N. 207 ORDINANZA 24 ottobre - 16 novembre 2018
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Reati e pene - Istigazione o aiuto al suicidio - Incriminazione delle
condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte
dell'istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla
determinazione o al rafforzamento del proposito al suicidio -
Trattamento sanzionatorio.
- Codice penale, art. 580.
-
(GU n.46 del 21-11-2018 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 580 del
codice penale, promosso dalla Corte di assise di Milano, nel
procedimento penale a carico di M. C., con ordinanza del 14 febbraio
2018, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2018 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie
speciale, dell'anno 2018.
Visti l'atto di costituzione di M. C., nonche' gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, del Centro
Studi "Rosario Livatino", della libera associazione di volontariato
"Vita e'" e del Movimento per la vita italiano;
udito nella udienza pubblica del 23 ottobre 2018 il Giudice
relatore Franco Modugno;
uditi gli avvocati Simone Pillon per la libera associazione di
volontariato "Vita e'", Mauro Ronco per il Centro Studi "Rosario
Livatino", Ciro Intino per il Movimento per la vita italiano,
Filomena Gallo e Vittorio Manes per M. C. e l'avvocato dello Stato
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei
ministri.Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d'assise di
Milano ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 580 del codice penale:
a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio
in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere
dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del
proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13,
primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;
b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione
dell'esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso
deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena
della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione
rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con
gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
Con riguardo alle questioni sub a), il riferimento all'art. 3
(anziche' all'art. 2) Cost. che compare nel dispositivo
dell'ordinanza di rimessione deve considerarsi frutto di mero errore
materiale, alla luce del tenore complessivo della motivazione e delle
«[c]onclusioni» che precedono immediatamente il dispositivo stesso.
Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni traggono
origine dalla vicenda di F. A., il quale, a seguito di un grave
incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, era rimasto
tetraplegico e affetto da cecita' bilaterale corticale (dunque,
permanente). Non era autonomo nella respirazione (necessitando
dell'ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche
asportazioni di muco), nell'alimentazione (venendo nutrito in via
intraparietale) e nell'evacuazione. Era percorso, altresi', da
ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che
non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non
mediante sedazione profonda. Conservava, pero', intatte le facolta'
intellettive.
All'esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari
tentativi di riabilitazione e di cura (comprensivi anche di un
trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre
2015), la sua condizione era risultata irreversibile. Aveva percio'
maturato, a poco meno di due anni di distanza dall'incidente, la
volonta' di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri
cari. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di
dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile
determinazione aveva intrapreso uno "sciopero" della fame e della
parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di
parlare.
Di seguito a cio', aveva preso contatto nel maggio 2016, tramite
la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano
dell'assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni,
dalla legislazione elvetica.
Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato
nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilita' di
sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i
trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.
Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il
suicidio assistito, l'imputato aveva accettato di accompagnarlo in
automobile presso la struttura prescelta. Inviata a quest'ultima la
documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena
capacita' di intendere e di volere, F. A. aveva alfine ottenuto da
essa il "benestare" al suicidio assistito, con fissazione della data.
Nei mesi successivi alla relativa comunicazione, egli aveva
costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli
amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al
Presidente della Repubblica) e affermando «di viverla come "una
liberazione"».
Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove
risiedeva) in Svizzera, a bordo di un'autovettura appositamente
predisposta, con alla guida l'imputato e, al seguito, la madre, la
fidanzata e la madre di quest'ultima.
In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva
nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e
la sua capacita' di assumere in via autonoma il farmaco che gli
avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni, tanto
l'imputato, quanto i familiari avevano continuato a restargli vicini,
rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di
togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in
Italia.
Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio
2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l'interessato aveva
iniettato nelle sue vene il farmaco letale.
Di ritorno dal viaggio, M. C. si era autodenunciato ai
carabinieri.
A seguito di ordinanza di "imputazione coatta", adottata ai sensi
dell'art. 409 del codice di procedura penale dal Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano, egli era
stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte rimettente per il
reato di cui all'art. 580 cod. pen., tanto per aver rafforzato il
proposito di suicidio di F. A., quanto per averne agevolato
l'esecuzione.
Il giudice a quo esclude, peraltro, la configurabilita' della
prima ipotesi accusatoria. Alla luce delle prove assunte nel corso
dell'istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe, infatti, maturato la
decisione di rivolgersi all'associazione svizzera prima e
indipendentemente dall'intervento dell'imputato.
La Corte rimettente ritiene, invece, che l'accompagnamento in
auto di F. A. presso la clinica elvetica integri, in base al "diritto
vivente", la fattispecie dell'aiuto al suicidio, in quanto condizione
per la realizzazione dell'evento. L'unica sentenza della Corte di
cassazione che si e' occupata del tema ha, infatti, affermato che le
condotte di agevolazione, incriminate dalla norma censurata in via
alternativa rispetto a quelle di istigazione, debbono ritenersi
percio' stesso punibili a prescindere dalle loro ricadute sul
processo deliberativo dell'aspirante suicida (Corte di cassazione,
sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147).
