Corte d’Appello 2023- mancata sottoposizione al vaccino per la prevenzione dell'infezione da SarsCov-2.
Corte d'Appello Milano Sez. lavoro, Sent., 03-11-2023
Fatto - Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D'APPELLO DI MILANO
SEZIONE LAVORO
composta dai magistrati
Dott.ssa Monica Vitali - Presidente
Dott.ssa Benedetta Pattumelli - Consigliere rel.
Avv.to Daniela Macaluso - Consigliere G.A.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile in grado di appello avverso la sentenza del Tribunale di COMO n. 249/2022, estensore giudice DOTT.SSA GIULIA RACHELE BIGNAMI discussa all'udienza del 23.10.2023 e promossa da:
x
APPELLANTE
CONTRO
x
APPELLATA
I procuratori delle parti, come sopra costituiti, così precisavano le
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con atto depositato il 10.5.2023, R.M. proponeva impugnazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, mediante la quale il TRIBUNALE di COMO aveva respinto, a spese compensate, il ricorso, dalla stessa presentato contro la x (di seguito, la "X") onde sentire accertare l'illegittimità della sospensione dalla prestazione e dalla retribuzione, disposta nei suoi confronti con decorrenza dal 23 luglio 2021 per mancata sottoposizione al vaccino per la prevenzione dell'infezione da SarsCov-2.
A sostegno di tale domanda, era stato denunciato il contrasto del provvedimento datoriale con il disposto dell'art. 4 del D.L. n. 44 del 2021, vigente al momento dei fatti.
La ricorrente in primo grado aveva chiesto che la datrice di lavoro fosse, conseguentemente, condannata a versarle la retribuzione a reintegrarla nella mansione a tutti gli effetti, con ripristino di ogni diritto connesso alla prestazione lavorativa, nonché a risarcirle in via equitativa il danno patito, in misura non inferiore al 50% della retribuzione.
Il primo Giudice aveva ritenuto che l'impugnata sospensione fosse stata disposta dal datore di lavoro, non solo in applicazione dell'art. 4 del D.L. n. 44 del 2023, ma anche in forza degli obblighi di protezione posti a carico del datore di lavoro dall'art. 2087 c.c., i quali consentivano di superare le censure di errata applicazione della procedura di cui alla citata normativa di carattere speciale.
Secondo il TRIBUNALE, infatti, il D.L. n. 44 del 2021 era stato preceduto dal D.L. n. 23 del 2020, convertito con L. n. 40 del 2020, rimasto in vigore, il cui art. 29 bis aveva regolato i doveri datoriali di sicurezza in relazione all'emergenza sanitaria, imponendo, con espresso richiamo all'art. 2087, c.c., "l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del D.L. 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste" o, comunque, delle misure "contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale".
Secondo la sentenza, tale disposizione normativa non aveva limitato l'obbligo di cui all'art. 2087, c.c., alle prescrizioni contenute nei protocolli, gravando - in ogni caso - sul datore di lavoro il dovere di predisporre tutte le misure e cautele idonee a preservare l'integrità psico-fisica dei lavoratori in relazione alla specifica situazione di pericolosità.
A sostegno di tale affermazione, erano state richiamate nella motivazione le disposizioni dettate dal D.Lgs. n. 81 del 2008, riguardante i doveri di protezione e sicurezza sui luoghi di lavoro, comprensivi della tutela rispetto ad agenti di rischio esterni (quale il virus SarsCov-2).
Tali obblighi includevano, ad avviso del TRIBUNALE, l'adozione delle più idonee misure di protezione, inclusa la richiesta di completamento del ciclo vaccinale, a maggior ragione con riferimento alle attività lavorative che potevano coinvolgere - come nel caso di specie - terzi particolarmente fragili.
Secondo il primo Giudice, ne era derivata la necessità di un bilanciamento fra il diritto del lavoratore alla libertà di cura e quello alla salute di colleghi e di terzi, entrambi costituzionalmente tutelati.
Con un primo, articolato motivo di gravame l'appellante lamentava che il TRIBUNALE avesse individuato nell'art. 2087, c.c., il fondamento normativo del provvedimento di sospensione, il quale era stato, invece, motivato dalla X con esclusivo riferimento alla sua mancata vaccinazione.
R. rimproverava, poi, al primo Giudice, di non avere considerato - nella motivazione della sentenza - le possibili alternative alla sospensione, come prospettate dal medico competente, nel documento datato 29/3/2021, con riguardo al personale "no vax" addetto - come lei - agli uffici.
Si trattava, in particolare, di misure quali il distanziamento, l'assenza di contatto con ospiti e personale sanitario, i periodici tamponi molecolari, l'uso di mascherine FFP2 e di tutti i DPI presenti in struttura.
L'appellante di doleva, altresì, della mancata valutazione, ad opera del Tribunale, delle deduzioni istruttorie, svolte nel ricorso di primo grado onde provare la possibile attuazione di condizioni idonee al mantenimento della mansione, senza necessità di sospensione.
