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mercoledì 27 marzo 2019
N. 36 SENTENZA 23 gennaio - 6 marzo 2019 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Elezioni - Cariche elettive presso gli enti locali - Sospensione di diritto dalla carica per coloro che abbiano riportato una condanna non definitiva per taluni delitti. - Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), art. 11, comma 1, lettera a) - (GU n.11 del 13-3-2019 )
N. 36 SENTENZA 23 gennaio - 6 marzo 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Elezioni - Cariche elettive presso gli enti locali - Sospensione di
diritto dalla carica per coloro che abbiano riportato una condanna
non definitiva per taluni delitti.
- Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle
disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di
ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze
definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190),
art. 11, comma 1, lettera a)
-
(GU n.11 del 13-3-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 11, comma
1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235
(Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita' e di
divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a
sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190),
promosso dal Tribunale ordinario di Lecce, nel procedimento vertente
tra F. F. e altra e il Ministero dell'interno e altri, con ordinanza
del 31 marzo 2017, iscritta al n. 163 del registro ordinanze 2017 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima
serie speciale, dell'anno 2017.
Visti l'atto di costituzione di F. F., nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 22 gennaio 2019 il Giudice
relatore Daria de Pretis;
uditi l'avvocato Carlo Malinconico per F. F. e gli avvocati dello
Stato Gabriella Palmieri e Agnese Soldani per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 11, comma 1, lettera a), del
decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle
disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire
cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di
condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63,
della legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento agli artt. 1,
secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, della Costituzione.
La questione e' sorta nel corso di un giudizio promosso da F. F.
ed avente ad oggetto il decreto del 2 agosto 2016 con cui il Prefetto
di Lecce ha accertato la sussistenza in capo al ricorrente di una
causa di sospensione di diritto dalla carica di consigliere del
Comune di Gallipoli, ai sensi dell'art. 11, comma 1, lettera a), del
d.lgs. n. 235 del 2012, secondo il quale «[s]ono sospesi di diritto
dalle cariche indicate al comma 1 dell'articolo 10 [...] coloro che
hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti
indicati all'articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)».
Il rimettente riferisce che la sospensione si fonda sulla
sentenza di condanna non definitiva pronunciata dal Tribunale
ordinario di Lecce ai danni di F. F. il 21 gennaio 2016, prima della
sua candidatura alla carica di sindaco di Gallipoli e della sua
elezione alla carica di consigliere comunale (avvenute
rispettivamente nel maggio e nel giugno del 2016), per i delitti
(commessi nel 2008) di cui agli artt. 319, 323 e 326 del codice
penale, compresi tra quelli indicati all'art. 10, comma 1, lettera
c), del d.lgs. n. 235 del 2012.
La norma e' censurata nella parte in cui non prevede che la
sospensione dalla carica consegua solo alle sentenze non definitive
di condanna pronunciate «dopo l'elezione o la nomina», come e'
previsto invece alla lettera b) del medesimo art. 11, comma 1, che
assoggetta alla stessa misura «coloro che, con sentenza di primo
grado, confermata in appello per la stessa imputazione, hanno
riportato, dopo l'elezione o la nomina, una condanna ad una pena non
inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo».
Il rimettente non ritiene possibile l'interpretazione conforme a
Costituzione (secondo la quale la norma si applicherebbe solo in caso
di condanne successive all'elezione), perche' la diversa
interpretazione, secondo cui la sospensione si applica anche in caso
di condanna precedente l'elezione, sarebbe consolidata e formerebbe
«diritto vivente» (sono citate la sentenza della Corte di cassazione,
sezione prima civile, 30 luglio 2012, n. 13653, e le sentenze della
Corte costituzionale n. 276 del 2016 - che esprimerebbe tale
orientamento «indirettamente» - e n. 141 del 1996).
1.1.- Quanto alla rilevanza, il rimettente afferma che
l'applicazione dell'art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235
del 2012 e' necessaria per definire il giudizio principale, il cui
esito in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente dipenderebbe,
pertanto, dalla risoluzione della questione sollevata.
1.2.- Il giudice a quo ricostruisce poi l'evoluzione normativa
della materia, dalla quale emergerebbe che anche l'art. 59 del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali) collegava la sospensione solo
alle condanne non definitive successive all'elezione.
1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente
svolge diversi argomenti.
In primo luogo, sostiene che l'«intrinseca finalita'» della
sospensione, quale risulta anche dalla sua applicazione originaria,
sarebbe quella di «disciplinare [...] le situazioni che sopravvengono
dopo l'elezione o la nomina», mentre il diritto vivente
determinerebbe una «discrasia del quadro normativo», dovuta al «fatto
che la medesima situazione (sentenza non definitiva di condanna prima
dell'elezione), del tutto priva di influenza all'inizio e nel corso
del processo elettorale fino all'elezione, assuma poi rilevanza tale
da incidere direttamente sui risultati di quest'ultima, pur svoltasi
in condizioni di piena regolarita' e, soprattutto, senza che nel
frattempo sia intervenuto alcun mutamento delle circostanze».