Su questo presupposto, la Corte d'assise milanese dubita,
tuttavia, della legittimita' costituzionale della norma censurata,
anzitutto nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al
suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o a
rafforzare il proposito della vittima.
Il giudice a quo rileva come la disposizione denunciata
presupponga che il suicidio sia un atto intriso di elementi di
disvalore, in quanto contrario al principio di sacralita' e
indisponibilita' della vita in correlazione agli obblighi sociali
dell'individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime
fascista.
La disposizione dovrebbe essere, pero', riletta alla luce della
Costituzione: in particolare, del principio personalistico enunciato
dall'art. 2 - che pone l'uomo e non lo Stato al centro della vita
sociale - e di quello di inviolabilita' della liberta' personale,
affermato dall'art. 13; principi alla luce dei quali la vita - primo
fra tutti i diritti inviolabili dell'uomo - non potrebbe essere
«concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo
titolare». Di qui, dunque, anche la liberta' della persona di
scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.
Il diritto all'autodeterminazione individuale, previsto dall'art.
32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, e' stato,
d'altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza e poi
dal legislatore, con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme
in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di
trattamento), che sancisce l'obbligo di rispettare le decisioni del
paziente, anche quando ne possa derivare la morte.
La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo. Essa avrebbe conosciuto
una evoluzione, il cui approdo finale sarebbe rappresentato
dall'esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che
riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e
il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun
individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita
finira'».
A fronte di cio', il bene giuridico protetto dalla norma
denunciata andrebbe oggi identificato, non gia' nel diritto alla
vita, ma nella liberta' e consapevolezza della decisione del soggetto
passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta.
In quest'ottica, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio
che non abbiano inciso sul percorso deliberativo della vittima
risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13, primo comma,
e 117 Cost. In tale ipotesi, infatti, la condotta dell'agevolatore
rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso
da un soggetto che esercita una liberta' costituzionale, risultando
quindi inoffensiva.
La Corte d'assise milanese censura, per altro verso, la norma
denunciata nella parte in cui punisce le condotte di aiuto al
suicidio, non rafforzative del proposito dell'aspirante suicida, con
la stessa severa pena - reclusione da cinque a dieci [recte: dodici]
anni - prevista per le condotte di istigazione, da ritenere
nettamente piu' gravi.
La disposizione violerebbe, per questo verso, l'art. 3 Cost.,
unitamente al principio di proporzionalita' della pena al disvalore
del fatto, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo
comma, Cost.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilita' delle questioni
sotto plurimi profili, deducendone, in ogni caso, l'infondatezza nel
merito.
3.- Si e' costituito altresi' l'imputato nel giudizio a quo, il
quale, con memoria integrativa - contestata la fondatezza delle
eccezioni di inammissibilita' - ha rilevato come, di la' dalla
generica formulazione del petitum, le questioni debbano ritenersi
radicate sul caso di specie: prospettiva nella quale ha chiesto -
sulla base di articolate considerazioni - che l'art. 580 cod. pen.
sia dichiarato illegittimo «nella parte in cui punisce la condotta di
chi abbia agevolato l'esecuzione della volonta', liberamente
formatasi, della persona che versi in uno stato di malattia
irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che l'agevolazione
sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente, avrebbe potuto
darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari»; ovvero, in
subordine, «nella parte in cui prevede che le condotte di
agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione del
proposito suicidario siano punite allo stesso modo della istigazione
al suicidio».
Nella memoria per l'udienza, la parte costituita ha prospettato
anche la possibilita' di un superamento dei problemi di
costituzionalita' denunciati a mezzo di una sentenza interpretativa
di rigetto.
4.- Con ordinanza pronunciata all'udienza pubblica del 23 ottobre
2018 questa Corte ha dichiarato inammissibili gli interventi ad
opponendum del Centro Studi "Rosario Livatino", della libera
associazione di volontariato "Vita e'" e del Movimento per la vita
italiano.
Considerato in diritto
1.- La Corte d'assise di Milano dubita della legittimita'
costituzionale dell'art. 580 del codice penale, che prevede il reato
di istigazione o aiuto al suicidio, sotto due distinti profili.
Da un lato, pone in discussione il perimetro applicativo della
disposizione censurata, lamentando che essa incrimini anche le
condotte di aiuto al suicidio che non abbiano contribuito a
determinare o a rafforzare il proposito della vittima. Dall'altro,
contesta il trattamento sanzionatorio riservato a tali condotte,
dolendosi del fatto che esse siano punite con la medesima, severa
pena prevista per le piu' gravi condotte di istigazione.
