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martedì 23 aprile 2013

Ministero del lavoro e delle politiche sociali Lett.Circ. 22-4-2013 n. 37/0007258 L. n. 92/2012 - Vademecum. Emanata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Direzione generale per l'attività ispettiva.


Ministero del lavoro e delle politiche sociali
Lett.Circ. 22-4-2013 n. 37/0007258
L. n. 92/2012 - Vademecum.
Emanata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Direzione generale per l'attività ispettiva.
Lett.Circ. 22 aprile 2013, n. 37/0007258 (1).
L. n. 92/2012 - Vademecum.
(1) Emanata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Direzione generale per l'attività ispettiva.

A seguito dell'incontro tenutosi il 7 e l'8 febbraio u.s., organizzato dalla Direzione generale per l'Attività Ispettiva e dal Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Consulenti del Lavoro - cui hanno partecipato i Dirigenti delle strutture territoriali e i Presidenti provinciali degli Ordini - si ritiene opportuno rappresentare alcuni orientamenti interpretativi condivisi nel corso del dibattito.
Ciò al fine di meglio orientare i comportamenti sia del personale ispettivo che dei professionisti, in fase di applicazione della disciplina contenuta nella L. n. 92/2012.


Il Direttore generale per l'attività ispettiva
Dott. Paolo Pennesi

Allegato


Vademecum riforma lavoro


Contratto a tempo determinato


1) Qual è il significato da attribuire alla disposizione di cui all'art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001, come modificato dall'art. 1, comma 9, lett. a), L. n. 92/2012, in virtù della quale "il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro"?


In forza del suddetto disposto normativo, qualora nell'ambito di una determinala tipologia contrattuale di natura subordinata, non si riscontrino gli elementi di specialità previsti dal Legislatore - elementi sia di carattere sostanziale che formale - il rapporto di lavoro deve essere ricondotto necessariamente alla "forma comune" e cioè al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.


2) Quando può essere stipulato il contratto a termine "acausale", ovvero senza la necessaria individuazione delle ragioni giustificatrici ex art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001, di durata non superiore ai dodici mesi?


Il contratto a termine "acausale" di durata non superiore a dodici mesi può essere stipulato esclusivamente nelle ipotesi in cui non siano intercorsi tra il medesimo datore di lavoro e lavoratore precedenti rapporti di lavoro di natura subordinata (ad es. un precedente contratto a tempo determinato o indeterminato ovvero intermittente).
Diversamente, nel caso di pregressi rapporti di lavoro di natura autonoma tra i medesimi soggetti, si ritiene possibile la stipulazione di un primo contratto a termine "acausale".


3) È possibile la proroga del primo contratto a termine "acausale"?


Si ribadisce che il primo contratto a termine acausale non può avere una durata superiore a dodici mesi e laddove venga stipulato per un periodo inferiore, lo stesso non è prorogabile, né tantomeno risulta possibile stipulare un nuovo contratto a termine acausale per il restante periodo fino al raggiungimento dei dodici mesi. Ad esempio, se il primo rapporto a termine acausale ha una durata di 3 mesi, in caso di successiva assunzione a tempo determinato del medesimo lavoratore risulta necessario indicare le ragioni che giustificano l'apposizione del termine ossia quelle integranti il c.d. causalone.


4) È possibile fruire dei "periodi cuscinetto" - non superiori a 30 o 50 giorni, a seconda che il rapporto a termine abbia una durata inferiore oppure pari o superiore a sei mesi - anche nelle ipotesi di primo contratto a termine "acausale"?


Si, è ammessa la possibilità di usufruire, dei c.d. periodi cuscinetto, rispettivamente di 30 e 50 giorni, anche in relazione al primo contratto a termine acausale, evitando in tal modo una trasformazione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato, nel caso di superamento del termine inizialmente fissato. Di conseguenza, la durata massima del primo contratto a termine acausale, nell'ipotesi di fruizione del c.d. periodo cuscinetto, è pari complessivamente a 12 mesi e 50 giorni.


5) In caso di prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro oltre il termine originariamente fissato nonché nel caso di superamento dei c.d. periodi cuscinetto pari 30 o 50 giorni, risulta applicabile la disciplina sanzionatoria fissata ex art. 19, D.Lgs. n. 276/2003 nell'ipotesi di mancata o tardiva comunicazione di tale circostanza ai competenti centri per l'impiego ex 5, comma 2-bis, D.Lgs. n. 368/2001?