Disattendendo l'«implicito presupposto» della sospensione (cioe', che
il requisito soggettivo venga meno dopo l'elezione), la norma
censurata non avrebbe operato un ragionevole bilanciamento degli
interessi costituzionali in gioco, in quanto e' nel caso di condanna
successiva all'elezione che si porrebbe «concretamente e, comunque,
in maggiore e piu' rilevante misura, il problema della "credibilita'"
dell'amministrazione, che "incrinerebbe il rapporto di fiducia dei
cittadini verso l'istituzione", se si consentisse la permanenza nella
carica del soggetto attinto da una sentenza di condanna, pur non
definitiva, successiva alla sua elezione». In questo caso, la
sospensione sarebbe «misura proporzionata e ragionevole al fine di
impedire, non l'accesso all'esercizio della carica, bensi' la
permanenza nell'esercizio della stessa». In questo senso, dunque, le
due situazioni (condanna precedente o successiva all'elezione)
sarebbero diverse nella prospettiva della volonta' del cittadino
elettore.
In secondo luogo, sarebbe irragionevole il diverso trattamento
riservato alla fattispecie in esame rispetto a quella disciplinata
alla lettera b) dello stesso art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 235 del
2012. Ad avviso del rimettente, la minore gravita' dei reati
considerati alla lettera b) giustifica la scelta legislativa di
pretendere, in questa ipotesi, un maggiore grado di stabilita' della
condanna non definitiva (che dev'essere stata confermata in appello)
ai fini della sospensione, ma non vi sarebbe alcuna «correlazione
automatica, e tantomeno logica, tra grado e momento della pronunzia»,
per cui sarebbe «irragionevole che il legislatore abbia inteso
prevedere anche un differente ambito applicativo a livello temporale,
tra le ipotesi di cui alla lett. a) e quelle di cui alla lett. b)».
In terzo luogo, secondo il rimettente, «l'applicabilita' della
misura della sospensione a sentenze non definitive di condanna
intervenute prima dell'elezione» falserebbe «la libera concorrenza
elettorale dal lato passivo» e finirebbe «col pregiudicare la libera
scelta del cittadino elettore dal lato attivo». In sostanza, la norma
censurata inciderebbe «pesantemente sui meccanismi di partecipazione
al voto», ledendo il diritto di elettorato attivo e quello di
elettorato passivo (artt. 48 e 51 Cost.), con conseguente violazione
degli artt. 1, 2 e 3 Cost.
1.4.- Infine, il rimettente rileva che, «per mitigare
l'irragionevolezza» della disposizione censurata, potrebbe essere
sufficiente «delimitarne l'applicazione al solo periodo precedente
l'elezione, quello cioe' [...] compreso tra la candidatura e
l'elezione», rimanendo l'illegittimita' circoscritta, in tale
ipotesi, alla parte in cui la norma non prevede l'inciso «dopo la
candidatura».
2.- Con atto depositato in cancelleria il 3 novembre 2017 si e'
costituito in giudizio F. F., ricorrente nel processo principale,
chiedendo l'accoglimento delle questioni sollevate dal giudice a quo.
2.1.- Con una memoria depositata in cancelleria il 12 dicembre
2017, F. F., da un lato, ha svolto argomenti adesivi in riferimento
ai parametri evocati nell'ordinanza di rimessione, dall'altro ha
avanzato ulteriori censure di illegittimita' della norma censurata.
Sotto il primo profilo, F. F. osserva, tra l'altro, che, mentre
con la sentenza n. 141 del 1996 la Corte costituzionale ha dichiarato
incostituzionale la previsione della incandidabilita' in caso di
condanna non ancora passata in giudicato, la norma censurata avrebbe
introdotto «una sorta di incandidabilita' di fatto», sia perche' al
corpo elettorale e agli altri candidati e' noto che il candidato
condannato sara' sospeso (se eletto), sia perche' la sospensione ha
una durata significativa.
Sotto il secondo profilo, la norma censurata violerebbe anche gli
artt. 27, 97 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione
all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848, in quanto imporrebbe un automatismo sanzionatorio senza
consentire alcuna valutazione delle circostanze del caso concreto.
Infine, la norma censurata violerebbe sotto un diverso profilo
l'art. 3 Cost. per l'ingiustificata disparita' di trattamento
esistente tra i parlamentari, per i quali «gli effetti sanzionatori
non possono che conseguire ad una sentenza definitiva», ex art. 1,
comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012, e i titolari di
cariche elettive regionali e locali, per i quali soltanto e' prevista
la sospensione a seguito di condanna non definitiva.
3.- Con atto depositato in cancelleria il 12 dicembre 2017 e'
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque,
infondata.
L'inammissibilita' deriverebbe, in primo luogo, dalla mancanza di
«rime obbligate» dell'«intervento additivo» richiesto, che dovrebbe
essere riservato alla scelta discrezionale del legislatore.
