllo di conformita' della norma delegata alla norma
delegante richiederebbe un confronto tra gli esiti di due processi
ermeneutici paralleli: l'uno, relativo alle norme che determinano
l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, da
svolgere tenendo conto del complessivo contesto in cui esse si
collocano e individuando le ragioni e le finalita' poste a fondamento
della stessa; l'altro, relativo alle norme poste dal legislatore
delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi
e i criteri direttivi della delega. Il contenuto della delega e dei
relativi principi e criteri direttivi dovrebbe essere identificato,
dunque, accertando il complessivo contesto normativo e le finalita'
che la ispirano, tenendo conto che i principi posti dal legislatore
delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme
delegate, ma strumenti per l'interpretazione della loro portata.
Queste, fintanto che sia possibile, andrebbero lette nel significato
compatibile con detti principi, i quali, a loro volta, dovrebbero
essere interpretati avendo riguardo alla ratio della delega e al
complessivo quadro di riferimento.
2.1.- Tanto premesso, osserva l'interveniente che la disposizione
impugnata, alla luce della giurisprudenza sopra richiamata,
risulterebbe pienamente riconducibile nell'ambito della delega di cui
alla legge n. 124 del 2015, costituendo un coerente sviluppo e un
completamento dei principi e dei criteri direttivi impartiti con la
legge delega, essendo funzionale alla tutela di un bene-valore, il
buon andamento della pubblica amministrazione, coessenziale
all'esercizio dei poteri e delle funzioni pubbliche.
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri la
responsabilita' per danno all'immagine, sebbene non si sovrapponga a
quella disciplinare, si inserirebbe nella piu' ampia definizione di
responsabilita' amministrativa, di cui costituirebbe una ulteriore
declinazione, sostanziandosi nella responsabilita' con carattere
evidentemente anche sanzionatorio per la grave perdita di prestigio
della personalita' pubblica e nel pregiudizio arrecato al rapporto di
fiducia intercorrente tra cittadini e amministrazione, che
affievolisce il desiderio di partecipazione e il sentimento di
appartenenza e di affidamento alle istituzioni (e' richiamata la
sentenza n. 355 del 2010).
Proprio gli interessi lesi, riconducibili al buon andamento della
pubblica amministrazione, consentirebbero di ritenerla una forma di
responsabilita' strettamente connessa a quella disciplinare
conseguente alla violazione degli obblighi comportamentali propri del
dipendente, considerata la peculiarita' del lavoro presso la pubblica
amministrazione.
Posto che nei riguardi del dipendente incombe un dovere
costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilita'
e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialita'
dell'attivita' che svolge, la funzione della responsabilita'
disciplinare, non diversamente da quella della responsabilita'
amministrativa posta a tutela dell'immagine della pubblica
amministrazione nell'ambito dei rapporti tra amministrazione e
cittadino, consisterebbe nell'assicurare il rispetto del pubblico
interesse al buon andamento dell'amministrazione seppure all'interno
del rapporto lavorativo.
Il danno all'immagine sarebbe, dunque, intrinsecamente correlato
alla condotta fraudolenta realizzata dal dipendente pubblico e alle
sanzioni disciplinari che da questa derivano in quanto si
sostanzierebbe, seppure sotto un diverso aspetto, nel pregiudizio
arrecato al medesimo bene giuridico tutelato, ovvero il buon
andamento e l'imparzialita' che l'apparato pubblico e' chiamato ad
assicurare ai sensi dell'art. 97 Cost.
L'interdipendenza intercorrente tra la sanzione disciplinare del
licenziamento e l'azione di responsabilita' per il risarcimento del
danno all'immagine della pubblica amministrazione deriverebbe, in
sintesi, dalla particolarita' del rapporto lavorativo considerato, il
pubblico impiego, e dalla specificita' e rilevanza attribuita alla
finalita' di contrasto dei comportamenti di falsa attestazione della
presenza, in ragione della quale e' stata disposta una disciplina
singolare comprensiva di un procedimento disciplinare accelerato e di
un licenziamento in assenza di preavviso e la previsione del danno
all'immagine secondo una quantificazione minima.
Nonostante la fattispecie della falsa attestazione della presenza
in servizio si muova nell'ambito del rapporto di lavoro, essa
giungerebbe necessariamente a coinvolgere quello sociale.
