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mercoledì 21 novembre 2018

N. 207 ORDINANZA 24 ottobre - 16 novembre 2018 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Reati e pene - Istigazione o aiuto al suicidio - Incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte dell'istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito al suicidio - Trattamento sanzionatorio. - Codice penale, art. 580. - (T-180207) (GU 1a Serie Speciale - Corte Costituzionale n.46 del 21-11-2018)

N. 207 ORDINANZA 24 ottobre - 16 novembre 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Reati e pene - Istigazione o aiuto al suicidio - Incriminazione delle
  condotte  di  aiuto  al  suicidio  in  alternativa  alle   condotte
  dell'istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo  alla
  determinazione o al  rafforzamento  del  proposito  al  suicidio  -
  Trattamento sanzionatorio.
- Codice penale, art. 580.

(GU n.46 del 21-11-2018 )
 

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI,
     
    ha pronunciato la seguente

                              ORDINANZA

    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  580  del
codice  penale,  promosso  dalla  Corte  di  assise  di  Milano,  nel
procedimento penale a carico di M. C., con ordinanza del 14  febbraio
2018, iscritta al n. 43 del  registro  ordinanze  2018  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  11,  prima   serie
speciale, dell'anno 2018.
    Visti l'atto di costituzione  di  M.  C.,  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  del  Centro
Studi "Rosario Livatino", della libera associazione  di  volontariato
"Vita e'" e del Movimento per la vita italiano;
    udito nella udienza pubblica  del  23  ottobre  2018  il  Giudice
relatore Franco Modugno;
    uditi gli avvocati Simone Pillon per la  libera  associazione  di
volontariato "Vita e'", Mauro Ronco  per  il  Centro  Studi  "Rosario
Livatino", Ciro  Intino  per  il  Movimento  per  la  vita  italiano,
Filomena Gallo e Vittorio Manes per M. C. e  l'avvocato  dello  Stato
Gabriella   Palmieri   per   il   Presidente   del   Consiglio    dei
ministri.Ritenuto in fatto
    1.- Con ordinanza del 14 febbraio  2018,  la  Corte  d'assise  di
Milano  ha  sollevato  questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 580 del codice penale:
    a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio
in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a  prescindere
dal loro  contributo  alla  determinazione  o  al  rafforzamento  del
proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt.  2,  13,
primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e  8
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;
    b) «nella parte in cui prevede che le  condotte  di  agevolazione
dell'esecuzione  del  suicidio,  che  non   incidano   sul   percorso
deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con  la  pena
della reclusione da 5  a  10  [recte:  12]  anni,  senza  distinzione
rispetto alle condotte di istigazione», per  ritenuto  contrasto  con
gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
    Con riguardo alle questioni sub a),  il  riferimento  all'art.  3
(anziche'   all'art.   2)   Cost.   che   compare   nel   dispositivo
dell'ordinanza di rimessione deve considerarsi frutto di mero  errore
materiale, alla luce del tenore complessivo della motivazione e delle
«[c]onclusioni» che precedono immediatamente il dispositivo stesso.
    Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni  traggono
origine dalla vicenda di F. A., il  quale,  a  seguito  di  un  grave
incidente  stradale  avvenuto  il  13  giugno   2014,   era   rimasto
tetraplegico e  affetto  da  cecita'  bilaterale  corticale  (dunque,
permanente).  Non  era  autonomo  nella  respirazione   (necessitando
dell'ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche
asportazioni di muco), nell'alimentazione  (venendo  nutrito  in  via
intraparietale)  e  nell'evacuazione.  Era  percorso,  altresi',   da
ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze,  che
non potevano essere completamente lenite farmacologicamente,  se  non
mediante sedazione profonda. Conservava, pero', intatte  le  facolta'
intellettive.
    All'esito di lunghi e ripetuti ricoveri  ospedalieri  e  di  vari
tentativi di riabilitazione  e  di  cura  (comprensivi  anche  di  un
trapianto di cellule  staminali  effettuato  in  India  nel  dicembre
2015), la sua condizione era risultata irreversibile.  Aveva  percio'
maturato, a poco meno di due  anni  di  distanza  dall'incidente,  la
volonta' di porre fine alla sua esistenza,  comunicandola  ai  propri
cari. Di fronte  ai  tentativi  della  madre  e  della  fidanzata  di
dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile
determinazione aveva intrapreso uno "sciopero"  della  fame  e  della
parola, rifiutando per  alcuni  giorni  di  essere  alimentato  e  di
parlare.
    Di seguito a cio', aveva preso contatto nel maggio 2016,  tramite
la propria fidanzata, con organizzazioni  svizzere  che  si  occupano
