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mercoledì 27 marzo 2019

N. 36 SENTENZA 23 gennaio - 6 marzo 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Elezioni - Cariche elettive presso gli enti locali - Sospensione di diritto dalla carica per coloro che abbiano riportato una condanna non definitiva per taluni delitti. - Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), art. 11, comma 1, lettera a) - (GU n.11 del 13-3-2019 )





N. 36 SENTENZA 23 gennaio - 6 marzo 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Elezioni - Cariche elettive presso gli enti  locali - Sospensione  di
  diritto dalla carica per coloro che abbiano riportato una  condanna
  non definitiva per taluni delitti.
- Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.  235  (Testo  unico  delle
  disposizioni  in  materia  di  incandidabilita'  e  di  divieto  di
  ricoprire cariche elettive e  di  Governo  conseguenti  a  sentenze
  definitive  di  condanna  per  delitti   non   colposi,   a   norma
  dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre  2012,  n.  190),
  art. 11, comma 1, lettera a)


(GU n.11 del 13-3-2019 )

 

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio   PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
 

     
    ha pronunciato la seguente

                              SENTENZA

    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  11,  comma
1, lettera a), del decreto  legislativo  31  dicembre  2012,  n.  235
(Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita'  e  di
divieto di ricoprire cariche elettive  e  di  Governo  conseguenti  a
sentenze definitive di condanna per  delitti  non  colposi,  a  norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge  6  novembre  2012,  n.  190),
promosso dal Tribunale ordinario di Lecce, nel procedimento  vertente
tra F. F. e altra e il Ministero dell'interno e altri, con  ordinanza
del 31 marzo 2017, iscritta al n. 163 del registro ordinanze  2017  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  47,  prima
serie speciale, dell'anno 2017.
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  F.  F.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    udito nell'udienza  pubblica  del  22  gennaio  2019  il  Giudice
relatore Daria de Pretis;
    uditi l'avvocato Carlo Malinconico per F. F. e gli avvocati dello
Stato Gabriella Palmieri e  Agnese  Soldani  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.- Il Tribunale ordinario di Lecce  ha  sollevato  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 11, comma 1,  lettera  a),  del
decreto legislativo 31 dicembre  2012,  n.  235  (Testo  unico  delle
disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire
cariche elettive e di Governo conseguenti a  sentenze  definitive  di
condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma  63,
della legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento  agli  artt.  1,
secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, della Costituzione.
    La questione e' sorta nel corso di un giudizio promosso da F.  F.
ed avente ad oggetto il decreto del 2 agosto 2016 con cui il Prefetto
di Lecce ha accertato la sussistenza in capo  al  ricorrente  di  una
causa di sospensione di  diritto  dalla  carica  di  consigliere  del
Comune di Gallipoli, ai sensi dell'art. 11, comma 1, lettera a),  del
d.lgs. n. 235 del 2012, secondo il quale «[s]ono sospesi  di  diritto
dalle cariche indicate al comma 1 dell'articolo 10 [...]  coloro  che
hanno riportato una condanna  non  definitiva  per  uno  dei  delitti
indicati all'articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)».
    Il  rimettente  riferisce  che  la  sospensione  si  fonda  sulla
sentenza  di  condanna  non  definitiva  pronunciata  dal   Tribunale
ordinario di Lecce ai danni di F. F. il 21 gennaio 2016, prima  della
sua candidatura alla carica di  sindaco  di  Gallipoli  e  della  sua
elezione   alla   carica   di    consigliere    comunale    (avvenute
rispettivamente nel maggio e nel giugno  del  2016),  per  i  delitti
(commessi nel 2008) di cui agli artt.  319,  323  e  326  del  codice
penale, compresi tra quelli indicati all'art. 10,  comma  1,  lettera
c), del d.lgs. n. 235 del 2012.
    La norma e' censurata nella parte  in  cui  non  prevede  che  la
sospensione dalla carica consegua solo alle sentenze  non  definitive
di condanna pronunciate  «dopo  l'elezione  o  la  nomina»,  come  e'
previsto invece alla lettera b) del medesimo art. 11,  comma  1,  che
assoggetta alla stessa misura «coloro  che,  con  sentenza  di  primo
grado,  confermata  in  appello  per  la  stessa  imputazione,  hanno
riportato, dopo l'elezione o la nomina, una condanna ad una pena  non
inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo».
    Il rimettente non ritiene possibile l'interpretazione conforme  a
Costituzione (secondo la quale la norma si applicherebbe solo in caso
di   condanne   successive   all'elezione),   perche'   la    diversa
interpretazione, secondo cui la sospensione si applica anche in  caso
di condanna precedente l'elezione, sarebbe consolidata  e  formerebbe
«diritto vivente» (sono citate la sentenza della Corte di cassazione,
sezione prima civile, 30 luglio 2012, n. 13653, e le  sentenze  della
Corte  costituzionale  n.  276  del  2016  -  che  esprimerebbe  tale
orientamento «indirettamente» - e n. 141 del 1996).
    1.1.-  Quanto  alla  rilevanza,   il   rimettente   afferma   che
l'applicazione dell'art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs.  n.  235
del 2012 e' necessaria per definire il giudizio  principale,  il  cui
esito in senso favorevole o sfavorevole al  ricorrente  dipenderebbe,
pertanto, dalla risoluzione della questione sollevata.
    1.2.- Il giudice a quo ricostruisce  poi  l'evoluzione  normativa
della materia, dalla  quale  emergerebbe  che  anche  l'art.  59  del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico  delle  leggi
sull'ordinamento degli enti locali)  collegava  la  sospensione  solo
alle condanne non definitive successive all'elezione.