Inoltre, gli argomenti addotti dal giudice a quo non si
differenzierebbero da quelli gia' valutati dalla Corte costituzionale
nella sentenza n. 236 del 2015 per affermare l'infondatezza di
un'analoga questione, sollevata in riferimento agli artt. 2 e 51,
primo comma, Cost., con particolare riguardo alla natura cautelare
della sospensione e alla non irragionevolezza del bilanciamento di
interessi effettuato dal legislatore.
Di conseguenza, per alcuni reati ostativi (al mantenimento della
carica) come la corruzione e l'abuso d'ufficio, rilevanti nel caso
concreto, l'adozione della misura sospensiva sarebbe giustificata in
ragione dello stretto nesso delle condotte illecite con la funzione
svolta, a prescindere dal momento in cui interviene la condanna. Per
altri reati, non strettamente collegati «agli oneri pubblici
derivanti dalla carica», il legislatore avrebbe invece
ragionevolmente richiesto un maggiore grado di plausibilita'
dell'accertamento penale - cioe', una condanna confermata in appello,
ex art. 11, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012 - e non
imposto la sospensione se la condanna interviene prima dell'elezione.
Il sistema appare razionale, in quanto una condanna pregressa per
un reato «avulso» dalla carica non sarebbe ritenuta condizione
sufficiente per limitare il diritto inviolabile di elettorato
passivo, mentre la condanna sopravvenuta in corso di mandato potrebbe
rilevare ai fini della sospensione per il possibile danno da essa
inferto «all'immagine dell'amministratore».
Tali considerazioni non sarebbero scalfite dagli ulteriori dubbi
manifestati dal rimettente su aspetti sovrapponibili a quelli gia'
vagliati dalla Corte «sul piano delle esigenze che la normativa in
esame tende a corrispondere». La condanna non definitiva per delitti
contro la pubblica amministrazione farebbe sorgere l'esigenza
cautelare di sospendere il condannato, «per evitare un "inquinamento"
dell'amministrazione» e per garantire la «"credibilita'"
dell'amministrazione presso il pubblico».
Pertanto, essendo gia' state respinte dalla Corte questioni
analoghe a quella in esame, se ne dovrebbe pronunciare
l'inammissibilita', nonostante il tentativo del rimettente di
qualificarla diversamente, o comunque la manifesta infondatezza nel
merito.
4.- Il 27 dicembre 2018 il Presidente del Consiglio dei ministri
ha depositato una memoria integrativa. In essa si cita la sentenza
della Corte di cassazione n. 13653 del 2012 (gia' richiamata dal
giudice a quo) e si nega che la sospensione dalla carica, qualora
prevista in caso di condanna precedente l'elezione, produca gli
stessi effetti dell'incandidabilita', in quanto la prima non
impedisce di partecipare all'elezione e ha durata limitata nel tempo.
L'interveniente nega poi che sia irragionevole la diversa
disciplina dettata dalle lettere a) e b) dell'art. 11, comma 1, del
d.lgs. n. 235 del 2012. Nell'esercizio legittimo della propria
discrezionalita', il legislatore avrebbe rimesso agli elettori, nei
casi di reati meno gravi, «la valutazione prognostica in ordine alla
capacita' o meno della condotta penalmente sanzionata di incidere sul
mandato elettivo», mentre, per le condanne piu' gravi, «la
valutazione prognostica circa il rischio di inquinamento» sarebbe
stata fatta, a monte, dal legislatore. La diversa gravita' dei reati
giustificherebbe «un diverso livello di "barriere di protezione" per
gli organi elettivi».
In relazione alla violazione dell'art. 48 Cost., l'Avvocatura
eccepisce l'inammissibilita' della relativa questione perche' il
giudice a quo avrebbe erroneamente invocato l'art. 48, quarto comma,
Cost. invece dell'art. 48, secondo comma, Cost. Nel merito, la
questione sarebbe comunque infondata perche', in caso di condanne per
gravi reati, sarebbe ragionevole la scelta di applicare la misura
cautelare della sospensione per preservare le istituzioni, a
prescindere dal momento di conclusione del processo penale: cio'
anche al fine di evitare che, a parita' di condanna, sia il «mero
fatto della tempistica» del processo penale a fare la differenza ai
fini della prosecuzione del mandato. La scelta del legislatore non
sarebbe obbligata ma neanche illegittima, perche' risponderebbe a
un'esigenza ragionevole.
Quanto alla violazione del diritto di elettorato passivo (art. 51
Cost.), l'Avvocatura osserva che la norma censurata realizza un
corretto equilibrio degli interessi in gioco, dato il carattere
interinale della sospensione, coerente con il suo carattere cautelare
e non sanzionatorio.
4.1.- Il 31 dicembre 2018 anche la parte costituita ha depositato
una memoria integrativa. In essa osserva che l'art. 11, comma 1,
lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 non disciplinerebbe il caso
della condanna precedente l'elezione, per cui l'applicazione della
sospensione in tale ipotesi sarebbe frutto di un'interpretazione
estensiva della disposizione censurata, che sarebbe preclusa nella
materia dell'ineleggibilita', restando invece possibile la sua
interpretazione conforme a Costituzione.