La tutela del diritto all'immagine della pubblica
amministrazione, introdotta con il d.lgs. n. 116 del 2016, non
confliggerebbe, pertanto, con l'art. 76 Cost. in quanto si
inquadrerebbe coerentemente con l'introduzione nel sistema di norme
in materia di responsabilita' disciplinare dei pubblici dipendenti,
attesa la comune finalita', in ambiti diversi ma strettamente
contigui, di assicurare il prestigio, la credibilita' e il corretto
funzionamento degli uffici della pubblica amministrazione.
La peculiarita' del pubblico impiego, unita all'esigenza di
costruire un sistema di responsabilita' in grado di coniugare le
finalita' richiamate, potrebbe indubbiamente giustificare
l'introduzione di una sanzione non propriamente disciplinare, ma
capace di completarne la funzione perche' indirizzata a fronteggiare
gli attuali gravi e frequenti fenomeni di assenteismo che la legge
delega intendeva reprimere, considerato soprattutto l'ampio clamore
mediatico suscitato da tali violazioni.
L'obiettivo che la legge delega n. 124 del 2015 mirerebbe a
conseguire sarebbe, in altre parole, quello di un potenziamento del
livello di efficienza dei pubblici uffici finalizzato a contrastare i
fenomeni di scarsa produttivita' e di assenteismo - proposito che
anche il decreto attuativo ha perseguito mediante un potenziamento
dei meccanismi di repressione - e, conseguentemente, l'introduzione
di un'azione di responsabilita' per il danno all'immagine cagionato
dal dipendente con la sua condotta.
Il legislatore delegato avrebbe cosi' posto l'accento sulla
volonta' del legislatore delegante di introdurre regole stringenti in
ordine all'esercizio del potere disciplinare da parte dei soggetti
pubblici, declinandone la volonta', implicita e connessa, di
perseguire il previsto rafforzamento dell'efficienza della pubblica
amministrazione anche attraverso l'azione richiamata, avente un
evidente effetto deterrente rispetto alle condotte fraudolente dei
dipendenti pubblici.
L'intervento normativo censurato dai giudici rimettenti sarebbe,
dunque, rigorosamente in linea con le esigenze di efficienza e di
salvaguardia del prestigio dell'amministrazione perseguite dal
legislatore. Sarebbe, infatti, indubbio che la perpetrata condotta
infedele del dipendente incida negativamente sull'efficienza, sul
decoro, sulla reputazione e sul buon andamento dell'amministrazione
di appartenenza, non solo all'interno del rapporto di lavoro, ma
anche negli stessi amministrati, generando sfiducia verso
l'amministrazione statuale.
2.2.- In relazione all'ulteriore questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n. 165
del 2001, nella parte in cui prevede che l'eventuale condanna per il
danno all'immagine non possa essere inferiore alle sei mensilita'
dell'ultimo stipendio in godimento, il Presidente del Consiglio
ritiene innanzitutto opportuno vagliare la natura cosiddetta mista
della responsabilita' per danno all'immagine, che presenterebbe sia
profili sanzionatori che risarcitori.
Per un verso, sussisterebbe la finalita' anche risarcitoria di
tale responsabilita', volta al ristoro della screditata immagine
della pubblica amministrazione, con conseguente danno suscettibile di
valutazione economica in quanto lesivo del principio di legittimo
affidamento del cittadino nei confronti della pubblica
amministrazione, che secondo la giurisprudenza di questa Corte, in
ragione della natura della situazione giuridica lesa, non avrebbe
valenza patrimoniale. Il riferimento alla patrimonialita' del danno
dovrebbe essere inteso come attinente alla quantificazione monetaria
del pregiudizio subito e non all'individuazione della natura
giuridica di esso (e' richiamata la sentenza n. 355 del 2010).
Per altro verso, posto che la responsabilita' amministrativa,
rispetto alle altre forme di responsabilita' previste
dall'ordinamento, presenta una peculiare connotazione data
dall'accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli
risarcitori (sono richiamate le sentenze n. 355 del 2010, n. 453 e n.
371 del 1998), la responsabilita' qui considerata assumerebbe anche
natura sanzionatoria.
Pertanto, considerata la natura anche punitiva della condanna al
risarcimento, secondo l'interveniente la fissazione di un criterio di
determinazione del quantum dovuto per la violazione posta in essere
dal dipendente risulterebbe ragionevole e in armonia con un sistema
che guarda all'efficienza dell'azione amministrativa.
La disposizione impugnata non prescinderebbe, invero,
dall'identificazione di un puntuale pregiudizio arrecato
all'amministrazione danneggiata, ma, a monte, tenderebbe a porre
riparo a un comportamento contraddistinto da un elevato livello di
offensivita', prevedendo un minimo di danno in considerazione del
fatto che la stessa sussistenza della violazione rappresenterebbe un
fatto grave, che il legislatore delegato ha inteso in ogni caso
sanzionare secondo un minimo ragionevolmente stabilito.