    1.3.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
svolge diversi argomenti.
    In primo  luogo,  sostiene  che  l'«intrinseca  finalita'»  della
sospensione, quale risulta anche dalla sua  applicazione  originaria,
sarebbe quella di «disciplinare [...] le situazioni che sopravvengono
dopo  l'elezione  o   la   nomina»,   mentre   il   diritto   vivente
determinerebbe una «discrasia del quadro normativo», dovuta al «fatto
che la medesima situazione (sentenza non definitiva di condanna prima
dell'elezione), del tutto priva di influenza all'inizio e  nel  corso
del processo elettorale fino all'elezione, assuma poi rilevanza  tale
da incidere direttamente sui risultati di quest'ultima, pur  svoltasi
in condizioni di piena regolarita'  e,  soprattutto,  senza  che  nel
frattempo  sia  intervenuto  alcun  mutamento   delle   circostanze».
Disattendendo l'«implicito presupposto» della sospensione (cioe', che
il  requisito  soggettivo  venga  meno  dopo  l'elezione),  la  norma
censurata non avrebbe  operato  un  ragionevole  bilanciamento  degli
interessi costituzionali in gioco, in quanto e' nel caso di  condanna
successiva all'elezione che si porrebbe «concretamente  e,  comunque,
in maggiore e piu' rilevante misura, il problema della "credibilita'"
dell'amministrazione, che "incrinerebbe il rapporto  di  fiducia  dei
cittadini verso l'istituzione", se si consentisse la permanenza nella
carica del soggetto attinto da una  sentenza  di  condanna,  pur  non
definitiva,  successiva  alla  sua  elezione».  In  questo  caso,  la
sospensione sarebbe «misura proporzionata e ragionevole  al  fine  di
impedire,  non  l'accesso  all'esercizio  della  carica,  bensi'   la
permanenza nell'esercizio della stessa». In questo senso, dunque,  le
due  situazioni  (condanna  precedente  o  successiva   all'elezione)
sarebbero diverse nella  prospettiva  della  volonta'  del  cittadino
elettore.
    In secondo luogo, sarebbe irragionevole  il  diverso  trattamento
riservato alla fattispecie in esame rispetto  a  quella  disciplinata
alla lettera b) dello stesso art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 235  del
2012.  Ad  avviso  del  rimettente,  la  minore  gravita'  dei  reati
considerati alla lettera  b)  giustifica  la  scelta  legislativa  di
pretendere, in questa ipotesi, un maggiore grado di stabilita'  della
condanna non definitiva (che dev'essere stata confermata in  appello)
ai fini della sospensione, ma non  vi  sarebbe  alcuna  «correlazione
automatica, e tantomeno logica, tra grado e momento della pronunzia»,
per cui  sarebbe  «irragionevole  che  il  legislatore  abbia  inteso
prevedere anche un differente ambito applicativo a livello temporale,
tra le ipotesi di cui alla lett. a) e quelle di cui alla lett. b)».
    In terzo luogo, secondo il  rimettente,  «l'applicabilita'  della
misura della  sospensione  a  sentenze  non  definitive  di  condanna
intervenute prima dell'elezione» falserebbe  «la  libera  concorrenza
elettorale dal lato passivo» e finirebbe «col pregiudicare la  libera
scelta del cittadino elettore dal lato attivo». In sostanza, la norma
censurata inciderebbe «pesantemente sui meccanismi di  partecipazione
al voto», ledendo  il  diritto  di  elettorato  attivo  e  quello  di
elettorato passivo (artt. 48 e 51 Cost.), con conseguente  violazione
degli artt. 1, 2 e 3 Cost.
    1.4.-  Infine,  il   rimettente   rileva   che,   «per   mitigare
l'irragionevolezza» della  disposizione  censurata,  potrebbe  essere
sufficiente «delimitarne l'applicazione al  solo  periodo  precedente
l'elezione,  quello  cioe'  [...]  compreso  tra  la  candidatura   e
l'elezione»,  rimanendo  l'illegittimita'   circoscritta,   in   tale
ipotesi, alla parte in cui la norma non  prevede  l'inciso  «dopo  la
candidatura».
    2.- Con atto depositato in cancelleria il 3 novembre 2017  si  e'
costituito in giudizio F. F.,  ricorrente  nel  processo  principale,
chiedendo l'accoglimento delle questioni sollevate dal giudice a quo.
    2.1.- Con una memoria depositata in cancelleria  il  12  dicembre
2017, F. F., da un lato, ha svolto argomenti adesivi  in  riferimento
ai parametri evocati  nell'ordinanza  di  rimessione,  dall'altro  ha
avanzato ulteriori censure di illegittimita' della norma censurata.
    Sotto il primo profilo, F. F. osserva, tra l'altro,  che,  mentre
con la sentenza n. 141 del 1996 la Corte costituzionale ha dichiarato
incostituzionale la previsione  della  incandidabilita'  in  caso  di
condanna non ancora passata in giudicato, la norma censurata  avrebbe
introdotto «una sorta di incandidabilita' di fatto», sia  perche'  al
corpo elettorale e agli altri candidati  e'  noto  che  il  candidato
condannato sara' sospeso (se eletto), sia perche' la  sospensione  ha
una durata significativa.
    Sotto il secondo profilo, la norma censurata violerebbe anche gli
artt. 27, 97 e 117, primo comma,  Cost.,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  6  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, in  quanto  imporrebbe  un  automatismo  sanzionatorio  senza
consentire alcuna valutazione delle circostanze del caso concreto.
    Infine, la norma censurata violerebbe sotto  un  diverso  profilo
l'art.  3  Cost.  per  l'ingiustificata  disparita'  di   trattamento
esistente tra i parlamentari, per i quali «gli  effetti  sanzionatori
non possono che conseguire ad una sentenza definitiva»,  ex  art.  1,
comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del  2012,  e  i  titolari  di
cariche elettive regionali e locali, per i quali soltanto e' prevista
la sospensione a seguito di condanna non definitiva.
    3.- Con atto depositato in cancelleria il  12  dicembre  2017  e'
intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o,  comunque,
infondata.
    L'inammissibilita' deriverebbe, in primo luogo, dalla mancanza di
«rime obbligate» dell'«intervento additivo» richiesto,  che  dovrebbe
essere riservato alla scelta discrezionale del legislatore.
    Inoltre,  gli  argomenti  addotti  dal  giudice  a  quo  non   si
differenzierebbero da quelli gia' valutati dalla Corte costituzionale