No, in entrambi casi. Sebbene il Legislatore della riforma abbia sancito con l'art. 5, comma 2-bis, un nuovo obbligo comunicazionale in capo al datore di lavoro nelle ipotesi di prosecuzione del rapporto, la mancata e/o tardiva comunicazione non produce alcuna conseguenza sul piano sanzionarono in quanto non espressamente prevista.


6) Nel caso in cui il rapporto di lavoro prosegua oltre il termine originariamente fissato, si rinvengono i margini per l'applicazione della maxi sanzione per lavoro nero?


Entro i limiti dei c.d. cuscinetto di 30 e 50 giorni non si rinvengono i margini per l'applicazione della maxi sanzione in quanto tali periodi di "tolleranza" sono considerati coperti ex lege dalla iniziale comunicazione di assunzione.
Diversamente la prestazione di lavoro resa nel periodo successivo allo scadere dei periodi cuscinetto è una prestazione "in nero", rispetto alla quale trovano applicazione le scriminanti di carattere generale descritte con Circ. 12 novembre 2010, n. 38/2010.
La maxi sanzione, pertanto, trova applicazione a partire rispettivamente dal 31esimo e dal 51esimo giorno salvo il riscontro delle citate scriminanti.


7) Il nuovo regime degli intervalli temporali, tra un contratto a tempo determinato ed il successivo, di 60 e 90 giorni in relazione alla durata del contratto scaduto pari o superiore a sei mesi, deve essere rispettato per qualunque tipologia di contratti a termine ovvero subisce delle eccezioni collegate alla causale giustificatrice dell'apposizione del termine?


L'obbligo del rispetto degli intervalli vale per ogni tipologia di contratto a termine, indipendentemente dalla causale applicata anche dunque nell'ipotesi di assunzione per ragioni sostitutive, ivi compresa la c.d. sostituzione per maternità.
L'unica fattispecie per la quale non si impone l'obbligo del rigoroso rispetto del regime degli intervalli temporali è quella concernente l'assunzione del lavoratore in mobilità, in considerazione della peculiarità del contratto e in quanto ipotesi non contemplata dal D.Lgs. n. 368/2001 ma dall'art. 8, comma 2, L. n. 223/1991.


8) Come deve essere interpretata la disposizione di cui all'art. 5, comma 3, D.Lgs. n. 368/2001, che consente la riduzione degli intervalli temporali, in caso di successione di più contratti a termine a venti o trenta giorni, in virtù di apposite previsioni da parte della contrattazione collettiva?


La Circ. 7 novembre 2012, n. 27/2012 ha già chiarito che "gli accordi di livello interconfederale o di categoria - ovvero, in via delegata, a livello decentrato - possono ridurre la durata degli intervalli per esigenze riconducibili a ragioni organizzative qualificate, legate all'avvio di una nuova attività, al lancio di un prodotto o di un servizio innovativo ecc.".
Si evidenzia, inoltre, che la locuzione normativa "ogni altro caso previsto dai contratti collettivi" di qualsiasi livello, consente di ridurre intervalli da parte della contrattazione nazionale, territoriale o aziendale, anche in ipotesi diverse e ulteriori rispetto a quelle legate ai processi organizzativi sopra considerati.
Si precisa, ad ogni modo, che le diverse e ulteriori ipotesi sopra menzionate devono essere specificatamente declinate dalla contrattazione collettiva.


9) Il superamento del periodo massimo di occupazione a tempo determinato, fissato dall'art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, in 36 mesi, che comporta la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, trova applicazione anche con riferimento alla somministrazione di lavoro a termine?


No, la misura "sanzionatoria" della trasformazione in contratto a tempo indeterminato non trova applicazione con riferimento alla successione temporale di più contratti di somministrazione a tempo determinato.
Ciò in quanto, nel caso di contratto di somministrazione, opera l'espressa esclusione prevista dall'art. 22, comma 2, del D.Lgs n. 276/2003 secondo il quale "in caso di somministrazione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alla disciplina di cui al D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, per quanto compatibile, e in ogni caso con esclusione delle disposizioni di cui all'art. 5, commi 3 e seguenti (...)".


10) È possibile, dopo un primo contratto a termine, assumere il medesimo lavoratore con contratto di lavoro intermittente, senza rispettare gli intervalli temporali fissati ex art. 5, comma 3, D.Lgs. n. 368/2001?


Anche se da un punto di vista letterale non risulta una preclusione in tal senso, la condotta, potrebbe integrare la violazione di una norma imperativa (art. 1344, c.c.) e trattandosi di un contratto stipulato in frode alla legge, con conseguente nullità dello stesso e trasformazione del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Contratto intermittente
1) Può essere considerato di natura intermittente un rapporto di lavoro che presenta esigui intervalli temporali tra una prestazione anche di rilevante durata e l'altra?