La parte aggiunge, poi, che nel caso della condanna precedente
l'elezione mancherebbero le esigenze cautelari, dato che la condanna
sarebbe conosciuta dal corpo elettorale; infatti, nel caso di cui
all'art. 11, comma 1, lettera b), la sospensione e' prevista solo per
la condanna successiva. Secondo la parte, non sarebbe giustificato il
diverso trattamento previsto dalla lettera a).
Ancora, la parte osserva che la norma censurata sarebbe
incostituzionale in quanto imporrebbe una sospensione automatica,
senza consentire alcuna valutazione delle circostanze del caso
concreto.
L'art. 11, comma 1, lettera a), sarebbe poi incostituzionale
perche' il legislatore, per aggirare la Costituzione, avrebbe
«mascherato» l'incandidabilita' sotto forma di sospensione,
incorrendo in «eccesso di potere legislativo».
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale ordinario di Lecce dubita della legittimita'
costituzionale dell'art. 11, comma 1, lettera a), del decreto
legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni
in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire cariche
elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna
per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della
legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento agli artt. 1, secondo
comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, della Costituzione.
La norma e' censurata nella parte in cui non prevede che la
sospensione dalla carica consegua solo alle sentenze non definitive
di condanna pronunciate «dopo l'elezione o la nomina» («o, al piu',
"dopo la candidatura"»), come e' previsto invece alla lettera b) del
medesimo art. 11, comma 1, che assoggetta alla stessa misura «coloro
che, con sentenza di primo grado, confermata in appello per la stessa
imputazione, hanno riportato, dopo l'elezione o la nomina, una
condanna ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per un
delitto non colposo».
Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 1,
secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, Cost., in quanto: a)
l'«intrinseca finalita'» della sospensione sarebbe di «disciplinare
[...] le situazioni che sopravvengono dopo l'elezione o la nomina»,
cosicche' la norma censurata non avrebbe operato un ragionevole
bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, poiche' e' nel
caso di condanna successiva all'elezione che si porrebbe
«concretamente e, comunque, in maggiore e piu' rilevante misura, il
problema della "credibilita'" dell'amministrazione»; b) sarebbe
irragionevole la diversita' di trattamento tra la fattispecie in
esame e quella disciplinata dalla lettera b) dello stesso art. 11,
comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012; c) «l'applicabilita' della
misura della sospensione a sentenze non definitive di condanna
intervenute prima dell'elezione» falserebbe «la libera concorrenza
elettorale dal lato passivo» e finirebbe «col pregiudicare la libera
scelta del cittadino elettore dal lato attivo».
2.- In via preliminare, occorre soffermarsi sulle eccezioni di
inammissibilita' sollevate dall'Avvocatura generale dello Stato.
L'Avvocatura generale eccepisce, in primo luogo,
l'inammissibilita' della questione in quanto il giudice «sollecita un
intervento additivo che pero' non si configura a "rime obbligate"».
L'eccezione non e' fondata perche' la norma da aggiungere per
rimediare al vizio di costituzionalita', qualora si condividessero
gli argomenti del giudice a quo, sarebbe una sola, cioe' la
limitazione della sospensione dalla carica ai casi di condanna non
definitiva intervenuta dopo l'elezione o la nomina. Questa stessa
limitazione dell'ambito temporale di applicazione della regola, del
resto, e' gia' contenuta nell'art. 11, comma 1, lettera b), del
d.lgs. n. 235 del 2012, sicche', in caso di accoglimento, questa
Corte non la introdurrebbe ex novo.
L'Avvocatura eccepisce poi l'inammissibilita' della questione
sollevata in relazione all'art. 48 Cost. perche' il giudice a quo
avrebbe erroneamente invocato il quarto comma di tale articolo invece
del secondo. Nemmeno tale eccezione e' fondata. Il rimettente invoca
in piu' punti (compreso il dispositivo) l'art. 48 Cost. nella sua
interezza e illustra la lesione del diritto di voto in modo tale da
rendere chiaro che le norme evocate come parametro sono quelle
contenute nel primo e nel secondo comma dello stesso art. 48. Il
riferimento operato all'art. 48, quarto comma, Cost. deve dunque
considerarsi un mero spunto argomentativo.
2.1.- Sempre in via preliminare, occorre rilevare che sono
inammissibili le ulteriori questioni di costituzionalita', diverse da
quelle sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce, prospettate dalla
parte costituita nelle sue difese, non essendo consentito alle parti
di estendere il thema decidendum fissato nell'ordinanza di rimessione
(ex multis, sentenze n. 248, n. 239, n. 200, n. 194, n. 161, n. 33,
n. 14, n. 12 e n. 4 del 2018; ordinanza n. 96 del 2018).
3.- Nel merito, la questione di legittimita' costituzionale
sollevata dal Tribunale ordinario di Lecce non e' fondata.