Si tratterebbe di una violazione presuntivamente grave che non
precluderebbe, peraltro, dato un minimo di condanna in ragione del
vulnus che il comportamento illecito in se' comporta, una valutazione
giudiziale di proporzionalita' in relazione alla fattispecie
concreta, tanto che lo stesso art. 55-quater, comma 3-quater del
d.lgs. n. 165 del 2001, presuppone sempre una valutazione equitativa
del giudice nel caso di condotte che meritino una maggiore condanna
da parte del dipendente.
Pertanto, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri
dovrebbe escludersi che la citata disposizione configuri tout court
un automatismo nell'indicazione del danno minimo risarcibile, ne'
questa potrebbe essere ritenuta irragionevole data anche la
difficolta' di quantificazione di un pregiudizio di tal tipo, vista
la specificita' della sanzione connessa alla gravita' di una condotta
dolosa indubbiamente grave, immediatamente lesiva del vincolo
fiduciario intercorrente non solo tra il lavoratore e la pubblica
amministrazione, quale datore di lavoro, ma anche tra quest'ultima e
l'intera collettivita'.
Inoltre, secondo il Presidente del Consiglio la proporzionalita'
nella quantificazione del danno minimo sarebbe anche assicurata dal
riferimento espresso della disposizione all'ultimo stipendio del
dipendente a cui e' ascritta la violazione, tenuto conto del fatto
che lo stipendio varia in ragione della posizione ricoperta dal
dipendente nell'ambito dell'amministrazione e del rilievo delle
relative mansioni, cui conseguentemente e' ancorata anche la
lesivita' della condotta in relazione al buon andamento e al
prestigio di cui all'art. 97 Cost.
Il danno minimo predefinito cosi' determinato sarebbe congruo
rispetto alla lesione perpetrata dalla condotta infedele,
qualificabile in termini di lesione dei principi di rango
costituzionale ed eurounitario, quali il buon andamento e
l'imparzialita' della pubblica amministrazione, atteso l'alto grado
di discredito sociale che intrinsecamente connota la condotta del
dipendente.
La predeterminazione della misura minima del risarcimento del
danno all'immagine, contenuta nell'art. 55-quater, comma 3-quater,
ultimo periodo, non sarebbe, quindi, manifestamente irragionevole,
poiche' corrisponde alla natura polifunzionale di questa ipotesi di
responsabilita'.
Piu' precisamente, la norma costituirebbe il necessario
riconoscimento a livello di fonte primaria dell'interesse non solo
compensativo, ma anche sanzionatorio, sotteso alla responsabilita'
amministrativa (e' richiamata la pronuncia della Corte di cassazione,
sezioni unite civili, 5 luglio 2017, n. 16601).
In altri termini, si prosegue, la disposizione risulterebbe
costituzionalmente legittima poiche' verrebbe a soddisfare l'esigenza
di esplicitare, mediante la predeterminazione della misura minima del
risarcimento, il carattere al tempo stesso riparatorio e
sanzionatorio della responsabilita' amministrativa per danno
all'immagine, realizzando in questo modo un adeguato contemperamento
tra le diverse funzioni dell'istituto, che non apparirebbe ne'
manifestatamente irragionevole, ne' confliggente con alcuno dei
parametri evocati dal giudice rimettente.
L'episodicita' del comportamento o la sua limitazione ad alcune
ore o a un'unica giornata lavorativa non costituirebbero ragioni
sufficienti per negare la sussistenza di un inadempimento cosi' grave
e le conseguenze, poiche' anche in tali ipotesi non si potrebbe
giustificare chi commette una violazione connotata da un cosi'
peculiare disvalore disciplinare e sociale.
Il limite minimo inderogabile risulterebbe, quindi, conforme al
principio di proporzionalita' riconosciuto nel nostro ordinamento, in
quanto finalizzato a garantire un minimo e giusto equilibrio tra gli
interessi giuridici coinvolti anche in presenza della violazione di
minore offensivita'.
3.- Si e' costituita in giudizio C. S. con memoria spedita a
mezzo posta l'8 maggio 2019 e pervenuta in data 9 maggio 2019.