nella sentenza n.  236  del  2015  per  affermare  l'infondatezza  di
un'analoga questione, sollevata in riferimento agli  artt.  2  e  51,
primo comma, Cost., con particolare riguardo  alla  natura  cautelare
della sospensione e alla non irragionevolezza  del  bilanciamento  di
interessi effettuato dal legislatore.
    Di conseguenza, per alcuni reati ostativi (al mantenimento  della
carica) come la corruzione e l'abuso d'ufficio,  rilevanti  nel  caso
concreto, l'adozione della misura sospensiva sarebbe giustificata  in
ragione dello stretto nesso delle condotte illecite con  la  funzione
svolta, a prescindere dal momento in cui interviene la condanna.  Per
altri  reati,  non  strettamente  collegati  «agli   oneri   pubblici
derivanti   dalla   carica»,   il    legislatore    avrebbe    invece
ragionevolmente  richiesto  un  maggiore   grado   di   plausibilita'
dell'accertamento penale - cioe', una condanna confermata in appello,
ex art. 11, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012 -  e  non
imposto la sospensione se la condanna interviene prima dell'elezione.
    Il sistema appare razionale, in quanto una condanna pregressa per
un reato  «avulso»  dalla  carica  non  sarebbe  ritenuta  condizione
sufficiente  per  limitare  il  diritto  inviolabile  di   elettorato
passivo, mentre la condanna sopravvenuta in corso di mandato potrebbe
rilevare ai fini della sospensione per il  possibile  danno  da  essa
inferto «all'immagine dell'amministratore».
    Tali considerazioni non sarebbero scalfite dagli ulteriori  dubbi
manifestati dal rimettente su aspetti sovrapponibili  a  quelli  gia'
vagliati dalla Corte «sul piano delle esigenze che  la  normativa  in
esame tende a corrispondere». La condanna non definitiva per  delitti
contro  la  pubblica  amministrazione  farebbe   sorgere   l'esigenza
cautelare di sospendere il condannato, «per evitare un "inquinamento"
dell'amministrazione»   e   per    garantire    la    «"credibilita'"
dell'amministrazione presso il pubblico».
    Pertanto, essendo  gia'  state  respinte  dalla  Corte  questioni
analoghe  a   quella   in   esame,   se   ne   dovrebbe   pronunciare
l'inammissibilita',  nonostante  il  tentativo  del   rimettente   di
qualificarla diversamente, o comunque la manifesta  infondatezza  nel
merito.
    4.- Il 27 dicembre 2018 il Presidente del Consiglio dei  ministri
ha depositato una memoria integrativa. In essa si  cita  la  sentenza
della Corte di cassazione n. 13653  del  2012  (gia'  richiamata  dal
giudice a quo) e si nega che la  sospensione  dalla  carica,  qualora
prevista in caso  di  condanna  precedente  l'elezione,  produca  gli
stessi  effetti  dell'incandidabilita',  in  quanto  la   prima   non
impedisce di partecipare all'elezione e ha durata limitata nel tempo.
    L'interveniente  nega  poi  che  sia  irragionevole  la   diversa
disciplina dettata dalle lettere a) e b) dell'art. 11, comma  1,  del
d.lgs. n.  235  del  2012.  Nell'esercizio  legittimo  della  propria
discrezionalita', il legislatore avrebbe rimesso agli  elettori,  nei
casi di reati meno gravi, «la valutazione prognostica in ordine  alla
capacita' o meno della condotta penalmente sanzionata di incidere sul
mandato  elettivo»,  mentre,  per  le  condanne   piu'   gravi,   «la
valutazione prognostica circa il  rischio  di  inquinamento»  sarebbe
stata fatta, a monte, dal legislatore. La diversa gravita' dei  reati
giustificherebbe «un diverso livello di "barriere di protezione"  per
gli organi elettivi».
    In relazione alla violazione  dell'art.  48  Cost.,  l'Avvocatura
eccepisce l'inammissibilita'  della  relativa  questione  perche'  il
giudice a quo avrebbe erroneamente invocato l'art. 48, quarto  comma,
Cost. invece dell'art.  48,  secondo  comma,  Cost.  Nel  merito,  la
questione sarebbe comunque infondata perche', in caso di condanne per
gravi reati, sarebbe ragionevole la scelta  di  applicare  la  misura
cautelare  della  sospensione  per  preservare  le   istituzioni,   a
prescindere dal momento di  conclusione  del  processo  penale:  cio'
anche al fine di evitare che, a parita' di  condanna,  sia  il  «mero
fatto della tempistica» del processo penale a fare la  differenza  ai
fini della prosecuzione del mandato. La scelta  del  legislatore  non
sarebbe obbligata ma neanche  illegittima,  perche'  risponderebbe  a
un'esigenza ragionevole.
    Quanto alla violazione del diritto di elettorato passivo (art. 51
Cost.), l'Avvocatura osserva  che  la  norma  censurata  realizza  un
corretto equilibrio degli  interessi  in  gioco,  dato  il  carattere
interinale della sospensione, coerente con il suo carattere cautelare
e non sanzionatorio.
    4.1.- Il 31 dicembre 2018 anche la parte costituita ha depositato
una memoria integrativa. In essa osserva  che  l'art.  11,  comma  1,
lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 non  disciplinerebbe  il  caso
della condanna precedente l'elezione, per  cui  l'applicazione  della
sospensione in tale  ipotesi  sarebbe  frutto  di  un'interpretazione
estensiva della disposizione censurata, che  sarebbe  preclusa  nella
materia  dell'ineleggibilita',  restando  invece  possibile  la   sua
interpretazione conforme a Costituzione.
    La parte aggiunge, poi, che nel caso  della  condanna  precedente
l'elezione mancherebbero le esigenze cautelari, dato che la  condanna
sarebbe conosciuta dal corpo elettorale; infatti,  nel  caso  di  cui
all'art. 11, comma 1, lettera b), la sospensione e' prevista solo per
la condanna successiva. Secondo la parte, non sarebbe giustificato il
diverso trattamento previsto dalla lettera a).
    Ancora,  la  parte  osserva  che  la  norma   censurata   sarebbe
incostituzionale in quanto  imporrebbe  una  sospensione  automatica,
senza  consentire  alcuna  valutazione  delle  circostanze  del  caso
concreto.
    L'art. 11, comma 1,  lettera  a),  sarebbe  poi  incostituzionale
perche'  il  legislatore,  per  aggirare  la  Costituzione,   avrebbe
«mascherato»   l'incandidabilita'   sotto   forma   di   sospensione,
incorrendo in «eccesso di potere legislativo».