Il giudice a quo presenta la norma censurata come un'anomalia,
che "tradisce" la vocazione della sospensione (di intervenire a
seguito di eventi che si verificano in corso di mandato), quale
emergerebbe anche dalle passate applicazioni dell'istituto. La
ricostruzione dell'effettiva evoluzione della disciplina della misura
della sospensione dalla carica di consigliere comunale non conforta,
tuttavia, la tesi del rimettente.
La scelta legislativa della sospensione automatica degli
amministratori degli enti locali dalla loro carica in conseguenza di
vicende penali si e' espressa, per la prima volta, nell'art. 15 della
legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione
della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di
manifestazione di pericolosita' sociale). La norma si caratterizzava
per il fatto di prevedere la sospensione prima della condanna (in
caso di sottoposizione a procedimento penale per il delitto previsto
dall'art. 416-bis del codice penale). In essa, inoltre, non era
prevista la conseguenza dell'incandidabilita' per il caso in cui la
condizione si fosse verificata prima dell'elezione.
La misura dell'incandidabilita' e' stata poi introdotta con la
legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine
presso le regioni e gli enti locali), che, modificando l'art. 15,
comma 1, della legge n. 55 del 1990, la prevedeva come conseguenza,
di regola (essendo stabilito che, in determinati casi, essa
conseguisse gia' al semplice rinvio a giudizio ovvero solo alla
condanna confermata in appello), della condanna non definitiva per
determinati delitti a carico degli aspiranti amministratori di
regioni ed enti locali, nonche' degli aspiranti titolari di incarichi
conferiti dai medesimi amministratori. Il comma 4-bis dello stesso
art. 15 disponeva a sua volta che, se i casi di cui al comma 1 si
fossero verificati dopo l'elezione o la nomina, cio' avrebbe
comportato l'«immediata sospensione» dalla carica. In base al comma
4-quinquies del medesimo articolo, il passaggio in giudicato della
sentenza di condanna avrebbe poi comportato la decadenza «di diritto»
dalla carica. All'epoca c'era dunque una perfetta corrispondenza tra
le cause di incandidabilita' e le cause di sospensione, e il
discrimine tra l'una e l'altra conseguenza era costituito dal momento
in cui si fosse verificato il fatto ostativo.
Dopo che la legge 12 gennaio 1994, n. 30 (Disposizioni
modificative della legge 19 marzo 1990, n. 55, in materia di elezioni
e nomine presso le regioni e gli enti locali, e della legge 17
febbraio 1968, n. 108, in materia di elezioni dei consigli regionali
delle regioni a statuto ordinario) aveva apportato modifiche minori
all'art. 15 della legge n. 55 del 1990, la disciplina introdotta nel
1992 e' stata sottoposta al giudizio di questa Corte, che ha
censurato la previsione della incandidabilita' in conseguenza di
provvedimenti precedenti la condanna definitiva, per gli evidenti
caratteri di «incongruenza e [...] sproporzione di una misura
irreversibile come la non candidabilita', in forza di quei
presupposti ai quali la legge attribuisce fisiologicamente - ove
sopravvenuti - l'effetto meramente sospensivo» (sentenza n. 141 del
1996). Nella pronuncia e' tuttavia chiarito che le vicende penali
precedenti l'elezione non restano irrilevanti, dovendo esse, al pari
di quelle successive all'elezione, far scattare la sospensione; in
particolare, era precisato che «[l]a declaratoria di illegittimita'
costituzionale non tocca la disposizione dell'art. 15, comma 4-bis,
che sancisce la sospensione di diritto degli eletti per i quali
sopraggiunga una delle situazioni di cui al medesimo art. 15, comma
1. Disposizione, questa, che - letta nel sistema - dovra'
considerarsi applicabile anche al caso in cui tali situazioni
sussistano gia' al momento dell'elezione, si' che una contraria
interpretazione risulterebbe gravemente irragionevole e fonte di
ingiustificata disparita' di trattamento» (sentenza n. 141 del 1996).
L'adeguamento legislativo richiesto in conseguenza della citata
pronuncia veniva poi operato con la legge 13 dicembre 1999, n. 475
(Modifiche all'articolo 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, e
successive modificazioni), che interveniva sull'art. 15, comma 1,
della legge n. 55 del 1990, sostituendo la condanna definitiva a
quella non definitiva come causa di incandidabilita' e modificando la
disposizione sulla sospensione (art. 15, comma 4-bis), la quale non
poteva piu' rinviare a quella sulla incandidabilita' (ormai collegata
alla sola condanna definitiva). L'art. 15, comma 4-bis, come
modificato nel 1999, era formulato in modo non diverso dalle
disposizioni ora vigenti, in quanto prevedeva, fra l'altro, che la
sospensione scattasse in caso di condanna non definitiva (senza
precisazioni temporali) per i delitti di associazione mafiosa, in
materia di stupefacenti o armi e per alcuni delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione, mentre, in caso di
condanna «ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per un
delitto non colposo», richiedeva che la condanna intervenisse «dopo
l'elezione o la nomina» e che fosse confermata in appello.