Il dato normativo non declina in alcun modo la nozione di discontinuità e di intermittenza. Si ritiene dunque possibile stipulare un contratto di lavoro intermittente, in presenza delle causali di carattere oggettivo o soggettivo, anche laddove la prestazione sia resa per periodi di durata significativa.
È la non esatta coincidenza tra la durata della prestazione svolta e la durata del contratto che risulta fondamentale, al fine di individuare i presupposti della discontinuità o intermittenza.


2) Cosa deve intendersi per individuazione dei c.d. periodi predeterminati da parte della contrattazione collettiva sul piano nazionale o territoriale per lo svolgimento delle prestazioni di natura intermittente, ex art. 34, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003?


L'individuazione da parte della contrattazione collettiva nazionale o territoriale di periodi predeterminati in forza dei quali è possibile l'attivazione di rapporti di lavoro intermittenti deve necessariamente riferirsi ad un periodo predeterminato all'interno del contenitore/anno. Ne consegue che non risulta possibile prevedere che il periodo predeterminato sia riferito all'intero anno, ma occorre una precisa declinazione temporale.
Nell'ipotesi di stipulazione di contratto di lavoro intermittente in virtù di una previsione da parte dei contratti collettivi che individuino periodi predeterminati riferiti all'intero anno, lo stesso sarà pertanto considerato quale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.


3) In che modo trova applicazione la sanzione amministrativa contemplata dall'art. 1, comma 21, lett. b), L. n. 92/2012, concernente la mancata comunicazione dell'espletamento della prestazione lavorativa di natura intermittente?


L'art. 1, comma 21, lett. b), della Legge di cui sopra stabilisce che "in caso di violazione degli obblighi di cui al presente comma si applica la sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione. Non si applica la procedura di diffida di cui all'art. 13 del D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124".
Dal dettato normativo si evince che la sanzione in esame trova applicazione con riferimento ad ogni lavoratore e non invece per ciascuna giornata di lavoro per la quale risulti inadempiuto l'obbligo comunicazionale. In sostanza, per ogni ciclo di 30 giornate che individuano la "condotta" del trasgressore, trova applicazione una sola sanzione per ciascun lavoratore.

Apprendistato
1) Come si può ovviare alla mancanza del libretto formativo?


È possibile indicare il percorso formativo svolto anche mediante annotazione dell'attività espletata su un registro del datore di lavoro, senza particolari formalità. Tale registro sarà oggetto di verifica da parte del personale ispettivo, mediante i riscontri di carattere documentale nonché di dichiarazioni dei lavoratori, al fine di constatarne la conformità con il piano formativo individuale dell'apprendista.


2) Quali sono le conseguenze sanzionatorie nel caso in cui si riscontrino violazioni delle disposizioni afferenti al tutor nel contratto di apprendistato?


Si ritiene che le sanzioni connesse a violazioni legate alla presenza di un tutor aziendale siano esclusivamente di natura amministrativa e non necessariamente riverberino effetti automatici sulla genuinità del rapporto di apprendistato.
Di conseguenza, laddove si riscontrino le suddette violazioni non si potrà automaticamente applicare il regime sanzionatorio di cui all'art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 167/2011 per mancata formazione dell'apprendista, in quanto in tali ipotesi appare necessaria la puntuale verifica circa i contenuti e le modalità previste dal contratto collettivo concernenti il ruolo assegnato al tutor (cfr. Circ. 21 gennaio 2013, n. 5/2013).

Lavoro accessorio
1) Quali sono le principali novità introdotte dalla Riforma in ordine al lavoro mediante voucher?


Ai sensi dell'art. 70, D.Lgs. n. 276/2003 è possibile attivare prestazioni di natura occasionale e accessoria tenendo conto esclusivamente del limite di carattere economico. Tale limite, pari a euro 5.000 da considerarsi al netto delle trattenute previste dalla legge, originariamente quantificato in relazione alla attività prestata nei confronti del singolo committente, va riferito oggi al compenso massimo che il lavoratore accessorio può percepire, nel corso dell'anno solare, indipendentemente dal numero dei committenti.
Fermo restando il limite complessivo di euro 5.000 nel corso di un anno solare, il Legislatore stabilisce che "nei confronti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti, le attività lavorative (...) possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente (...)" (cfr. Circ. 18 gennaio 2013, n. 4/2013).


2) Ai fini del riscontro della genuinità dell'utilizzo dei buoni lavoro per prestazioni accessorie occorre verificarne la natura?