                       Considerato in diritto

    1.- Il Tribunale ordinario di  Lecce  dubita  della  legittimita'
costituzionale  dell'art.  11,  comma  1,  lettera  a),  del  decreto
legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle  disposizioni
in materia di incandidabilita' e  di  divieto  di  ricoprire  cariche
elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive  di  condanna
per delitti non colposi, a norma dell'articolo  1,  comma  63,  della
legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento agli artt. 1,  secondo
comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, della Costituzione.
    La norma e' censurata nella parte  in  cui  non  prevede  che  la
sospensione dalla carica consegua solo alle sentenze  non  definitive
di condanna pronunciate «dopo l'elezione o la nomina» («o,  al  piu',
"dopo la candidatura"»), come e' previsto invece alla lettera b)  del
medesimo art. 11, comma 1, che assoggetta alla stessa misura  «coloro
che, con sentenza di primo grado, confermata in appello per la stessa
imputazione, hanno  riportato,  dopo  l'elezione  o  la  nomina,  una
condanna ad una pena non inferiore a due anni di  reclusione  per  un
delitto non colposo».
    Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 1,
secondo comma, 2, 3, 48 e 51,  primo  comma,  Cost.,  in  quanto:  a)
l'«intrinseca finalita'» della sospensione sarebbe  di  «disciplinare
[...] le situazioni che sopravvengono dopo l'elezione o  la  nomina»,
cosicche' la norma  censurata  non  avrebbe  operato  un  ragionevole
bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, poiche' e' nel
caso  di   condanna   successiva   all'elezione   che   si   porrebbe
«concretamente e, comunque, in maggiore e piu' rilevante  misura,  il
problema  della  "credibilita'"  dell'amministrazione»;  b)   sarebbe
irragionevole la diversita' di  trattamento  tra  la  fattispecie  in
esame e quella disciplinata dalla lettera b) dello  stesso  art.  11,
comma 1, del d.lgs. n.  235  del  2012;  c)  «l'applicabilita'  della
misura della  sospensione  a  sentenze  non  definitive  di  condanna
intervenute prima dell'elezione» falserebbe  «la  libera  concorrenza
elettorale dal lato passivo» e finirebbe «col pregiudicare la  libera
scelta del cittadino elettore dal lato attivo».
    2.- In via preliminare, occorre soffermarsi  sulle  eccezioni  di
inammissibilita' sollevate dall'Avvocatura generale dello Stato.
    L'Avvocatura    generale    eccepisce,    in     primo     luogo,
l'inammissibilita' della questione in quanto il giudice «sollecita un
intervento additivo che pero' non si configura a  "rime  obbligate"».
L'eccezione non  e'  fondata  perche'  la  norma  da  aggiungere  per
rimediare al vizio di costituzionalita',  qualora  si  condividessero
gli  argomenti  del  giudice  a  quo,  sarebbe  una  sola,  cioe'  la
limitazione della sospensione dalla carica ai casi  di  condanna  non
definitiva intervenuta dopo l'elezione o  la  nomina.  Questa  stessa
limitazione dell'ambito temporale di applicazione della  regola,  del
resto, e' gia' contenuta nell'art.  11,  comma  1,  lettera  b),  del
d.lgs. n. 235 del 2012, sicche',  in  caso  di  accoglimento,  questa
Corte non la introdurrebbe ex novo.
    L'Avvocatura eccepisce  poi  l'inammissibilita'  della  questione
sollevata in relazione all'art. 48 Cost. perche'  il  giudice  a  quo
avrebbe erroneamente invocato il quarto comma di tale articolo invece
del secondo. Nemmeno tale eccezione e' fondata. Il rimettente  invoca
in piu' punti (compreso il dispositivo) l'art.  48  Cost.  nella  sua
interezza e illustra la lesione del diritto di voto in modo  tale  da
rendere chiaro che  le  norme  evocate  come  parametro  sono  quelle
contenute nel primo e nel secondo comma  dello  stesso  art.  48.  Il
riferimento operato all'art. 48,  quarto  comma,  Cost.  deve  dunque
considerarsi un mero spunto argomentativo.
    2.1.- Sempre  in  via  preliminare,  occorre  rilevare  che  sono
inammissibili le ulteriori questioni di costituzionalita', diverse da
quelle sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce, prospettate  dalla
parte costituita nelle sue difese, non essendo consentito alle  parti
di estendere il thema decidendum fissato nell'ordinanza di rimessione
(ex multis, sentenze n. 248, n. 239, n. 200, n. 194, n. 161,  n.  33,
n. 14, n. 12 e n. 4 del 2018; ordinanza n. 96 del 2018).
    3.- Nel  merito,  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
sollevata dal Tribunale ordinario di Lecce non e' fondata.
    Il giudice a quo presenta la norma  censurata  come  un'anomalia,
che "tradisce" la  vocazione  della  sospensione  (di  intervenire  a
seguito di eventi che si  verificano  in  corso  di  mandato),  quale
emergerebbe  anche  dalle  passate  applicazioni  dell'istituto.   La
ricostruzione dell'effettiva evoluzione della disciplina della misura
della sospensione dalla carica di consigliere comunale non  conforta,
tuttavia, la tesi del rimettente.
    La  scelta  legislativa  della   sospensione   automatica   degli
amministratori degli enti locali dalla loro carica in conseguenza  di
vicende penali si e' espressa, per la prima volta, nell'art. 15 della
legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove  disposizioni  per  la  prevenzione
della  delinquenza  di  tipo  mafioso  e  di  altre  gravi  forme  di
manifestazione di pericolosita' sociale). La norma si  caratterizzava