La disciplina della sospensione degli amministratori degli enti
locali e' poi confluita nell'art. 59 del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali), senza modifiche sostanziali (per quello che qui
rileva).
Su questo sistema sono intervenuti dapprima la legge delega 6
novembre 2012, n. 190, recante «Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell'illegalita' nella pubblica
amministrazione» (si veda, in particolare, l'art. 1, commi 63-65),
che innova tuttavia solo in materia di incandidabilita', non in
materia di sospensione, e quindi il d.lgs. n. 235 del 2012, di
attuazione della delega, il quale mantiene il regime previgente della
sospensione.
In base a tale regime, sono sospesi automaticamente dalla carica
gli eletti che, a prescindere dal momento della condanna, sono stati
condannati in via non definitiva per i reati piu' gravi o connessi
alla funzione di pubblico amministratore; mentre coloro che sono
stati condannati per reati meno gravi sono sospesi dalla carica solo
alla duplice condizione che la condanna sia intervenuta «dopo
l'elezione o la nomina» e sia stata confermata in appello. Per quanto
riguarda la prima delle due menzionate ipotesi, si ricorda, per
completezza di esposizione, che la previsione contenuta all'art. 8,
comma 1, lettera a), del citato d.lgs. n. 235 del 2012 (formulato
negli stessi termini dell'art. 11, comma 1, lettera a, oggetto del
presente giudizio), la quale, con riferimento alle cariche politiche
regionali, assoggetta alla sospensione anche coloro che risultano
essere stati condannati prima dell'elezione o della nomina, e' stata
contestata in questa sua parte per eccesso di delega, ma questa Corte
ha ritenuto che essa non violi il criterio direttivo contenuto nella
legge delega, cioe' l'art. 1, comma 64, lettera m), della legge n.
190 del 2012 (sentenza n. 276 del 2016).
Dal descritto quadro normativo risulta che le condanne penali non
definitive intervenute prima dell'elezione possono essere considerate
in modi diversi dal legislatore, ossia restare irrilevanti (come
prevede il tertium comparationis invocato dal rimettente, cioe'
l'art. 11, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 235 del 2012 con
riferimento alle condanne «ad una pena non inferiore a due anni di
reclusione per un delitto non colposo»), oppure essere trattate alla
stregua delle condanne successive all'elezione (come prevede la norma
censurata). Mentre non possono essere considerate causa di
incandidabilita', secondo quanto prevedeva la legge n. 16 del 1992,
poi dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 141
del 1996.
Se ne deve concludere che l'assunto del giudice a quo - il quale
auspica la soluzione dell'irrilevanza anche per le condanne per reati
piu' gravi o comunque connessi alla funzione, pretendendo di desumere
dalle passate applicazioni dell'istituto una vocazione della
sospensione a intervenire solo a seguito di eventi che si verificano
in corso di mandato - non e' corretto, giacche' la scelta legislativa
di applicare la sospensione anche per condanne che hanno preceduto
l'elezione risulta risalente e mantenuta nel tempo fino alla
normativa del 2012 qui in esame.
4.- Tale scelta costituisce ragionevole esercizio della
discrezionalita' legislativa e non viola le norme costituzionali
invocate dal giudice a quo.
Lo scopo della disciplina era, in origine, «di costituire una
sorta di difesa avanzata dello Stato contro il crescente aggravarsi
del fenomeno della criminalita' organizzata e dell'infiltrazione dei
suoi esponenti negli enti locali» e la sua finalita' era «la
salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della
libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la
trasparenza delle amministrazioni pubbliche» (sentenza n. 407 del
1992). Successivamente, le permanenti esigenze di contrasto della
diffusa illegalita' nella pubblica amministrazione hanno indotto il
legislatore ad allargare l'ambito soggettivo e oggettivo della
disciplina, a tutela degli interessi costituzionali protetti dagli
artt. 54, secondo comma, e 97, secondo comma, Cost.
Questa Corte ha gia' messo in evidenza che gli istituti della
sospensione e della decadenza svolgono una funzione di tutela
oggettiva del buon andamento e della legalita' dell'amministrazione,
costituendo «strumenti di prevenzione dell'illegalita' nella pubblica
amministrazione» (sentenza n. 276 del 2016). In particolare ha
osservato che «la permanenza in carica di chi sia stato condannato
anche in via non definitiva per determinati reati che offendono la
pubblica amministrazione puo' comunque incidere sugli interessi
costituzionali protetti dall'art. 97, secondo comma, Cost., che
affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in
modo che siano garantiti il buon andamento e l'imparzialita'
dell'amministrazione, e dall'art. 54, secondo comma, Cost., che
impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche "il dovere
di adempierle con disciplina ed onore"», e che «[b]en puo' quindi il
legislatore, nel disciplinare i requisiti per l'accesso e il
mantenimento delle cariche che comportano l'esercizio di quelle
funzioni, ricercare un bilanciamento tra gli interessi in gioco,
ossia tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e il buon
andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione, dall'altro»
(sentenza n. 236 del 2015).