Con il secondo motivo, si denunciava il vizio di ultrapetizione, nel quale il primo Giudice sarebbe incorso - ad avviso di R. - per avere integrato il provvedimento datoriale con motivazioni estranee al suo contenuto, riferito esclusivamente alla mancata vaccinazione, cui la stessa negava di essere stata obbligata, e non già all'obbligo di sicurezza ex art. 2087, c.c..
Pertanto, l'appellante chiedeva che la Corte d'Appello, in riforma della gravata sentenza, accogliesse le domande, dalla stessa avanzate in primo grado, con vittoria di spese di entrambe le fasi processuali.
L'appellata resisteva mediante memoria depositata il 6.9.2023, chiedendo il rigetto dell'impugnazione avversaria, della quale contestava integralmente la fondatezza, e la conferma della decisione di primo grado; in subordine, la X domandava che, in caso di riforma, anche parziale, della gravata sentenza e di annullamento del provvedimento di sospensione, se ne limitasse l'efficacia con decorrenza dal 10.10.2021, data di estensione dell'obbligo vaccinale al personale non sanitario delle RSA, ai sensi dell'art. 4 bis D.L. n. 44 del 2021.
In ogni caso, l'appellata invocava il favore delle spese e dei compensi professionali.
All'udienza del 18.9.2023, veniva disposto rinvio onde consentire alle parti la valutazione di un'ipotesi conciliativa.
Non essendosi questa concretizzata, all'udienza del 23.10.2023 la causa veniva decisa come da dispositivo in calce trascritto.
L'appello è solo in parte fondato e merita, pertanto, accoglimento entro i limiti ed in virtù dei motivi di seguito esposti.
L'evoluzione normativa della materia, valutata unitamente alle allegazioni probatorie compiute dalle parti, consente di ritenere legittima la sospensione disposta nei riguardi dell'odierna appellante, limitatamente al periodo successivo all'estensione dell'obbligo vaccinale al personale non sanitario delle RSA, stabilita dall'art. 4 bis D.L. n. 44 del 2021, con decorrenza dal 10.10.2021.
E’ pacifico, infatti, che R., impiegata amministrativa della X, sia stata sospesa il 23.7.2021, nella vigenza del testo originario del citato D.L., il quale - all'art. 4 - limitava tale obbligo ai soli "esercenti le professioni sanitarie" ed "operatori di interesse sanitario", operanti in analoghe strutture pubbliche e private.
Il provvedimento datoriale è stato originato dalla dichiarazione di inidoneità alla mansione, compiuta dal medico competente con certificato del 21.6.2021, "in applicazione del D.L. del 1 aprile 2021, n. 44 art. 4 relativo al contenimento dell'epidemia COVID 19" (doc. 1, conv. I gr., invano impugnato avanti all'ATS, dichiaratasi incompetente trattandosi di materia regolata dal D.L. n. 44 del 2021).
La sospensione è stata motivata con espresso riferimento allo "stato di non vaccinazione anti COVID-19" della dipendente e alla "impossibilità di attuare le misure alternative previste e consigliate dal medico competente, ovvero: non venire a contatto con gli ospiti e il personale sanitario, osservare la distanza minima di 1 mt. dagli altri colleghi, adibirla a mansioni differenti, anche inferiori e che, comunque non implichino rischi di diffusione del contagio".
Sono stati altresì menzionati nel provvedimento "i doveri di protezione nei confronti degli ospiti e del personale, discendenti dall'art. 2087, c.c." (doc. 6, ric. I gr.).
Nessuna delle ragioni così espresse risulta idonea a sorreggere il provvedimento al momento della sua emanazione.
Non la mancata vaccinazione, non trovando il relativo obbligo all'epoca applicazione al personale amministrativo, al quale apparteneva R..
Quando ai richiamati doveri di tutela della salute di ospiti e dipendenti, le deduzioni svolte a fini probatori dalla X in primo grado appaiono del tutto inidonee a dimostrare la sussistenza, in concreto, dei paventati rischi e dell'impossibilità di osservanza delle prescrizioni dettate al riguardo dal medico competente.
Quest'ultimo, infatti, con il piano sanitario adottato il 29.3.2021, aveva stabilito che "per quanto riguarda il personale NO VAX di cucina e degli uffici, per poter espletare le loro mansioni sono sottoposti alle seguenti prescrizioni: non devono venire a contatto con gli ospiti, il personale sanitario; devono essere distanziati di almeno 1 mt. dagli altri colleghi; devono eseguire un tamponemolecolare ogni 5 gg, usare sempre mascherine FFP2, usare sempre tutti i DPI presenti in struttura" (doc. 5, ric. I gr.).