per il fatto di prevedere la sospensione  prima  della  condanna  (in
caso di sottoposizione a procedimento penale per il delitto  previsto
dall'art. 416-bis del codice  penale).  In  essa,  inoltre,  non  era
prevista la conseguenza dell'incandidabilita' per il caso in  cui  la
condizione si fosse verificata prima dell'elezione.
    La misura dell'incandidabilita' e' stata poi  introdotta  con  la
legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni  e  nomine
presso le regioni e gli enti locali),  che,  modificando  l'art.  15,
comma 1, della legge n. 55 del 1990, la prevedeva  come  conseguenza,
di  regola  (essendo  stabilito  che,  in  determinati   casi,   essa
conseguisse gia' al semplice  rinvio  a  giudizio  ovvero  solo  alla
condanna confermata in appello), della condanna  non  definitiva  per
determinati  delitti  a  carico  degli  aspiranti  amministratori  di
regioni ed enti locali, nonche' degli aspiranti titolari di incarichi
conferiti dai medesimi amministratori. Il comma  4-bis  dello  stesso
art. 15 disponeva a sua volta che, se i casi di cui  al  comma  1  si
fossero  verificati  dopo  l'elezione  o  la  nomina,  cio'   avrebbe
comportato l'«immediata sospensione» dalla carica. In base  al  comma
4-quinquies del medesimo articolo, il passaggio  in  giudicato  della
sentenza di condanna avrebbe poi comportato la decadenza «di diritto»
dalla carica. All'epoca c'era dunque una perfetta corrispondenza  tra
le cause  di  incandidabilita'  e  le  cause  di  sospensione,  e  il
discrimine tra l'una e l'altra conseguenza era costituito dal momento
in cui si fosse verificato il fatto ostativo.
    Dopo  che  la  legge  12  gennaio  1994,  n.   30   (Disposizioni
modificative della legge 19 marzo 1990, n. 55, in materia di elezioni
e nomine presso le regioni e  gli  enti  locali,  e  della  legge  17
febbraio 1968, n. 108, in materia di elezioni dei consigli  regionali
delle regioni a statuto ordinario) aveva apportato  modifiche  minori
all'art. 15 della legge n. 55 del 1990, la disciplina introdotta  nel
1992 e'  stata  sottoposta  al  giudizio  di  questa  Corte,  che  ha
censurato la previsione  della  incandidabilita'  in  conseguenza  di
provvedimenti precedenti la condanna  definitiva,  per  gli  evidenti
caratteri  di  «incongruenza  e  [...]  sproporzione  di  una  misura
irreversibile  come  la  non  candidabilita',  in   forza   di   quei
presupposti ai quali la  legge  attribuisce  fisiologicamente  -  ove
sopravvenuti - l'effetto meramente sospensivo» (sentenza n.  141  del
1996). Nella pronuncia e' tuttavia chiarito  che  le  vicende  penali
precedenti l'elezione non restano irrilevanti, dovendo esse, al  pari
di quelle successive all'elezione, far scattare  la  sospensione;  in
particolare, era precisato che «[l]a declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale non tocca la disposizione dell'art. 15,  comma  4-bis,
che sancisce la sospensione di  diritto  degli  eletti  per  i  quali
sopraggiunga una delle situazioni di cui al medesimo art.  15,  comma
1.  Disposizione,  questa,  che  -  letta  nel   sistema   -   dovra'
considerarsi  applicabile  anche  al  caso  in  cui  tali  situazioni
sussistano gia' al  momento  dell'elezione,  si'  che  una  contraria
interpretazione risulterebbe  gravemente  irragionevole  e  fonte  di
ingiustificata disparita' di trattamento» (sentenza n. 141 del 1996).
    L'adeguamento legislativo richiesto in conseguenza  della  citata
pronuncia veniva poi operato con la legge 13 dicembre  1999,  n.  475
(Modifiche all'articolo 15 della  legge  19  marzo  1990,  n.  55,  e
successive modificazioni), che interveniva  sull'art.  15,  comma  1,
della legge n. 55 del 1990,  sostituendo  la  condanna  definitiva  a
quella non definitiva come causa di incandidabilita' e modificando la
disposizione sulla sospensione (art. 15, comma 4-bis), la  quale  non
poteva piu' rinviare a quella sulla incandidabilita' (ormai collegata
alla  sola  condanna  definitiva).  L'art.  15,  comma  4-bis,   come
modificato  nel  1999,  era  formulato  in  modo  non  diverso  dalle
disposizioni ora vigenti, in quanto prevedeva, fra  l'altro,  che  la
sospensione scattasse in  caso  di  condanna  non  definitiva  (senza
precisazioni temporali) per i delitti  di  associazione  mafiosa,  in
materia di stupefacenti o armi e  per  alcuni  delitti  dei  pubblici
ufficiali contro la pubblica  amministrazione,  mentre,  in  caso  di
condanna «ad una pena non inferiore a due anni di reclusione  per  un
delitto non colposo», richiedeva che la condanna  intervenisse  «dopo
l'elezione o la nomina» e che fosse confermata in appello.
    La disciplina della sospensione degli amministratori  degli  enti
locali e' poi confluita  nell'art.  59  del  decreto  legislativo  18
agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi  sull'ordinamento  degli
enti  locali),  senza  modifiche  sostanziali  (per  quello  che  qui
rileva).
    Su questo sistema sono intervenuti dapprima  la  legge  delega  6
novembre 2012, n. 190, recante «Disposizioni per la prevenzione e  la
repressione  della  corruzione  e  dell'illegalita'  nella   pubblica
amministrazione» (si veda, in particolare, l'art.  1,  commi  63-65),
che innova tuttavia solo  in  materia  di  incandidabilita',  non  in
materia di sospensione, e quindi  il  d.lgs.  n.  235  del  2012,  di
attuazione della delega, il quale mantiene il regime previgente della
sospensione.