Il giudice a quo non pone alcun rapporto di subordinazione
espressa tra le questioni. Esso e', pero', in re ipsa. Appare,
infatti, evidente che le censure relative alla misura della pena
hanno un senso solo in quanto le condotte avute di mira restino
penalmente rilevanti: il che presuppone il mancato accoglimento delle
questioni intese a ridefinire i confini applicativi della fattispecie
criminosa.
2.- Cio' puntualizzato, le eccezioni di inammissibilita'
formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri non sono fondate.
Contrariamente a quanto sostenuto dall'Avvocatura generale dello
Stato, la circostanza che il giudice a quo abbia gia' escluso che,
nella specie, il comportamento dell'imputato sia valso a rafforzare
il proposito di suicidio della vittima non rende le questioni
irrilevanti. Queste ultime poggiano, infatti, sulla premessa
ermeneutica che l'agevolazione del suicidio sia repressa anche se non
influente sul percorso deliberativo del soggetto passivo e mirano
proprio a denunciare l'illegittimita' costituzionale di una simile
disciplina.
Si tratta, a ben vedere, di una premessa corretta. La soluzione
interpretativa di segno inverso risulterebbe, in effetti, in
contrasto con la lettera della disposizione, poiche' si tradurrebbe
in una interpretatio abrogans. Nel momento stesso in cui si ritenesse
che la condotta di agevolazione sia punibile solo se generativa o
rafforzativa dell'intento suicida, si priverebbe totalmente di
significato la previsione - ad opera della norma censurata -
dell'ipotesi dell'aiuto al suicidio, come fattispecie alternativa e
autonoma («ovvero») rispetto a quella dell'istigazione.
Cio' e' sufficiente ad escludere che possa ritenersi fondata
l'ulteriore eccezione formulata dall'Avvocatura generale dello Stato,
di inammissibilita' delle questioni perche' finalizzate a conseguire
un avallo interpretativo e non precedute dal doveroso tentativo di
interpretazione conforme a Costituzione della disposizione
denunciata. Come affermato piu' volte da questa Corte, l'onere di
interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all'incidente
di costituzionalita', allorche' il tenore letterale della
disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze
n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016, n. 219 del 2008).
In quest'ottica, non influisce, dunque, sull'ammissibilita' delle
questioni la circostanza che il presupposto ermeneutico su cui esse
poggiano risulti recepito, per affermazione della stessa Corte
rimettente, in un'unica pronuncia resa da una sezione semplice della
Corte di cassazione (la sola in argomento: Corte di cassazione,
sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147);
pronuncia che, proprio perche' isolata, non sarebbe di per se' idonea
a determinare - contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo - la
formazione di un "diritto vivente" (ex plurimis, sentenze n. 223 del
2013 e n. 258 del 2012, ordinanza n. 139 del 2011).
3.- Ugualmente infondata - in rapporto al petitum del giudice a
quo - e' la conclusiva eccezione dell'Avvocatura generale dello
Stato, di inammissibilita' delle questioni per avere la Corte
rimettente richiesto una pronuncia manipolativa in materia rimessa
alla discrezionalita' del legislatore - come quella
dell'individuazione dei fatti da sottoporre a pena - in assenza di
una soluzione costituzionalmente obbligata.
Al riguardo, va osservato che il giudice a quo chiede, in via
principale, a questa Corte di rendere penalmente irrilevante
l'agevolazione dell'altrui suicidio che non abbia inciso sulla
decisione della vittima, a prescindere da ogni riferimento alle
condizioni personali del soggetto passivo e alle ragioni del suo
gesto: il che equivarrebbe, nella sostanza, a rimuovere la
fattispecie criminosa dell'aiuto al suicidio, facendola ricadere
integralmente in quella dell'istigazione. Di la' dalla formulazione
letterale del petitum, la Corte d'assise milanese invoca, dunque, una
pronuncia a carattere meramente ablativo: pronuncia che, nella
prospettiva della rimettente, rappresenterebbe una conseguenza
automatica della linea argomentativa posta a base delle censure,
senza implicare alcun intervento "creativo". Ad avviso del giudice a
quo, infatti, gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione,
in riferimento agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, attribuirebbero a ciascuna persona la liberta'
di scegliere quando e come porre fine alla propria vita: ottica nella
quale l'aiuto al suicidio prestato in favore di chi si sia
autonomamente determinato nell'esercizio di tale liberta'
costituzionale si tradurrebbe, in ogni caso, in una condotta
inoffensiva.
4.- Nel merito, la tesi della Corte rimettente, nella sua
assolutezza, non puo' essere condivisa.
Analogamente a quanto avviene nelle altre legislazioni
contemporanee, anche il nostro ordinamento non punisce il suicidio,
neppure quando sarebbe materialmente possibile, ossia nel caso di
tentato suicidio. Punisce, pero', severamente (con la reclusione da
cinque a dodici anni) chi concorre nel suicidio altrui, tanto nella
forma del concorso morale, vale a dire determinando o rafforzando in
altri il proposito suicida, quanto nella forma del concorso
materiale, ossia agevolandone «in qualsiasi modo» l'esecuzione. Cio',
sempre che il suicidio abbia luogo o che, quantomeno, dal tentato
suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima (nel qual
caso e' prevista una pena minore).