Considerato in diritto
1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per
l'Umbria, con sentenza non definitiva e ordinanza del 9 ottobre 2018,
pronunciata nel giudizio di responsabilita' promosso dalla Procura
regionale nei confronti di C. S., ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 55-quater, comma 3-quater,
ultimo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche), inserito dall'art. 1, comma 1, lettera
b), del decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116 (Modifiche
all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165,
ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s, della legge 7 agosto
2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare), in
attuazione dell'art. 17, comma 1, lettera s), della legge 7 agosto
2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche), in riferimento all'art. 76 della
Costituzione, nonche' all'art. 3 Cost., anche in combinato disposto
con gli artt. 23 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e
all'art. 4 del Protocollo n. 7 di detta Convenzione, fatto a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge
9 aprile 1990, n. 98.
1.1.- Espone il giudice a quo che la Procura regionale aveva
esercitato l'azione di responsabilita' amministrativa nei confronti
di una dipendente comunale che, per quattro giorni, pur uscendo
effettivamente alle ore 17:00, aveva attestato falsamente la propria
presenza in servizio sino alle ore 18:00.
La Procura regionale aveva contestato alla convenuta un danno
patrimoniale pari a 64,81 euro, derivante dalla percezione indebita
della retribuzione nei periodi per i quali e' mancata la prestazione
lavorativa. Aveva chiesto, inoltre, la condanna al risarcimento del
danno all'immagine, determinato in via equitativa nell'importo di
euro 20.000,00, ai sensi dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del
d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 116 del 2016.
Il rimettente, con sentenza non definitiva, ha ritenuto fondata
l'azione risarcitoria promossa nei confronti della convenuta,
condannandola al risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla
percezione indebita della retribuzione in mancanza di prestazione
lavorativa e, limitatamente all'an debeatur, condannandola altresi' a
risarcire il pregiudizio recato all'immagine della pubblica
amministrazione di appartenenza, ritenendo integrata la condotta di
falsa attestazione della presenza in servizio mediante l'alterazione
dei sistemi di rilevamento e altre modalita' fraudolente, come
previsto dall'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto
dall'art. 69, comma 1, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n.
150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di
ottimizzazione della produttivita' del lavoro pubblico e di
efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), nella
formulazione in vigore al tempo dei fatti in questione.
Con particolare riferimento al danno all'immagine, il giudice a
quo ritiene sussistenti nella fattispecie tutti gli elementi
oggettivi, soggettivi e sociali della posta risarcitoria, avendo
avuto la vicenda risonanza nella stampa locale, come risulterebbe
dagli atti del giudizio.
Osserva poi che le nuove previsioni normative applicabili alla
fattispecie presenterebbero valenza sanzionatoria e deterrente onde
rendere efficace il contrasto dei comportamenti assenteistici.
Sicche', aggiunge, l'azione di responsabilita' contabile,
ontologicamente compensativa, tendendo al ripristino del patrimonio
pubblico danneggiato - come anche riconosciuto dalla Corte europea
dei diritti dell'uomo nella sentenza 13 maggio 2014, Rigolio contro
Italia - subirebbe con la norma impugnata un'evidente «torsione
sanzionatoria» che, comunque, non si presenterebbe, sotto questo
specifico profilo funzionale, costituzionalmente irragionevole, in
considerazione delle condotte che tende a contrastare.
Nondimeno, il giudice a quo ritiene che la quantificazione del
danno all'immagine, come introdotta dalla riforma del 2016,
renderebbe non manifestamente infondate le questioni di legittimita'
costituzionale secondo i seguenti profili.
1.2.- Il giudice a quo ritiene anzitutto violato l'art. 76 Cost.
Espone il rimettente che la norma e' stata introdotta dal
legislatore delegato (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 116 del 2016) in
attuazione dell'art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del
2015, il quale fissa il seguente principio e criterio direttivo:
«introduzione di norme in materia di responsabilita' disciplinare dei
pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e
certo nei tempi di espletamento e di conclusione l'esercizio
dell'azione disciplinare».
Secondo il rimettente, il decreto delegato non avrebbe potuto
incidere sulla disciplina dell'azione di responsabilita'
amministrativa, ne' tanto meno avrebbe potuto porre regole
finalizzate a far assumere ai criteri di computo del danno
all'immagine una valenza sanzionatoria, comunque non confondibile,
sia funzionalmente che strutturalmente, con il procedimento
disciplinare che il legislatore delegato aveva posto a oggetto della
delega.
Anche in ragione della natura di mero «riordino» del decreto
legislativo in materia disciplinare, espressamente prevista dall'art.