    In base a tale regime, sono sospesi automaticamente dalla  carica
gli eletti che, a prescindere dal momento della condanna, sono  stati
condannati in via non definitiva per i reati piu'  gravi  o  connessi
alla funzione di pubblico  amministratore;  mentre  coloro  che  sono
stati condannati per reati meno gravi sono sospesi dalla carica  solo
alla  duplice  condizione  che  la  condanna  sia  intervenuta  «dopo
l'elezione o la nomina» e sia stata confermata in appello. Per quanto
riguarda la prima delle  due  menzionate  ipotesi,  si  ricorda,  per
completezza di esposizione, che la previsione contenuta  all'art.  8,
comma 1, lettera a), del citato d.lgs. n.  235  del  2012  (formulato
negli stessi termini dell'art. 11, comma 1, lettera  a,  oggetto  del
presente giudizio), la quale, con riferimento alle cariche  politiche
regionali, assoggetta alla sospensione  anche  coloro  che  risultano
essere stati condannati prima dell'elezione o della nomina, e'  stata
contestata in questa sua parte per eccesso di delega, ma questa Corte
ha ritenuto che essa non violi il criterio direttivo contenuto  nella
legge delega, cioe' l'art. 1, comma 64, lettera m),  della  legge  n.
190 del 2012 (sentenza n. 276 del 2016).
    Dal descritto quadro normativo risulta che le condanne penali non
definitive intervenute prima dell'elezione possono essere considerate
in modi diversi dal  legislatore,  ossia  restare  irrilevanti  (come
prevede il  tertium  comparationis  invocato  dal  rimettente,  cioe'
l'art. 11, comma 1, lettera  b,  del  d.lgs.  n.  235  del  2012  con
riferimento alle condanne «ad una pena non inferiore a  due  anni  di
reclusione per un delitto non colposo»), oppure essere trattate  alla
stregua delle condanne successive all'elezione (come prevede la norma
censurata).  Mentre  non  possono   essere   considerate   causa   di
incandidabilita', secondo quanto prevedeva la legge n. 16  del  1992,
poi dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza  n.  141
del 1996.
    Se ne deve concludere che l'assunto del giudice a quo - il  quale
auspica la soluzione dell'irrilevanza anche per le condanne per reati
piu' gravi o comunque connessi alla funzione, pretendendo di desumere
dalle  passate  applicazioni  dell'istituto   una   vocazione   della
sospensione a intervenire solo a seguito di eventi che si  verificano
in corso di mandato - non e' corretto, giacche' la scelta legislativa
di applicare la sospensione anche per condanne  che  hanno  preceduto
l'elezione  risulta  risalente  e  mantenuta  nel  tempo  fino   alla
normativa del 2012 qui in esame.
    4.-  Tale  scelta   costituisce   ragionevole   esercizio   della
discrezionalita' legislativa e  non  viola  le  norme  costituzionali
invocate dal giudice a quo.
    Lo scopo della disciplina era, in  origine,  «di  costituire  una
sorta di difesa avanzata dello Stato contro il  crescente  aggravarsi
del fenomeno della criminalita' organizzata e dell'infiltrazione  dei
suoi esponenti  negli  enti  locali»  e  la  sua  finalita'  era  «la
salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela  della
libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento  e  la
trasparenza delle amministrazioni pubbliche»  (sentenza  n.  407  del
1992). Successivamente, le permanenti  esigenze  di  contrasto  della
diffusa illegalita' nella pubblica amministrazione hanno  indotto  il
legislatore  ad  allargare  l'ambito  soggettivo  e  oggettivo  della
disciplina, a tutela degli interessi  costituzionali  protetti  dagli
artt. 54, secondo comma, e 97, secondo comma, Cost.
    Questa Corte ha gia' messo in evidenza  che  gli  istituti  della
sospensione  e  della  decadenza  svolgono  una  funzione  di  tutela
oggettiva del buon andamento e della legalita'  dell'amministrazione,
costituendo «strumenti di prevenzione dell'illegalita' nella pubblica
amministrazione» (sentenza  n.  276  del  2016).  In  particolare  ha
osservato che «la permanenza in carica di chi  sia  stato  condannato
anche in via non definitiva per determinati reati  che  offendono  la
pubblica  amministrazione  puo'  comunque  incidere  sugli  interessi
costituzionali protetti  dall'art.  97,  secondo  comma,  Cost.,  che
affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici  in
modo  che  siano  garantiti  il  buon  andamento  e   l'imparzialita'
dell'amministrazione, e  dall'art.  54,  secondo  comma,  Cost.,  che
impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche  "il  dovere
di adempierle con disciplina ed onore"», e che «[b]en puo' quindi  il
legislatore,  nel  disciplinare  i  requisiti  per  l'accesso  e   il
mantenimento delle  cariche  che  comportano  l'esercizio  di  quelle
funzioni, ricercare un bilanciamento  tra  gli  interessi  in  gioco,
ossia tra il diritto di elettorato passivo, da un  lato,  e  il  buon
andamento   e   l'imparzialita'   dell'amministrazione,   dall'altro»
(sentenza n. 236 del 2015).
    4.1.- Le stesse considerazioni devono essere riferite alla misura
della sospensione da applicare nei casi  oggetto  della  disposizione
censurata: anche in questi casi, infatti, la sospensione  costituisce
una misura cautelare diretta a evitare  che  coloro  che  sono  stati
condannati anche in via non definitiva per determinati reati gravi  o
comunque offensivi della pubblica amministrazione  rivestano  cariche
amministrative,  mettendo  cosi'  in  pericolo  il   buon   andamento