Il legislatore penale intende dunque, nella sostanza, proteggere
il soggetto da decisioni in suo danno: non ritenendo, tuttavia, di
poter colpire direttamente l'interessato, gli crea intorno una
"cintura protettiva", inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi
modo con lui.
Questo assetto non puo' ritenersi contrastante, di per se', con i
parametri evocati.
5.- Non e' pertinente, anzitutto, il riferimento del rimettente
al diritto alla vita, riconosciuto implicitamente - come «primo dei
diritti inviolabili dell'uomo» (sentenza n. 223 del 1996), in quanto
presupposto per l'esercizio di tutti gli altri - dall'art. 2 Cost.
(sentenza n. 35 del 1997), nonche', in modo esplicito, dall'art. 2
CEDU.
Dall'art. 2 Cost. - non diversamente che dall'art. 2 CEDU -
discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo:
non quello - diametralmente opposto - di riconoscere all'individuo la
possibilita' di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.
Che dal diritto alla vita, garantito dall'art. 2 CEDU, non possa
derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e
proprio diritto a morire, e' stato, del resto, da tempo affermato
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, proprio in relazione alla
tematica dell'aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty
contro Regno Unito).
6.- Neppure, d'altro canto - contrariamente a quanto sostenuto
dal giudice a quo - e' possibile desumere la generale inoffensivita'
dell'aiuto al suicidio da un generico diritto all'autodeterminazione
individuale, riferibile anche al bene della vita, che il rimettente
fa discendere dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost.
In senso contrario, va infatti rilevato come non possa dubitarsi
che l'art. 580 cod. pen. - anche nella parte in cui sottopone a pena
la cooperazione materiale al suicidio - sia funzionale alla
protezione di interessi meritevoli di tutela da parte
dell'ordinamento.
E' ben vero quanto rileva il giudice a quo, e cioe' che il
legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice in esame
(peraltro gia' presente nel previgente codice penale del 1889: art.
370), intendeva tutelare la vita umana intesa come bene
indisponibile, anche in funzione dell'interesse che la collettivita'
riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini. Ma e'
anche vero che non e' affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di
tutela di una norma quale l'art. 580 cod. pen. alla luce del mutato
quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore
in se', e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di
interessi collettivi.
L'incriminazione dell'istigazione e dell'aiuto al suicidio -
rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei - e',
in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto
delle persone piu' deboli e vulnerabili, che l'ordinamento penale
intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella
del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualita', di
tutelare le persone che attraversano difficolta' e sofferenze, anche
per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto
il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze
di ogni genere.
La circostanza, del tutto comprensibile e rispondente ad una
opzione da tempo universalmente radicata, che l'ordinamento non
sanzioni chi abbia tentato di porre fine alla propria vita non rende
affatto incoerente la scelta di punire chi cooperi materialmente alla
dissoluzione della vita altrui, coadiuvando il suicida
nell'attuazione del suo proposito. Condotta, questa, che -
diversamente dalla prima - fuoriesce dalla sfera personale di chi la
compie, innescando una relatio ad alteros di fronte alla quale viene
in rilievo, nella sua pienezza, l'esigenza di rispetto del bene della
vita.
Il divieto in parola conserva una propria evidente ragion
d'essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone
malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in
solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a
congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l'ordinamento
consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all'esecuzione di
una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto.
Al legislatore penale non puo' ritenersi inibito, dunque, vietare
condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una
concezione astratta dell'autonomia individuale che ignora le
condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso,
simili decisioni vengono concepite. Anzi, e' compito della Repubblica
porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in
simili situazioni di fragilita', rimovendo, in tal modo, gli ostacoli
che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3,
secondo comma, Cost.).
7.- Le medesime considerazioni ora svolte valgono, altresi', ad
escludere che la norma censurata si ponga, sempre e comunque sia, in
contrasto con l'art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun
individuo al rispetto della propria vita privata.
Nel menzionato caso Pretty contro Regno Unito, la Corte europea
dei diritti dell'uomo ha, in effetti, dichiarato che il divieto,
penalmente sanzionato, di assistere altri nel suicidio costituisce
un'interferenza con il diritto in questione: diritto che comporta in
linea di principio - e salvo il suo necessario bilanciamento con
interessi e diritti contrapposti, di cui si dira' poco oltre - il
riconoscimento all'individuo di una sfera di autonomia nelle
decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che e' a sua volta un
aspetto del piu' generale diritto al libero sviluppo della propria
persona. Tale affermazione e' stata ulteriormente esplicitata dalla
Corte in plurime occasioni successive, nelle quali i giudici di
Strasburgo hanno affermato - ancora in riferimento a casi in cui i
ricorrenti si dolevano di altrettanti ostacoli frapposti dallo Stato
resistente al proprio diritto di ottenere un aiuto a morire a
traverso la somministrazione di farmaci letali - che il diritto di
ciascuno di decidere come e in quale momento debba avere fine la
propria vita, sempre che si tratti di persona capace di prendere una
decisione libera e di agire in conformita' a tale decisione, e' uno
degli aspetti del diritto alla vita privata riconosciuto dall'art. 8
CEDU (Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera;
nello stesso senso, sentenza 19 luglio 2012, Koch contro Germania, e
sentenza 14 maggio 2013, Gross contro Svizzera).