17 della legge n. 124 del 2015, secondo il giudice a quo il
legislatore delegato non avrebbe potuto introdurre norme di diritto
sostanziale volte a fissare criteri di liquidazione del danno
all'immagine da falsa attestazione della presenza in servizio,
fissando una soglia sanzionatoria inderogabile nel minimo, che
potrebbe essere sproporzionata rispetto al caso concreto.
1.3.- La Corte dei conti ritiene violato altresi' l'art. 3 Cost.,
anche in combinato disposto con gli artt. 2 e 117, primo comma,
Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU e all'art. 4 del Protocollo
n. 7 di detta Convenzione, in quanto la norma denunciata
obbligherebbe il giudice contabile a infliggere una condanna
sanzionatoria senza tener conto dell'offensivita' in concreto della
condotta posta in essere.
L'obbligatorieta' del minimo sanzionatorio, imponendo al giudice
di condannare il responsabile nella misura non inferiore a sei
mensilita' dell'ultimo stipendio in godimento, gli impedirebbe di
dare rilevanza ad altre circostanze peculiari e caratterizzanti il
caso concreto, anche in presenza di condotte marginali e tenui che
avessero prodotto un pregiudizio minimo, violando sia il principio di
proporzionalita' che quello della gradualita' sanzionatoria.
2.- Anzitutto deve essere dichiarata inammissibile la
costituzione in giudizio di C. S., avvenuta con atto spedito a mezzo
posta l'8 maggio 2019 e pervenuto in data 9 maggio 2019, in quanto il
termine di venti giorni previsto dall'art. 3 delle Norme integrative
per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, computato dalla
pubblicazione dell'ordinanza sulla Gazzetta ufficiale del 27 dicembre
2018, n. 51, scadeva il 16 gennaio 2019.
3.- Giova poi riassumere sinteticamente il quadro normativo, sia
in relazione alla piu' generale fattispecie del danno all'immagine,
sia in riferimento alla specifica configurazione di quello causato da
indebite assenze realizzate mediante l'alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza in servizio o con altre modalita'
fraudolente.
3.1.- Il danno all'immagine, frutto di un'elaborazione
giurisprudenziale del giudice contabile come categoria particolare
del danno erariale, ha trovato una sua normazione con l'art. 17,
comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti
anticrisi, nonche' proroga di termini), convertito, con
modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato, in
pari data, dall'art. 1, comma 1, lettera c), numero 1), del
decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del
decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito, con
modificazioni, nella legge 3 ottobre 2009, n. 141 (Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103,
recante disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del
2009).
Stabilisce il citato art. 17, comma 30-ter, che «[l]e procure
della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del
danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7
della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento
penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale
nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale
ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2
dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e' sospeso fino
alla conclusione del procedimento penale [...]».
L'art. 7 della legge n. 97 del 2001 prevedeva che «[l]a sentenza
irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti
indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica
amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo
del codice penale e' comunicata al competente procuratore regionale
della Corte dei conti affinche' promuova entro trenta giorni
l'eventuale procedimento di responsabilita' per danno erariale nei
confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall'articolo
129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28
luglio 1989, n. 271».
Tale fattispecie e' stata identificata da questa Corte come
«danno derivante dalla lesione del diritto all'immagine della p.a.
nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa ha di se' in
conformita' al modello delineato dall'art. 97 Cost.» (sentenza n. 355
del 2010).
In ordine alla tipizzazione delle fattispecie di danno
all'immagine e' stato anche affermato che «il legislatore non [ha]
inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a
favore di altra giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria,
bensi' circoscrivere oggettivamente i casi in cui e' possibile, sul
piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno
in presenza della lesione dell'immagine dell'amministrazione
imputabile a un dipendente di questa. In altri termini, non e'
condivisibile una interpretazione della normativa censurata nel senso
che il legislatore abbia voluto prevedere una responsabilita' nei
confronti dell'amministrazione diversamente modulata a seconda
dell'autorita' giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine alla
domanda risarcitoria. La norma deve essere univocamente interpretata,
invece, nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente
previste di responsabilita' per danni all'immagine dell'ente pubblico
di appartenenza, non e' configurabile siffatto tipo di tutela
risarcitoria» (sentenza n. 355 del 2010).
Successivamente, l'art. 51, comma 7, del decreto legislativo 26
agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi
dell'articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), ha previsto che
«[l]a sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonche' degli
organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a
danno delle stesse, e' comunicata al competente procuratore regionale
della Corte dei conti affinche' promuova l'eventuale procedimento di
responsabilita' per danno erariale nei confronti del condannato.