dell'amministrazione stessa e la sua onorabilita', e anche in  questi
casi il bilanciamento  operato  dal  legislatore  fra  il  menzionato
interesse pubblico e gli altri  interessi,  pubblici  e  privati,  in
gioco, non appare irragionevole.
    Con specifico riferimento all'ipotesi qui in esame, alle  ragioni
gia' emergenti dalla citata giurisprudenza di questa Corte si  devono
aggiungere, per un verso,  la  considerazione  che  non  a  qualsiasi
condanna  precedente   l'elezione   e'   collegata   la   conseguenza
dell'automatica sospensione ma solo a quelle per reati di particolare
gravita' e per  reati  contro  la  pubblica  amministrazione,  quindi
direttamente connessi alla funzione che il sospeso  sarebbe  chiamato
ad assumere, e, per altro verso, la constatazione che la  sospensione
ha la durata limitata di 18 mesi (art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 235
del 2012), decorsi i quali senza che  la  sentenza  di  condanna  sia
stata confermata in appello (nel  quale  caso  decorre  un  ulteriore
periodo di sospensione di dodici mesi: art. 11, comma 4,  del  d.lgs.
n. 235 del 2012) o sia divenuta definitiva (con conseguente decadenza
dell'eletto: art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 235 del 2012),  l'eletto
entrera' comunque in carica. E' dunque evidente che, nell'ipotesi  di
specie, il  legislatore  ha  ulteriormente  bilanciato  le  descritte
esigenze di tutela della pubblica  amministrazione,  da  un  lato,  e
dell'eletto  condannato,  dall'altro,  temperando  in   maniera   non
irragionevole gli effetti automatici della sentenza di  condanna  non
definitiva in ragione del trascorrere del tempo e  della  progressiva
stabilizzazione della stessa pronuncia.
    Non puo' condurre a conclusioni diverse l'argomento  secondo  cui
l'intervenuta  elezione,  a  dispetto  della   precedente   condanna,
esprimerebbe una consapevole scelta degli elettori, idonea a superare
anche l'eventuale carattere ostativo della  precedente  sentenza  non
definitiva. Se infatti la ratio della sospensione e'  prevalentemente
quella della tutela oggettiva del buon andamento  e  della  legalita'
nella pubblica amministrazione, e  solo  in  misura  limitata  quella
della protezione del rapporto  di  fiducia  tra  eletti  ed  elettori
(sentenze n. 214 del 2017, n. 276 del 2016, n. 236 del 2015,  n.  118
del 2013, n. 257 del 2010, n. 352 del 2008, n. 25 del  2002,  n.  132
del 2001, n. 141 del 1996, n. 295 del 1994, n. 118 del 1994,  n.  288
del 1993,  n.  218  del  1993,  n.  407  del  1992),  la  scelta  del
legislatore  di  non  attribuire  rilievo,  nei   casi   considerati,
all'intervenuta  investitura  popolare  del  condannato,  e  di   far
prevalere, nei termini e nei limiti detti, l'interesse alla legalita'
dell'amministrazione non risulta irragionevole.
    e' significativo, a questo proposito, che,  quando  in  relazione
alla normativa di cui si sta trattando sono sorte questioni attinenti
ai rapporti fra lo Stato e le regioni, questa  Corte  ha  negato  che
essa  rientrasse   nella   competenza   regionale   in   materia   di
ineleggibilita'  e  di  incompatibilita'  e  l'ha   ricondotta   alla
competenza  statale  esclusiva  in  materia  di  ordine  pubblico   e
sicurezza (sentenze n. 118 del 2013, n. 218 del 1993  e  n.  407  del
1992).  In  questa  logica,  l'"atto  di  fiducia"   di   una   parte
dell'elettorato che elegge il candidato gia' condannato (in  via  non
definitiva) non e' sufficiente a far venir meno l'esigenza di  tutela
oggettiva dell'ente territoriale. Senza considerare  le  esigenze  di
garanzia dell'intero corpo elettorale, le cui altrettanto  meritevoli
aspirazioni all'onorabilita' e alla credibilita' dell'eletto  possono
essere messe in discussione dall'elezione del condannato.
    Si deve ricordare infine che questa Corte, nel momento in cui  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale della norma che  prevedeva
l'incandidabilita' come conseguenza di  provvedimenti  precedenti  la
condanna definitiva, ha chiarito  che  nondimeno  le  vicende  penali
precedenti  l'elezione  non  possono  restare  irrilevanti,   dovendo
conseguire a esse la sospensione (prevista  per  le  stesse  vicende,
qualora intervenute  durante  il  mandato),  perche'  «una  contraria
interpretazione risulterebbe  gravemente  irragionevole  e  fonte  di
ingiustificata disparita' di trattamento» (sentenza n. 141 del 1996).
    4.2.- Nemmeno sussiste la lamentata disparita' di trattamento fra
le ipotesi disciplinate  dalla  disposizione  oggetto  di  censura  e
quelle ricadenti nell'ambito di applicazione  della  lettera  b)  del
comma 1 dell'art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012, che prevede, in caso
di «condanna ad una pena non inferiore a due anni di  reclusione  per
un delitto non colposo», la sospensione dalla carica solo qualora  la
condanna intervenga dopo l'elezione o la nomina e sia  confermata  in
appello.
    La ratio che ispira il diverso regime riservato alle due  diverse
situazioni e' evidente: al di  fuori  dei  reati  piu'  gravi  e  dei
delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, il
legislatore ha ritenuto, non  irragionevolmente,  che  l'esigenza  di
tutela oggettiva dell'ente territoriale venga meno o si  indebolisca,
ragion per cui ha considerato prevalenti gli interessi  sottesi  agli
artt. 48 e 51 Cost., in caso di condanna precedente l'elezione.