A fronte delle specifiche deduzioni svolte da R., nell'atto introduttivo del giudizio, in ordine all'attuazione di tali prescrizioni e alla costante "aereazione dei locali" di lavoro (v. capp. 2 - 4 ric. I gr.), la X si è limitata a generiche affermazioni in ordine all'impraticabilità del costante distanziamento "nei locali della zona uffici", prive dei necessari concreti riferimenti alle dimensioni e alle caratteristiche degli stessi, all'infuori delle indicazioni quantitative secondo cui le "quattro impiegate amministrative" operavano in due locali.
Siffatta distribuzione avrebbe, a maggior ragione, imposto precise allegazioni in ordine alla superficie degli uffici, tale da spiegare le ragioni - non certo intuitive - per cui due impiegate per ogni stanza non potessero rispettare il distanziamento di un metro, prescritto dal citato piano sanitario.
A tali allegazioni seguiva un ultimo capitolo di prova (il n. 4), secondo cui "tutti i locali diversi da quelli situati nella zona uffici, si trovano in aree della struttura frequentate da ospiti e operatori sociosanitari", irrilevante ai fini della decisione, in mancanza di deduzioni sulla presenza di R. al di fuori dell'area riservata all'amministrazione, cui la stessa era pacificamente adibita.
Del tutto correttamente il primo Giudice non ha dato corso all'istruttoria testimoniale su tali deduzioni, in quanto prive delle indispensabili caratteristiche di specificità e rilevanza.
Non sono, quindi, ravvisabili idonei elementi di prova in ordine alle esigenze di tutela addotte dalla X a sostegno della sospensione applicata a R..
L'illegittimità del provvedimento all'epoca della sua emanazione non preclude, tuttavia, l'esame della successiva evoluzione del rapporto, costituendo questo - e non già il mero atto datoriale in sé considerato - l'oggetto dell'accertamento demandato al Giudice nel presente procedimento.
La mancata vaccinazione - pacificamente protrattasi - è, infatti, divenuta incompatibile con la prestazione lavorativa con l'entrata in vigore del citato art. 4 bis, come inserito dall'art. 2 - bis, comma 1, D.L. 6 agosto 2021, n. 111, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 settembre 2021, n. 133, rubricato "estensione dell'obbligo vaccinale ai lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie".
Secondo tale disposizione, infatti, "dal 10 ottobre 2021 e fino al 1 novembre 2022, l'obbligo vaccinale previsto dall'articolo 4, comma 1, si applica altresì a tutti i soggetti, anche esterni, che svolgono, a qualsiasi titolo, la propria attività lavorativa nelle strutture di cui all'articolo 1 - bis, incluse le strutturesemiresidenziali e le strutture che, a qualsiasi titolo, ospitano persone in situazione di fragilità".
A partire dalla data così stabilita dal Legislatore, la sospensione va considerata legittima, senza che rilevi - in senso contrario - la mancata adozione di alcun ulteriore provvedimento tramite la prevista procedura, la quale, come già affermato da questa Corte con sentenza n. 218/2023 (Pres. Est. VITALI), "non ha efficacia costitutiva, ma dichiarativa, in quanto volta ad accertare l'inadempimento all'obbligo vaccinale da parte del personale che ne era tenuto".
Peraltro la X, con la propria mail del 14.10.21 (doc. 6 appellante I gr.) ha espressamente ribadito - alla luce della sopravvenuta innovazione normativa - la sospensione già in atto, rilevando come, nelle more, fosse stato introdotto l'obbligo vaccinale "per tutti i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie" e comunicando a R. che la stessa "pertanto, potrà accedere al luogo di lavoro, previa revoca del citato provvedimento di sospensione" (quello originario del 23.7.21) "unicamente a seguito di assolvimento dell'obbligo vaccinale".
In virtù delle considerazioni tutte che precedono, in parziale riforma della gravata sentenza, va dichiarata l'illegittimità della sospensione disposta nei riguardi di M.R., limitatamente al periodo decorso dal 23.7.2021 al 9.10.2021 e la X va, per l'effetto, condannata al pagamento delle retribuzioni maturate durante tale arco temporale e al ripristino della posizione della dipendente ad ogni ad ogni fine giuridico ed economico.
Non sussistono, invece, gli estremi per l'accoglimento dell'avanzata domanda risarcitoria, in difetto di specifica deduzione e prova di alcun pregiudizio ulteriore rispetto alla perdita della retribuzione, in ordine al quale manca nel ricorso di primo grado qualsiasi allegazione.
La reciproca soccombenza integra, ad avviso della Corte, idoneo presupposto per l'integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio fra le parti.
P.Q.M.
in parziale riforma della sentenza del Tribunale di COMO n. 249/2022, dichiara l'illegittimità della sospensione disposta nei riguardi di M.R. limitatamente al periodo decorso dal 23.7.2021 al 9.10.2021 e per l'effetto condanna X A.B. PER I. E A. ONLUS al pagamento delle retribuzioni maturate nel corso dello stesso e al ripristino della sua posizione ad ogni ad ogni fine giuridico ed economico;
spese del doppio grado compensate.
Così deciso in Milano, il 23 ottobre 2023.
Depositata in Cancelleria il 3 novembre 2023.
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