In forza del paragrafo 2 dello stesso art. 8, una interferenza
della pubblica autorita' nell'esercizio di tale diritto e' possibile
solo se prevista dalla legge e necessaria, «in una societa'
democratica», per gli scopi ivi indicati, tra i quali rientra «la
protezione dei diritti e delle liberta' altrui». Per consolidata
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il concetto di necessita'
implica, altresi', che l'interferenza debba risultare proporzionata
al legittimo scopo perseguito.
A questo riguardo, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha,
peraltro, riconosciuto agli Stati un ampio margine di apprezzamento,
sottolineando a piu' riprese come incriminazioni generali dell'aiuto
al suicidio siano presenti nella gran parte delle legislazioni degli
Stati membri del Consiglio d'Europa (Corte EDU, sentenza 29 aprile
2002, Pretty contro Regno Unito; sentenza 20 gennaio 2011, Haas
contro Svizzera; sentenza 19 luglio 2012, Koch contro Germania). E la
ragione atta a giustificare, agli effetti dell'art. 8, paragrafo 2,
CEDU, simili incriminazioni e' stata colta proprio nella finalita' -
ascrivibile anche alla norma qui sottoposta a scrutinio - di
protezione delle persone deboli e vulnerabili (Corte EDU, sentenza 29
aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).
8.- Da quanto sinora osservato deriva, dunque, che
l'incriminazione dell'aiuto al suicidio non puo' essere ritenuta
incompatibile con la Costituzione.
Occorre, tuttavia, considerare specificamente situazioni come
quella oggetto del giudizio a quo: situazioni inimmaginabili
all'epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate
sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e
della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in
condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una
sufficienza di funzioni vitali.
Il riferimento e', piu' in particolare, alle ipotesi in cui il
soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una
patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o
psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c)
tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti
(d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l'assistenza di terzi
nel porre fine alla sua vita puo' presentarsi al malato come l'unica
via d'uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di
dignita' della persona, a un mantenimento artificiale in vita non
piu' voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all'art.
32, secondo comma, Cost. Parametro, questo, non evocato nel
dispositivo nell'ordinanza di rimessione, ma piu' volte richiamato in
motivazione.
Paradigmatica, al riguardo, la vicenda oggetto del giudizio
principale, relativa a persona che, a seguito di grave incidente
stradale, era rimasta priva della vista e tetraplegica, non piu'
autonoma nella respirazione (necessitando dell'ausilio, pur
periodico, di un respiratore inserito in un foro della trachea),
nell'alimentazione (essendo nutrita in via intraparietale) e
nell'evacuazione: conservando, pero', intatte le capacita'
intellettive e la sensibilita' al dolore. Alle sofferenze
psicologiche indotte dalla drammatica condizione di cecita' e di
totale immobilita' si accompagnavano cosi' quelle fisiche,
particolarmente acute, prodotte dagli spasmi e dalle contrazioni da
cui il soggetto era quotidianamente percorso. Condizione, questa,
risultata refrattaria a ogni tentativo di cura, anche sperimentale ed
effettuata persino fuori dai confini nazionali.
In simili casi, la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere
gia' presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con
effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta
di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di
contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Cio',
segnatamente in forza della recente legge 22 dicembre 2017, n. 219
(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate
di trattamento): legge che si autodichiara finalizzata alla tutela
del diritto alla vita, alla salute, alla dignita' e
all'autodeterminazione della persona, nel rispetto dei principi di
cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 1, comma 1).
La disciplina da essa recata, successiva ai fatti oggetto del
giudizio principale, recepisce e sviluppa, nella sostanza, le
conclusioni alle quali era gia' pervenuta all'epoca la giurisprudenza
ordinaria - in particolare a seguito delle sentenze sui casi Welby
(Tribunale ordinario di Roma, 17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro
(Corte di cassazione, sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n.
21748) - nonche' le indicazioni di questa Corte riguardo al valore
costituzionale del principio del consenso informato del paziente al
trattamento sanitario proposto dal medico: principio qualificabile
come «vero e proprio diritto della persona», che «trova fondamento
nei principi espressi nell'art. 2 della Costituzione, che ne tutela e
promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della
Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che "la liberta'
personale e' inviolabile", e che "nessuno puo' essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge"»
(sentenza n. 438 del 2008), svolgendo, in pratica, una «funzione di
sintesi» tra il diritto all'autodeterminazione e quello alla salute
(sentenza n. 253 del 2009).