Resta salvo quanto disposto dall'articolo 129 delle norme di
attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura
penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271».
Inoltre, l'art. 4, comma 1, lettera g), dell'allegato 3 (Norme
transitorie e abrogazioni) al medesimo codice di giustizia contabile
ha abrogato l'art. 7 della legge n. 97 del 2001. Sul punto, tuttavia,
questa Corte ha affermato che «il giudice a quo non ha vagliato la
possibilita' che il dato normativo di riferimento legittimi
un'interpretazione secondo cui, nonostante l'abrogazione dell'art. 7
della legge n. 97 del 2001, che si riferisce ai soli delitti dei
pubblici ufficiali contro la PA, non rimanga privo di effetto il
rinvio ad esso operato da parte dell'art. 17, comma 30-ter, del d.l.
n. 78 del 2009, e non si e' chiesto se si tratta di rinvio fisso o
mobile. L'ordinanza, quindi, trascura di approfondire la natura del
rinvio, per stabilire se e' tuttora operante o se, essendo venuto
meno, la norma di riferimento e' oggi interamente costituita dal
censurato art. 51, comma 7» (sentenza n. 191 del 2019).
Ancora, la Corte europea dei diritti dell'uomo, con la sentenza
13 maggio 2014, nella causa Rigolio contro Italia, nel respingere il
ricorso ha affermato che il giudizio di responsabilita'
amministrativa davanti alla Corte dei conti per danno all'immagine
cagionato all'amministrazione non attiene a un'accusa penale ai sensi
dell'art. 6 della Convenzione (paragrafi 38 e 46) e che, pertanto,
non puo' essere applicato, nella fattispecie, il paragrafo 3 dello
stesso art. 6. Analogamente, non sono state accolte le censure
formulate in riferimento all'art. 7 della CEDU e all'art. 2 del
Protocollo 7, sulla base della considerazione che la somma che il
ricorrente e' stato condannato a pagare ha natura di risarcimento e
non di pena (paragrafo 46).
3.2.- Relativamente alla particolare fattispecie del danno
all'immagine prodotto in conseguenza di indebite assenze dal
servizio, l'art. 7 (Principi e criteri in materia di sanzioni
disciplinari e responsabilita' dei dipendenti pubblici) della legge 4
marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all'ottimizzazione
della produttivita' del lavoro pubblico e alla efficienza e
trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonche' disposizioni
integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale
dell'economia e del lavoro e alla Corte dei conti), stabiliva al
comma 1, primo periodo, che «[l]'esercizio della delega nella materia
di cui al presente articolo e' finalizzato a modificare la disciplina
delle sanzioni disciplinari e della responsabilita' dei dipendenti
delle amministrazioni pubbliche ai sensi dell'articolo 55 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e delle norme speciali vigenti in
materia, al fine di potenziare il livello di efficienza degli uffici
pubblici contrastando i fenomeni di scarsa produttivita' ed
assenteismo». Il comma 2 di tale disposizione disponeva che,
nell'esercizio della delega di cui al citato articolo, il Governo si
attenesse ai seguenti principi e criteri direttivi: «[...] lettera e)
prevedere, a carico del dipendente responsabile, l'obbligo del
risarcimento del danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a
titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la
mancata prestazione, nonche' del danno all'immagine subito
dall'amministrazione».
In attuazione di detta delega, il d.lgs. n. 150 del 2009 ha
introdotto nel d.lgs. n. 165 del 2001 l'art. 55-quinquies (False
attestazioni o certificazioni), secondo cui: «1. Fermo quanto
previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica
amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in
servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della
presenza o con altre modalita' fraudolente, ovvero giustifica
l'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o
falsamente attestante uno stato di malattia e' punito con la
reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro
1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro
concorre nella commissione del delitto. 2. Nei casi di cui al comma
1, il lavoratore, ferme la responsabilita' penale e disciplinare e le
relative sanzioni, e' obbligato a risarcire il danno patrimoniale,
pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per
i quali sia accertata la mancata prestazione, nonche' il danno
all'immagine» subiti dall'amministrazione.
In seguito, l'art. 16 (Procedure e criteri comuni per l'esercizio
di deleghe legislative di semplificazione), comma 1, della legge n.