4.1.- Le stesse considerazioni devono essere riferite alla misura
della sospensione da applicare nei casi oggetto della disposizione
censurata: anche in questi casi, infatti, la sospensione costituisce
una misura cautelare diretta a evitare che coloro che sono stati
condannati anche in via non definitiva per determinati reati gravi o
comunque offensivi della pubblica amministrazione rivestano cariche
amministrative, mettendo cosi' in pericolo il buon andamento
dell'amministrazione stessa e la sua onorabilita', e anche in questi
casi il bilanciamento operato dal legislatore fra il menzionato
interesse pubblico e gli altri interessi, pubblici e privati, in
gioco, non appare irragionevole.
Con specifico riferimento all'ipotesi qui in esame, alle ragioni
gia' emergenti dalla citata giurisprudenza di questa Corte si devono
aggiungere, per un verso, la considerazione che non a qualsiasi
condanna precedente l'elezione e' collegata la conseguenza
dell'automatica sospensione ma solo a quelle per reati di particolare
gravita' e per reati contro la pubblica amministrazione, quindi
direttamente connessi alla funzione che il sospeso sarebbe chiamato
ad assumere, e, per altro verso, la constatazione che la sospensione
ha la durata limitata di 18 mesi (art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 235
del 2012), decorsi i quali senza che la sentenza di condanna sia
stata confermata in appello (nel quale caso decorre un ulteriore
periodo di sospensione di dodici mesi: art. 11, comma 4, del d.lgs.
n. 235 del 2012) o sia divenuta definitiva (con conseguente decadenza
dell'eletto: art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 235 del 2012), l'eletto
entrera' comunque in carica. E' dunque evidente che, nell'ipotesi di
specie, il legislatore ha ulteriormente bilanciato le descritte
esigenze di tutela della pubblica amministrazione, da un lato, e
dell'eletto condannato, dall'altro, temperando in maniera non
irragionevole gli effetti automatici della sentenza di condanna non
definitiva in ragione del trascorrere del tempo e della progressiva
stabilizzazione della stessa pronuncia.
Non puo' condurre a conclusioni diverse l'argomento secondo cui
l'intervenuta elezione, a dispetto della precedente condanna,
esprimerebbe una consapevole scelta degli elettori, idonea a superare
anche l'eventuale carattere ostativo della precedente sentenza non
definitiva. Se infatti la ratio della sospensione e' prevalentemente
quella della tutela oggettiva del buon andamento e della legalita'
nella pubblica amministrazione, e solo in misura limitata quella
della protezione del rapporto di fiducia tra eletti ed elettori
(sentenze n. 214 del 2017, n. 276 del 2016, n. 236 del 2015, n. 118
del 2013, n. 257 del 2010, n. 352 del 2008, n. 25 del 2002, n. 132
del 2001, n. 141 del 1996, n. 295 del 1994, n. 118 del 1994, n. 288
del 1993, n. 218 del 1993, n. 407 del 1992), la scelta del
legislatore di non attribuire rilievo, nei casi considerati,
all'intervenuta investitura popolare del condannato, e di far
prevalere, nei termini e nei limiti detti, l'interesse alla legalita'
dell'amministrazione non risulta irragionevole.
e' significativo, a questo proposito, che, quando in relazione
alla normativa di cui si sta trattando sono sorte questioni attinenti
ai rapporti fra lo Stato e le regioni, questa Corte ha negato che
essa rientrasse nella competenza regionale in materia di
ineleggibilita' e di incompatibilita' e l'ha ricondotta alla
competenza statale esclusiva in materia di ordine pubblico e
sicurezza (sentenze n. 118 del 2013, n. 218 del 1993 e n. 407 del
1992). In questa logica, l'"atto di fiducia" di una parte
dell'elettorato che elegge il candidato gia' condannato (in via non
definitiva) non e' sufficiente a far venir meno l'esigenza di tutela
oggettiva dell'ente territoriale. Senza considerare le esigenze di
garanzia dell'intero corpo elettorale, le cui altrettanto meritevoli
aspirazioni all'onorabilita' e alla credibilita' dell'eletto possono
essere messe in discussione dall'elezione del condannato.
Si deve ricordare infine che questa Corte, nel momento in cui ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale della norma che prevedeva
l'incandidabilita' come conseguenza di provvedimenti precedenti la
condanna definitiva, ha chiarito che nondimeno le vicende penali
precedenti l'elezione non possono restare irrilevanti, dovendo
conseguire a esse la sospensione (prevista per le stesse vicende,
qualora intervenute durante il mandato), perche' «una contraria
interpretazione risulterebbe gravemente irragionevole e fonte di
ingiustificata disparita' di trattamento» (sentenza n. 141 del 1996).
4.2.- Nemmeno sussiste la lamentata disparita' di trattamento fra
le ipotesi disciplinate dalla disposizione oggetto di censura e
quelle ricadenti nell'ambito di applicazione della lettera b) del
comma 1 dell'art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012, che prevede, in caso
di «condanna ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per
un delitto non colposo», la sospensione dalla carica solo qualora la
condanna intervenga dopo l'elezione o la nomina e sia confermata in
appello.