In quest'ottica, la citata legge n. 219 del 2017 riconosce ad
ogni persona «capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere
qualsiasi trattamento sanitario, ancorche' necessario alla propria
sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione
anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1,
comma 5). L'esercizio di tale diritto viene, peraltro, inquadrato nel
contesto della «relazione di cura e di fiducia» - la cosiddetta
alleanza terapeutica - tra paziente e medico, che la legge mira a
promuovere e valorizzare: relazione «che si basa sul consenso
informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del
paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la
responsabilita' del medico», e che coinvolge, «se il paziente lo
desidera, anche i suoi familiari o la parte dell'unione civile o il
convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo» (art.
1, comma 2). E' in particolare previsto che, ove il paziente
manifesti l'intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari
alla propria sopravvivenza, il medico debba prospettare a lui e, se
vi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze della sua decisione
e le possibili alternative, e promuovere «ogni azione di sostegno al
paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza
psicologica». Cio', ferma restando la possibilita' per il paziente di
modificare in qualsiasi momento la propria volonta' (art. 1, comma
5).
In ogni caso, il medico «e' tenuto a rispettare la volonta'
espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di
rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza di cio', [...]
esente da responsabilita' civile o penale» (art. 1, comma 6).
Integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n. 38
(Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla
terapia del dolore) - che tutela e garantisce l'accesso alle cure
palliative e alla terapia del dolore da parte del paziente,
inserendole nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza - la
legge n. 219 del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei
trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie
palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art.
2, comma 1). Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che il
medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione
palliativa profonda continua in associazione con la terapia del
dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti
sanitari. Tale disposizione non puo' non riferirsi anche alle
sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di
trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l'idratazione
o l'alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di
indebolimento delle funzioni organiche il cui esito - non
necessariamente rapido - e' la morte.
9.- La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al
medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente
che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non
gia' ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte.
In tal modo, si costringe il paziente a subire un processo piu'
lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della
dignita' nel morire e piu' carico di sofferenze per le persone che
gli sono care.
Secondo quanto ampiamente dedotto dalla parte costituita, nel
caso oggetto del giudizio a quo l'interessato richiese l'assistenza
al suicidio, scartando la soluzione dell'interruzione dei trattamenti
di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione
profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio
perche' quest'ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. Non
essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore
artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di
apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalita' di
porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e
che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo.
Nelle ipotesi in esame vengono messe in discussione, d'altronde,
le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la
repressione penale dell'aiuto al suicidio.
Se, infatti, il cardinale rilievo del valore della vita non
esclude l'obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine
alla propria esistenza tramite l'interruzione dei trattamenti
sanitari - anche quando cio' richieda una condotta attiva, almeno sul
piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo
spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di
una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) - non vi
e' ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un
ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all'accoglimento della
richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso
piu' lento - apprezzato come contrario alla propria idea di morte
dignitosa - conseguente all'anzidetta interruzione dei presidi di
sostegno vitale.
Quanto, poi, all'esigenza di proteggere le persone piu'
vulnerabili, e' ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi
sofferenze sono solitamente ascrivibili a tale categoria di soggetti.
Ma e' anche agevole osservare che, se chi e' mantenuto in vita da un
trattamento di sostegno artificiale e' considerato dall'ordinamento
in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre
termine alla propria esistenza tramite l'interruzione di tale
trattamento, non si vede perche' il medesimo soggetto debba essere
ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata
protezione contro la propria volonta' quando si discuta della
decisione di concludere la propria esistenza con l'aiuto di altri,
quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta
interruzione.
Entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di
aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la liberta' di
autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese
quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli
artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima
analisi un'unica modalita' per congedarsi dalla vita, senza che tale
limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro
interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione
del principio della dignita' umana, oltre che dei principi di
ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni
soggettive (art. 3 Cost.: parametro, quest'ultimo, peraltro non
evocato dal giudice a quo in rapporto alla questione principale, ma
comunque sia rilevante quale fondamento della tutela della dignita'
umana).
10.- Al riscontrato vulnus ai principi sopra indicati, questa
Corte ritiene, peraltro, di non poter porre rimedio, almeno allo
stato, a traverso la mera estromissione dall'ambito applicativo della
disposizione penale delle ipotesi in cui l'aiuto venga prestato nei
confronti di soggetti che versino nelle condizioni appena descritte.
Una simile soluzione lascerebbe, infatti, del tutto priva di
disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in
tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilita' etico-sociale
e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili
abusi.
In assenza di una specifica disciplina della materia, piu' in
particolare, qualsiasi soggetto - anche non esercente una professione
sanitaria - potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a
domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al
suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante
sull'effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacita' di
autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da
essi espressa e dell'irreversibilita' della patologia da cui sono
affetti.