124 del 2015 ha delegato il Governo ad adottare «[...] decreti
legislativi di semplificazione dei seguenti settori [...] a) lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di
organizzazione amministrativa». Quindi, l'art. 17 (Riordino della
disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche), comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015 ha
previsto che «[i] decreti legislativi per il riordino della
disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche e connessi profili di organizzazione amministrativa sono
adottati [...] nel rispetto dei seguenti principi e criteri
direttivi, che si aggiungono a quelli di cui all'articolo 16: [...]
s) introduzione di norme in materia di responsabilita' disciplinare
dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto
e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l'esercizio
dell'azione disciplinare [...]».
In attuazione di tale delega l'art. 1, comma 1, lettera b), del
d.lgs. n. 116 del 2016 ha inserito il comma 3-quater all'art.
55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede che, nel caso
in cui la falsa attestazione della presenza in servizio, mediante
l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre
modalita' fraudolente (comma 1, lettera a), sia accertata in
flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di
registrazione degli accessi o delle presenze (comma 3-bis), la
denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente
procura regionale della Corte dei conti avvengono entro quindici
giorni dall'avvio del procedimento disciplinare. La procura della
Corte dei conti, quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a
dedurre per danno d'immagine entro tre mesi dalla conclusione della
procedura di licenziamento. L'azione di responsabilita' e'
esercitata, con le modalita' e nei termini di cui all'art. 5 del
decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di
giurisdizione e controllo della Corte dei conti) - convertito, con
modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19 - entro i
centoventi giorni successivi alla denuncia, senza possibilita' di
proroga. L'ammontare del danno risarcibile e' rimesso alla
valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza
del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna
non puo' essere inferiore a sei mensilita' dell'ultimo stipendio in
godimento, oltre interessi e spese di giustizia.
Questa Corte, con sentenza n. 251 del 2016, ha dichiarato
l'illegittimita' costituzionale, tra l'altro, dell'art. 17, comma 1,
lettera s), della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui, in
combinato disposto con l'art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge,
prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi
attuativi previo parere in sede di Conferenza unificata, anziche'
previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. La medesima
sentenza ha precisato inoltre che «[l]e pronunce di illegittimita'
costituzionale, contenute in questa decisione, sono circoscritte alle
disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto del
ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative. Nel
caso di impugnazione di tali disposizioni, si dovra' accertare
l'effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle
soluzioni correttive che il Governo riterra' di apprestare al fine di
assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione».
In seguito, il Governo, nell'ambito dei decreti legislativi
adottati dopo aver acquisito l'intesa in sede di Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province
autonome di Trento e Bolzano - al fine di porre rimedio al vizio
accertato dalla sentenza n. 251 del 2016 - con il decreto legislativo
20 luglio 2017, n. 118 (Disposizioni integrative e correttive al
decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116, recante modifiche
all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165,
ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s, della legge 7 agosto
2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare), ha previsto
all'art. 1 che «[i]l decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116, e'
modificato e integrato secondo le disposizioni del presente decreto.
Per quanto non disciplinato dal presente decreto, restano ferme le
disposizioni del decreto legislativo n. 116 del 2016» e, all'art. 5
(Disposizioni finali), che «[s]ono fatti salvi gli effetti gia'
prodotti dal decreto legislativo n. 116 del 2016».
Infine, deve evidenziarsi che, con altro analogo precedente
provvedimento (art. 16, comma 1, lettera a, del decreto legislativo
25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi
1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere
a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7
agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche»), e' stato modificato anche l'art.
55-quinquies del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilendo che «al comma 2,
le parole "il danno all'immagine subiti dall'amministrazione" sono
sostituite dalle seguenti: "il danno d'immagine di cui all'articolo
55-quater, comma 3-quater"», in tal modo uniformando pro futuro la
fattispecie del danno all'immagine considerata dai due articoli,
attraverso la regola gia' introdotta con il precedente d.lgs. n. 116
del 2016.
L'ulteriore fattispecie di danno erariale introdotta con l'art.
1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016, enucleata da
quella piu' generale gia' prevista dall'art. 55-quater, presenta
indubbi aspetti peculiari, in ragione del venir meno della cosiddetta
pregiudizialita' penale - in quanto sono dettate disposizioni che
impongono al Procuratore presso la Corte dei conti di agire
sollecitamente entro ristrettissimi tempi, senza attendere ne'
l'instaurazione del processo penale ne' la sentenza che lo definisce
- nonche' della predeterminazione legislativa di criteri per la
determinazione del danno in via equitativa, salva la fissazione di un
minimo risarcibile pari a sei mensilita' dell'ultimo stipendio
percepito dal responsabile.
4.- Tanto premesso, la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n. 165 del 2001,
inserito dall'art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del
2016, sollevata in riferimento all'art. 76 Cost., e' fondata.