    4.3.- Quanto al terzo argomento speso dal rimettente - secondo il
quale la sospensione in seguito a sentenze non definitive di condanna
intervenute prima dell'elezione  falserebbe  «la  libera  concorrenza
elettorale dal lato passivo» e finirebbe «col pregiudicare la  libera
scelta del cittadino elettore dal lato attivo» - e' agevole osservare
che il condizionamento delle elezioni (derivante  dal  fatto  che  il
candidato  gia'  condannato  e'   destinato   provvisoriamente   alla
sospensione in caso di  elezione)  e'  l'inevitabile  conseguenza  di
fatto  della  scelta  del  legislatore,  espressiva  del   punto   di
equilibrio   da    esso    individuato.    Esclusa    la    soluzione
dell'incandidabilita' in quanto si  tratterebbe  di  una  conseguenza
irreversibile e dunque sproporzionata rispetto ad  una  condanna  non
definitiva (come chiarito da questa Corte nella  citata  sentenza  n.
141 del 1996), ed escluso, all'opposto, che  la  condanna  precedente
(per   gravi   reati)   possa   essere   ritenuta   irrilevante   per
l'irragionevole disparita' di trattamento che ne deriverebbe rispetto
all'ipotesi della condanna successiva (sentenza n. 141 del 1996),  il
legislatore ha  scelto  di  consentire  al  condannato  in  modo  non
definitivo di candidarsi, ma ne ha  previsto  la  sospensione  subito
dopo l'elezione.
    In conclusione, anche in relazione agli interessi protetti  dagli
artt. 48 e 51 Cost., il legislatore ha operato un  bilanciamento  fra
essi e gli altri interessi costituzionali in gioco  (artt.  54  e  97
Cost.) che non puo' essere giudicato irragionevole.
    5.- Nella parte finale dell'ordinanza, il Tribunale ordinario  di
Lecce prospetta un'altra soluzione come possibile  rimedio  al  vizio
della   norma    censurata,    osservando    che,    «per    mitigare
l'irragionevolezza» della  disposizione  censurata,  potrebbe  essere
sufficiente «delimitarne l'applicazione al  solo  periodo  precedente
l'elezione,  quello  cioe'  [...]  compreso  tra  la  candidatura   e
l'elezione», rimanendo cosi' l'illegittimita' circoscritta,  in  tale
ipotesi, alla parte in cui la norma non  prevede  l'inciso  «dopo  la
candidatura».
    Prospettando tale soluzione aggiuntiva, il rimettente colpisce in
realta' una  diversa  lacuna  dell'art.  11,  comma  1,  lettera  a),
individuando cosi' un diverso oggetto delle sue censure, cio' che da'
luogo   a   una   seconda,   distinta   questione   di   legittimita'
costituzionale.
    Tale ulteriore questione va  considerata  come  proposta  in  via
subordinata.  Benche'  infatti  il  rimettente  non   la   qualifichi
espressamente come tale, il tenore complessivo  della  motivazione  e
l'inciso «al piu'», accostato alla  soluzione  in  essa  prospettata,
inducono a ritenere che la stessa sia sottoposta a questa  Corte  per
il caso in cui la questione principale  sia  respinta  (per  un  caso
analogo, sentenza n. 175 del 2018).
    5.1.- La questione subordinata e' comunque inammissibile.
    A sostegno della sua prospettazione, il giudice a quo  si  limita
infatti  a  osservare,  come  visto,  che  l'irragionevolezza   della
disposizione  censurata  sarebbe  mitigata  se  l'applicazione  della
sospensione per una condanna  precedente  l'elezione  fosse  limitata
alle condanne intervenute successivamente alla  candidatura.  Nessuna
ulteriore spiegazione viene fornita.
    Poiche' gli argomenti che  il  rimettente  spende  per  sostenere
l'illegittimita' della norma censurata nella  parte  in  cui  estende
l'applicazione della  sospensione  anche  alle  condanne  intervenute
prima dell'elezione sono ugualmente  riferibili  all'ipotesi  in  cui
tale applicazione sia limitata ai casi di condanna  intervenuta  dopo
la candidatura (ma comunque prima dell'elezione),  non  si  comprende
per quale ragione  sia  invocata  tale  distinta  soluzione,  che  si
presterebbe, in realta', alle stesse critiche.
    Il  petitum  subordinato  e'  dunque  incoerente  rispetto   agli
argomenti svolti nell'ordinanza di rimessione, con la conseguenza che
la relativa questione e' inammissibile (ordinanza n. 243 del 2017).
     

     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    1)  dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  11,  comma  1,  lettera  a),  del  decreto
legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle  disposizioni
in materia di incandidabilita' e  di  divieto  di  ricoprire  cariche
elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive  di  condanna
per delitti non colposi, a norma dell'articolo  1,  comma  63,  della
legge 6 novembre 2012, n. 190), sollevata, in riferimento agli  artt.
1, secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, della Costituzione, dal
Tribunale ordinario di Lecce con l'ordinanza in epigrafe;
    2)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs.  n.  235
del 2012, sollevata in via subordinata, in riferimento agli artt.  1,
secondo comma, 2, 3, 48 e  51,  primo  comma,  Cost.,  dal  Tribunale
ordinario di Lecce con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019.

                                F.to:
                    Giorgio LATTANZI, Presidente
                     Daria de PRETIS, Redattore
                     Roberto MILANA, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2019.

                   Il Direttore della Cancelleria
                        F.to: Roberto MILANA

     

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