Di tali possibili conseguenze della propria decisione questa
Corte non puo' non farsi carico, anche allorche' sia chiamata, come
nel presente caso, a vagliare la incompatibilita' con la Costituzione
esclusivamente di una disposizione di carattere penale.
Una regolazione della materia, intesa ad evitare simili scenari,
gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di
vulnerabilita', e' suscettibile peraltro di investire plurimi
profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile
sulla base di scelte discrezionali: come, ad esempio, le modalita' di
verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei
quali una persona possa richiedere l'aiuto, la disciplina del
relativo "processo medicalizzato", l'eventuale riserva esclusiva di
somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale,
la possibilita' di una obiezione di coscienza del personale sanitario
coinvolto nella procedura.
D'altra parte, una disciplina delle condizioni di attuazione
della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie
sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e
correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche a
traverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare
rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziche' mediante
una mera modifica della disposizione penale di cui all'art. 580 cod.
pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel
contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da
inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e
di fiducia tra paziente e medico», opportunamente valorizzata
dall'art. 1 della legge medesima.
Peraltro, l'eventuale collegamento della non punibilita' al
rispetto di una determinata procedura potrebbe far sorgere l'esigenza
di introdurre una disciplina ad hoc per le vicende pregresse (come
quella oggetto del giudizio a quo), che di tale non punibilita' non
potrebbero altrimenti beneficiare: anche qui con una varieta' di
soluzioni possibili.
Dovrebbe essere valutata, infine, l'esigenza di adottare
opportune cautele affinche' - anche nell'applicazione pratica della
futura disciplina - l'opzione della somministrazione di farmaci in
grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del
paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da
parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente
medesimo concrete possibilita' di accedere a cure palliative diverse
dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua
sofferenza - in accordo con l'impegno assunto dallo Stato con la
citata legge n. 38 del 2010 - si' da porlo in condizione di vivere
con intensita' e in modo dignitoso la parte restante della propria
esistenza. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative
dovrebbe costituire, infatti, un pre-requisito della scelta, in
seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente.
I delicati bilanciamenti ora indicati restano affidati, in linea
di principio, al Parlamento, il compito naturale di questa Corte
essendo quello di verificare la compatibilita' di scelte gia'
compiute dal legislatore, nell'esercizio della propria
discrezionalita' politica, con i limiti dettati dalle esigenze di
rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle
persone coinvolti.
11.- In situazioni analoghe a quella in esame, questa Corte ha,
sino ad oggi, dichiarato l'inammissibilita' della questione
sollevata, accompagnando la pronuncia con un monito al legislatore
affinche' provvedesse all'adozione della disciplina necessaria al
fine di rimuovere il vulnus costituzionale riscontrato: pronuncia
alla quale, nel caso in cui il monito fosse rimasto senza riscontro,
ha fatto seguito, di norma, una declaratoria di illegittimita'
costituzionale (ad esempio: sentenza n. 23 del 2013 e successiva
sentenza n. 45 del 2015).
Questa tecnica decisoria ha, tuttavia, l'effetto di lasciare in
vita - e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di
tempo non preventivabile - la normativa non conforme a Costituzione.
La eventuale dichiarazione di incostituzionalita' conseguente
all'accertamento dell'inerzia legislativa presuppone, infatti, che
venga sollevata una nuova questione di legittimita' costituzionale,
la quale puo', peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di
tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilita',
mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare.
Un simile effetto non puo' considerarsi consentito nel caso in
esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei
valori da esso coinvolti.
Onde evitare che la norma possa trovare, in parte qua,
applicazione medio tempore, lasciando pero', pur sempre, al
Parlamento la possibilita' di assumere le necessarie decisioni
rimesse in linea di principio alla sua discrezionalita' - ferma
restando l'esigenza di assicurare la tutela del malato nei limiti
indicati dalla presente pronuncia - la Corte ritiene, dunque, di
dover provvedere in diverso modo, facendo leva sui propri poteri di
gestione del processo costituzionale: ossia di disporre il rinvio del
giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni di
legittimita' costituzionale all'udienza del 24 settembre 2019, in
esito alla quale potra' essere valutata l'eventuale sopravvenienza di
una legge che regoli la materia in conformita' alle segnalate
esigenze di tutela. Rimarra' nel frattempo sospeso anche il giudizio
a quo. Negli altri giudizi, spettera' ai giudici valutare se, alla
luce di quanto indicato nella presente pronuncia, analoghe questioni
di legittimita' costituzionale della disposizione in esame debbano
essere considerate rilevanti e non manifestamente infondate, cosi' da
evitare l'applicazione della disposizione stessa in parte qua.