La ratio che ispira il diverso regime riservato alle due diverse
situazioni e' evidente: al di fuori dei reati piu' gravi e dei
delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, il
legislatore ha ritenuto, non irragionevolmente, che l'esigenza di
tutela oggettiva dell'ente territoriale venga meno o si indebolisca,
ragion per cui ha considerato prevalenti gli interessi sottesi agli
artt. 48 e 51 Cost., in caso di condanna precedente l'elezione.
4.3.- Quanto al terzo argomento speso dal rimettente - secondo il
quale la sospensione in seguito a sentenze non definitive di condanna
intervenute prima dell'elezione falserebbe «la libera concorrenza
elettorale dal lato passivo» e finirebbe «col pregiudicare la libera
scelta del cittadino elettore dal lato attivo» - e' agevole osservare
che il condizionamento delle elezioni (derivante dal fatto che il
candidato gia' condannato e' destinato provvisoriamente alla
sospensione in caso di elezione) e' l'inevitabile conseguenza di
fatto della scelta del legislatore, espressiva del punto di
equilibrio da esso individuato. Esclusa la soluzione
dell'incandidabilita' in quanto si tratterebbe di una conseguenza
irreversibile e dunque sproporzionata rispetto ad una condanna non
definitiva (come chiarito da questa Corte nella citata sentenza n.
141 del 1996), ed escluso, all'opposto, che la condanna precedente
(per gravi reati) possa essere ritenuta irrilevante per
l'irragionevole disparita' di trattamento che ne deriverebbe rispetto
all'ipotesi della condanna successiva (sentenza n. 141 del 1996), il
legislatore ha scelto di consentire al condannato in modo non
definitivo di candidarsi, ma ne ha previsto la sospensione subito
dopo l'elezione.
In conclusione, anche in relazione agli interessi protetti dagli
artt. 48 e 51 Cost., il legislatore ha operato un bilanciamento fra
essi e gli altri interessi costituzionali in gioco (artt. 54 e 97
Cost.) che non puo' essere giudicato irragionevole.
5.- Nella parte finale dell'ordinanza, il Tribunale ordinario di
Lecce prospetta un'altra soluzione come possibile rimedio al vizio
della norma censurata, osservando che, «per mitigare
l'irragionevolezza» della disposizione censurata, potrebbe essere
sufficiente «delimitarne l'applicazione al solo periodo precedente
l'elezione, quello cioe' [...] compreso tra la candidatura e
l'elezione», rimanendo cosi' l'illegittimita' circoscritta, in tale
ipotesi, alla parte in cui la norma non prevede l'inciso «dopo la
candidatura».
Prospettando tale soluzione aggiuntiva, il rimettente colpisce in
realta' una diversa lacuna dell'art. 11, comma 1, lettera a),
individuando cosi' un diverso oggetto delle sue censure, cio' che da'
luogo a una seconda, distinta questione di legittimita'
costituzionale.
Tale ulteriore questione va considerata come proposta in via
subordinata. Benche' infatti il rimettente non la qualifichi
espressamente come tale, il tenore complessivo della motivazione e
l'inciso «al piu'», accostato alla soluzione in essa prospettata,
inducono a ritenere che la stessa sia sottoposta a questa Corte per
il caso in cui la questione principale sia respinta (per un caso
analogo, sentenza n. 175 del 2018).
5.1.- La questione subordinata e' comunque inammissibile.
A sostegno della sua prospettazione, il giudice a quo si limita
infatti a osservare, come visto, che l'irragionevolezza della
disposizione censurata sarebbe mitigata se l'applicazione della
sospensione per una condanna precedente l'elezione fosse limitata
alle condanne intervenute successivamente alla candidatura. Nessuna
ulteriore spiegazione viene fornita.
Poiche' gli argomenti che il rimettente spende per sostenere
l'illegittimita' della norma censurata nella parte in cui estende
l'applicazione della sospensione anche alle condanne intervenute
prima dell'elezione sono ugualmente riferibili all'ipotesi in cui
tale applicazione sia limitata ai casi di condanna intervenuta dopo
la candidatura (ma comunque prima dell'elezione), non si comprende
per quale ragione sia invocata tale distinta soluzione, che si
presterebbe, in realta', alle stesse critiche.
Il petitum subordinato e' dunque incoerente rispetto agli
argomenti svolti nell'ordinanza di rimessione, con la conseguenza che
la relativa questione e' inammissibile (ordinanza n. 243 del 2017).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 11, comma 1, lettera a), del decreto
legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni
in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire cariche
elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna
per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della
legge 6 novembre 2012, n. 190), sollevata, in riferimento agli artt.
1, secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, della Costituzione, dal
Tribunale ordinario di Lecce con l'ordinanza in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235
del 2012, sollevata in via subordinata, in riferimento agli artt. 1,
secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, Cost., dal Tribunale
ordinario di Lecce con l'ordinanza in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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