No. Ai fini qualificatori risulta determinante unicamente il rispetto del requisito di carattere economico dei 5000 e 2000 euro. Se la prestazione lavorativa è contenuta entro tali limiti, al personale ispettivo non è consentito entrare nel merito delle modalità di svolgimento della prestazione perché ciò finirebbe per vanificare le finalità stesse dell'istituto. In sostanza, se sono corretti i presupposti di instaurazione del rapporto, il Legislatore presume che qualunque prestazione rientrante nei limiti economici sopra descritti sia per definizione occasionale e accessoria, anche se in azienda sono presenti lavoratori che svolgono la medesima prestazione con un contratto di lavoro subordinato.


3) Quali sono le conseguenze in caso di superamento del limite economico previsto dalla legge?


In sede di accertamento ispettivo, ed esclusivamente con riferimento al soggetto committente avente natura di impresa, nel caso di superamento del limite economico si potrà verificare se la prestazione svolta sia riconducibile ad un rapporto di tipo autonomo o subordinato, con eventuali conseguenze sul piano lavoristico e contributivo.

Associazione in partecipazione
1) In quali ipotesi trova applicazione la trasformazione del rapporto di associazione in partecipazione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato?


Ai sensi del novellato art. 2549, c.c., in primo luogo, laddove rapporto dell'associato consista anche in una prestazione di lavoro e il numero degli associati impegnati in una medesima attività sia superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, salvo l'eccezione dei legami familiari. La seconda ipotesi presuntiva si verifica, invece, in caso di rapporti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro instaurati o attuati senza che vi sia stata un'effettiva partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa o dell'affare, ovvero senza consegna del rendiconto previsto dall'art. 2552 del codice civile. Le limitazioni previste dalla nuova normativa si ritiene trovino applicazione esclusivamente laddove l'associato sia una persona fisica e non una impresa. Ciò in quanto in tale ultimo caso l'apporto è prevalentemente di carattere economico imprenditoriale.

Contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto
1) Quali sono le principali novità della Riforma in ordine alla tipologia contrattuale delle collaborazioni a progetto?


Oltre all'eliminazione del "programma" di lavoro o della "fase" di esso, requisito indispensabile ai fini del riconoscimento della genuinità del contratto risulta essere la descrizione di uno specifico progetto funzionalmente collegato ad un determinato risultato finale obiettivamente verificabile.


2) Come deve essere inteso l'art. 61, D.Lgs. n. 276/2003 novellato dalla Riforma nella parte in cui il Legislatore stabilisce che il progetto non può consistere in una mera riproposizione dell'oggetto sociale?


Il progetto gestito autonomamente dal collaboratore non può sinteticamente identificarsi con l'oggetto sociale, ma deve risultare caratterizzato da una sua specificità, compiutezza, autonomia ontologica e predeterminatezza del risultato atteso, in modo da costituire una vera e propria "linea guida" in ordine alle modalità di espletamento dell'obbligazione del collaboratore. Il progetto può dunque rientrare nell'ambito del ciclo produttivo dell'impresa e nel c.d. core business aziendale, ma non può limitarsi a sintetiche e generiche formulazioni standardizzate che identificano la "ragione sociale" descritta nella visura camerale del committente.


3) Il compenso erogato al collaboratore deve essere parametrato al tempo impiegato per la realizzazione del progetto?


No, il compenso viene erogato in relazione al raggiungimento del risultato finale, tuttavia l'elemento temporale rileva ai fini della valutazione circa la congruità dell'importo attribuito al collaboratore sulla base del contratto collettivo di riferimento.
In particolare, il nuovo art. 63, D.Lgs. n. 276/2003 rimanda ai minimi salariali applicati nello specifico settore alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, in forza dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati.
Laddove non si rinvenga una contrattazione per lo specifico settore, a parità di estensione temporale dell'attività oggetto della prestazione, si fa riferimento "alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto".


4) L'elencazione delle attività, di cui alla Circ. 11 dicembre 2012, n. 29/2012, difficilmente inquadrabili nell'ambito di un genuino rapporto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto, ancorché astrattamente riconducibili ad altri rapporti di natura autonoma può costituire una presunzione di subordinazione?


No, tale indicazione opera esclusivamente sotto il profilo della metodologia ispettiva, al fine di orientare e uniformare l'attività di vigilanza, non volendo dunque rappresentare alcun indice presuntivo di carattere generale in ordine ai criteri distintivi tra attività autonoma e subordinata. Ciò che si vuole esprimere con tale elencazione è la non riconducibilità delle attività indicate ad un progetto nelle valutazioni del solo personale ispettivo, ferme restando ovviamente le competenze giudiziali in materia di qualificazione del rapporto di lavoro.