La soluzione ora adottata si fa carico, in definitiva, di
preoccupazioni analoghe a quelle che hanno ispirato la Corte Suprema
canadese, allorche' ha dichiarato, nel 2015, l'illegittimita'
costituzionale di una disposizione penale analoga a quella ora
sottoposta allo scrutinio, nella parte in cui tale disposizione
proibiva l'assistenza medica al suicidio di una persona adulta capace
che abbia chiaramente consentito a por fine alla propria vita, e che
soffra di una patologia grave e incurabile che provoca sofferenze
persistenti e intollerabili. In quell'occasione, i supremi giudici
canadesi stabilirono di sospendere per dodici mesi l'efficacia della
decisione stessa, proprio per dare l'opportunita' al parlamento di
elaborare una complessiva legislazione in materia, evitando la
situazione di vuoto legislativo che si sarebbe creata in conseguenza
della decisione (Corte Suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015,
Carter contro Canada, 2015, CSC 5).
Lo spirito della presente decisione e', d'altra parte,
simigliante a quello della recente sentenza della Corte Suprema
inglese in materia di assistenza al suicidio, in cui la maggioranza
dei giudici ritenne «istituzionalmente inappropriato per una corte,
in questo momento, dichiarare che [la disposizione allora oggetto di
scrutinio] e' incompatibile con l'art. 8 [CEDU]», senza dare al
Parlamento l'opportunita' di considerare il problema (Corte Suprema
del Regno Unito, sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, [2014]
UKSC 38). Sottolinearono in quell'occasione i supremi giudici inglesi
che una anche solo parziale legalizzazione dell'assistenza al
suicidio medicalmente assistito rappresenta una questione difficile,
controversa ed eticamente sensibile, che richiede un approccio
prudente delle corti; e aggiunsero che una simile questione reclama
una valutazione approfondita da parte del legislatore, che ha la
possibilita' di intervenire - in esito a un iter procedurale nel
quale possono essere coinvolti una pluralita' di esperti e di
portatori di interessi contrapposti - dettando una nuova complessiva
regolamentazione della materia di carattere non penale, comprensiva
di uno schema procedurale che consenta una corretta applicazione ai
casi concreti delle regole cosi' stabilite. Il tutto in un contesto
espressamente definito «collaborativo» e «dialogico» fra Corte e
Parlamento.
Va dunque conclusivamente rilevato che, laddove, come nella
specie, la soluzione del quesito di legittimita' costituzionale
coinvolga l'incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto
bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che
anzitutto il legislatore e' abilitato a compiere, questa Corte reputa
doveroso - in uno spirito di leale e dialettica collaborazione
istituzionale - consentire, nella specie, al Parlamento ogni
opportuna riflessione e iniziativa, cosi' da evitare, per un verso,
che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a
produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al
tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori,
anch'essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
rinvia all'udienza pubblica del 24 settembre 2019 la trattazione
delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate con
l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 novembre 2018.
Il Cancelliere
F.to: Filomena PERRONE
Allegato:
ordinanza letta all'udienza del 23 ottobre 2018
ORDINANZA
Rilevato che, nel giudizio di legittimita' costituzionale
promosso dalla Corte d'assise di Milano con ordinanza del 14 febbraio
2018 (r.o. n. 43 del 2018), hanno depositato atto di intervento il
Centro Studi "Rosario Livatino", la libera associazione di
volontariato "Vita e'" e il Movimento per la vita italiano, in
persona dei rispettivi legali rappresentati pro tempore;
che, la libera associazione di volontariato "Vita e'" ha,
altresi', depositato memoria in data 26 settembre 2018.
Considerato che le associazioni sopra indicate non rivestono la
qualita' di parti del giudizio principale;
che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (tra le
tante, le ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017, n. 237 e
n. 134 del 2013), la partecipazione al giudizio di legittimita'
costituzionale e' circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a
quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso
di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4
delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale);
che a tale disciplina e' possibile derogare - senza venire in
contrasto con il carattere incidentale del giudizio di
costituzionalita' - soltanto a favore di soggetti terzi che siano
titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al
rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 29 del
2017, n. 286 e n. 243 del 2016);
che il presente giudizio - che ha ad oggetto l'art. 580 del
codice penale, nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al
suicidio «a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al
rafforzamento del proposito di suicidio», nonche' nella parte in cui
punisce tali condotte con la medesima pena prevista per l'istigazione
al suicidio - non sarebbe destinato a produrre, nei confronti delle
associazioni intervenienti, effetti immediati, neppure indiretti;
che, pertanto, esse non sono legittimate a partecipare al
giudizio dinanzi a questa Corte.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi del Centro Studi "Rosario
Livatino", della libera associazione di volontariato "Vita e'" e del
Movimento per la vita italiano.
F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente
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mercoledì 21 novembre 2018
N. 207 ORDINANZA 24 ottobre - 16 novembre 2018 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Reati e pene - Istigazione o aiuto al suicidio - Incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte dell'istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito al suicidio - Trattamento sanzionatorio. - Codice penale, art. 580. - (T-180207) (GU 1a Serie Speciale - Corte Costituzionale n.46 del 21-11-2018)
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