4.1.- A differenza di quanto avvenuto con la precedente legge n.
15 del 2009, laddove il legislatore aveva espressamente delegato il
Governo a prevedere, a carico del dipendente responsabile, l'obbligo
del risarcimento sia del danno patrimoniale che del danno
all'immagine subiti dall'amministrazione, tanto non si rinviene nella
legge di delegazione n. 124 del 2015.
L'art. 17, comma 1, lettera s), di detta legge prevede unicamente
l'introduzione di norme in materia di responsabilita' disciplinare
dei pubblici dipendenti, finalizzate ad accelerare e rendere concreto
e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l'esercizio
dell'azione disciplinare.
Tale particolare disposizione di delega, come risulta dagli atti
preparatori, non era presente nel testo iniziale del disegno di legge
(A.S. n. 1577), ma e' stata introdotta con emendamento (n. 13.500)
del relatore nel corso dell'esame in Senato. Nella discussione
parlamentare la questione della responsabilita' amministrativa non
risulta essere mai stata oggetto di trattazione.
Quindi, la materia delegata e' unicamente quella attinente al
procedimento disciplinare, senza che possa ritenersi in essa
contenuta l'introduzione di nuove fattispecie sostanziali in materia
di responsabilita' amministrativa.
Deve essere ulteriormente sottolineato che detta delega e'
ricompresa in una piu' ampia, diretta a dettare norme di
semplificazione. In tale contesto e' particolarmente significativa
l'espressa prescrizione (art. 16, comma 2, della legge n. 124 del
2015) che, «[n]ell'esercizio della delega di cui al comma 1, il
Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi generali:
a) elaborazione di un testo unico delle disposizioni in ciascuna
materia, con le modifiche strettamente necessarie per il
coordinamento delle disposizioni stesse, salvo quanto previsto nelle
lettere successive; b) coordinamento formale e sostanziale del testo
delle disposizioni legislative vigenti, apportando le modifiche
strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e
sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare
il linguaggio normativo; [...]», in tal modo lasciando al legislatore
delegato ridottissimi margini innovativi, tanto che, nella fissazione
degli ulteriori principi e criteri direttivi (come previsto dall'art.
16, comma 3), il successivo art. 17 definisce i decreti delegati come
espressamente finalizzati al «riordino della disciplina in materia di
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche».
In proposito, questa Corte ha affermato piu' volte che, in quanto
delega per il riordino, essa concede al legislatore delegato un
limitato margine di discrezionalita' per l'introduzione di soluzioni
innovative, le quali devono comunque attenersi strettamente ai
principi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante
(ex multis, sentenze n. 94, n. 73 e n. 5 del 2014, n. 80 del 2012, n.
293 e n. 230 del 2010).
Non puo' dunque ritenersi compresa la materia della
responsabilita' amministrativa e, in particolare, la specifica
fattispecie del danno all'immagine arrecato dalle indebite assenze
dal servizio dei dipendenti pubblici.
4.2.- La disposizione in esame, gia' testualmente richiamata,
prevede una nuova fattispecie di natura sostanziale intrinsecamente
collegata con l'avvio, la prosecuzione e la conclusione dell'azione
di responsabilita' da parte del procuratore della Corte dei conti.
Applicando ad essa il criterio di stretta inerenza alla delega
precedentemente enunciato, risulta inequivocabile il suo contrasto
con l'art. 76 Cost.
Sebbene le censure del giudice rimettente siano limitate
all'ultimo periodo del comma 3-quater dell'art. 55-quater, che
riguarda le modalita' di stima e quantificazione del danno
all'immagine, l'illegittimita' riguarda anche il secondo e il terzo
periodo di detto comma perche' essi sono funzionalmente inscindibili
con l'ultimo, cosi' da costituire, nel loro complesso, un'autonoma
fattispecie di responsabilita' amministrativa non consentita dalla
legge di delega.
5.- Devono essere, dunque, dichiarati costituzionalmente
illegittimi il secondo, terzo e quarto periodo del comma 3-quater
dell'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, come introdotto
dall'art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016.
Restano assorbiti i rimanenti profili di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la costituzione di C.S. nel giudizio di
legittimita' costituzionale di cui in epigrafe;
2) dichiara l'illegittimita' costituzionale del secondo, terzo e
quarto periodo del comma 3-quater dell'art. 55-quater del d.lgs. n.
165 del 2001, come introdotto dall'art. 1, comma 1, lettera b), del
d.lgs. n. 116 del 2016.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 2020.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente
e Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 aprile 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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