La responsabilità solidale negli appalti
1) Quali sono le novità in materia di responsabilità solidale negli appalti ex art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003, apportate dalla Riforma?


La principale novità introdotta nell'ambito dell'art. 29, comma 2, consiste nella possibilità di introdurre discipline derogatorie alla responsabilità solidale da parte della contrattazione collettiva nazionale.
In proposito, si sottolinea che l'esclusione della responsabilità solidale in forza della deroga operata da parte della contrattazione collettiva nazionale sembrerebbe poter afferire ai trattamenti retributivi e non invece alle obbligazioni previdenziali e assicurative di natura pubblicistica maturate nei confronti degli Istituti, intesi quali soggetti terzi rispetto agli accordi derogatori intercorsi tra le parti sociali. Peraltro, sulla questione può essere invocato anche un principio di carattere generale del nostro ordinamento secondo cui non sembrerebbe consentito alla fonte contrattuale di incidere direttamente sui "saldi" di finanza pubblica.
Su tale orientamento si registrano però riserve da parte del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Consulenti del Lavoro che ritiene preferibile l'interpretazione secondo cui il CCNL non opera come fonte privatistica, ma opera come fonte delegata dal Legislatore con conseguente possibilità, da parte del CCNL, di derogare alla legge anche sotto il profilo previdenziale.


2) La responsabilità solidale in materia di appalti ex art. 29, comma 2, trova applicazione anche con riferimento ai lavoratori autonomi?


La norma utilizza la locuzione "lavoratori" senza distinguere tra le fattispecie di lavoro subordinato o autonomo. Sembrerebbe, pertanto, ragionevole interpretare la disposizione in senso garantista nei confronti di ciascuna tipologia di lavoratori coinvolti nell'esecuzione dell'appalto.
Su tale orientamento ci sono invece riserve da parte del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Consulenti del Lavoro che ritiene preferibile l'interpretazione secondo cui la disciplina è riferibile esclusivamente ai lavoratori subordinati in quanto gli stessi riferimenti contenuti nell'art. 29 richiamano tale tipologia di rapporto (retribuzione, TFR, ecc.).


3) L'art. 29, comma 2, trova applicazione nei confronti del settore pubblico?


Sembrerebbe di no, anche se in tal senso si è registrato qualche pronunciamento di merito. Com'è noto, ai sensi dell'art. 1, comma 2, il D.Lgs. n. 276/2003 non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni e del loro personale.

La procedura conciliativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo
1) Quali sono le conseguenze in caso di mancata presentazione del datore di lavoro nel giorno della convocazione per l'espletamento del tentativo di conciliazione presso la Direzione Territoriale del Lavoro competente per territorio?


Il personale incaricato provvederà a redigere il verbale di mancata presenza e la procedura si considera comunque espletata.


2) È possibile da parte dei datori di lavoro farsi rappresentare in sede di procedura conciliativa?


Si, conferendo apposita delega autenticata conferita a professionisti abilitati a rappresentare il datore di lavoro. Tali professionisti possono essere esclusivamente avvocati e consulenti del lavoro (cfr. Circ. 16 gennaio 2013, n. 3/2013).


3) È possibile presentarsi il giorno della convocazione presso la DTL con un accordo precedentemente raggiunto in sede sindacale?


Si, è possibile che gli Uffici prendano in considerazione l'accordo già raggiunto espletando, tuttavia non solo una funzione notarile ma operando anche una attenta verifica dei presupposti e del contenuto dell'accordo stesso.


4) La procedura conciliativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo trova applicazione anche nelle ipotesi di c.d. licenziamenti ad nutum?


Si ritiene che le fattispecie di libera recedibilità che, com'è noto costituiscono ipotesi eccezionali di risoluzione del rapporto di lavoro in mancanza di qualsivoglia motivo, non rientrino nel campo di applicazione sancito dal novellato art. 7, L. n. 604/1966, che afferisce esclusivamente ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di cui alla seconda parte dell'art. 3 della medesima Legge.
Restano, pertanto, esclusi dalla nuova procedura conciliativa i casi di licenziamento del lavoratore nel periodo di prova, di licenziamento dei dirigenti di azienda, nonché i licenziamenti intimati per superamento del periodo di comporto e il licenziamento dell'apprendista al termine del periodo formativo.

c.c. art. 2549
L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1
D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1
D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 5
D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 22
D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 70
D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 29
D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 61
D.Lgs. 14 settembre 2011, n. 167, art. 7
L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 7

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