dell'assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe  condizioni,
dalla legislazione elvetica.
    Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato
nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilita' di
sottoporsi  in  Italia  a   sedazione   profonda,   interrompendo   i
trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.
    Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in  Svizzera  per  il
suicidio assistito, l'imputato aveva accettato  di  accompagnarlo  in
automobile presso la struttura prescelta. Inviata a  quest'ultima  la
documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la  piena
capacita' di intendere e di volere, F. A. aveva  alfine  ottenuto  da
essa il "benestare" al suicidio assistito, con fissazione della data.
Nei  mesi  successivi  alla  relativa   comunicazione,   egli   aveva
costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli
amici e poi  pubblicamente  (tramite  un  filmato  e  un  appello  al
Presidente della Repubblica)  e  affermando  «di  viverla  come  "una
liberazione"».
    Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano  (ove
risiedeva) in  Svizzera,  a  bordo  di  un'autovettura  appositamente
predisposta, con alla guida l'imputato e, al seguito,  la  madre,  la
fidanzata e la madre di quest'ultima.
    In  Svizzera,  il  personale  della  struttura  prescelta   aveva
nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso  e
la sua capacita' di assumere in  via  autonoma  il  farmaco  che  gli
avrebbe  procurato  la  morte.  In  quegli   ultimi   giorni,   tanto
l'imputato, quanto i familiari avevano continuato a restargli vicini,
rappresentandogli che  avrebbe  potuto  desistere  dal  proposito  di
togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in
Italia.
    Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio
2017): azionando con la  bocca  uno  stantuffo,  l'interessato  aveva
iniettato nelle sue vene il farmaco letale.
    Di  ritorno  dal  viaggio,  M.  C.  si  era   autodenunciato   ai
carabinieri.
    A seguito di ordinanza di "imputazione coatta", adottata ai sensi
dell'art. 409 del codice di  procedura  penale  dal  Giudice  per  le
indagini preliminari del Tribunale  ordinario  di  Milano,  egli  era
stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte rimettente  per  il
reato di cui all'art. 580 cod. pen., tanto  per  aver  rafforzato  il
proposito  di  suicidio  di  F.  A.,  quanto  per  averne   agevolato
l'esecuzione.
    Il giudice a quo esclude,  peraltro,  la  configurabilita'  della
prima ipotesi accusatoria. Alla luce delle prove  assunte  nel  corso
dell'istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe, infatti,  maturato  la
decisione   di   rivolgersi   all'associazione   svizzera   prima   e
indipendentemente dall'intervento dell'imputato.
    La Corte rimettente ritiene,  invece,  che  l'accompagnamento  in
auto di F. A. presso la clinica elvetica integri, in base al "diritto
vivente", la fattispecie dell'aiuto al suicidio, in quanto condizione
per la realizzazione dell'evento. L'unica  sentenza  della  Corte  di
cassazione che si e' occupata del tema ha, infatti, affermato che  le
condotte di agevolazione, incriminate dalla norma  censurata  in  via
alternativa rispetto  a  quelle  di  istigazione,  debbono  ritenersi
percio'  stesso  punibili  a  prescindere  dalle  loro  ricadute  sul
processo deliberativo dell'aspirante suicida  (Corte  di  cassazione,
sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147).
    Su  questo  presupposto,  la  Corte  d'assise  milanese   dubita,
tuttavia, della legittimita' costituzionale  della  norma  censurata,
anzitutto nella parte in  cui  incrimina  le  condotte  di  aiuto  al
suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o  a
rafforzare il proposito della vittima.
    Il  giudice  a  quo  rileva  come  la   disposizione   denunciata
presupponga che il suicidio  sia  un  atto  intriso  di  elementi  di
disvalore,  in  quanto  contrario  al  principio  di   sacralita'   e
indisponibilita' della vita in  correlazione  agli  obblighi  sociali
dell'individuo,  ritenuti  preminenti  nella   visione   del   regime
fascista.
    La disposizione dovrebbe essere, pero', riletta alla  luce  della
Costituzione: in particolare, del principio personalistico  enunciato
dall'art. 2 - che pone l'uomo e non lo Stato  al  centro  della  vita
sociale - e di quello di  inviolabilita'  della  liberta'  personale,
affermato dall'art. 13; principi alla luce dei quali la vita -  primo
fra tutti i diritti  inviolabili  dell'uomo  -  non  potrebbe  essere
«concepita  in  funzione  di  un  fine  eteronomo  rispetto  al   suo
titolare». Di  qui,  dunque,  anche  la  liberta'  della  persona  di
scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.
    Il diritto all'autodeterminazione individuale, previsto dall'art.
32  Cost.  con  riguardo  ai  trattamenti  terapeutici,   e'   stato,
d'altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza  e  poi
dal legislatore, con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme
in materia di consenso informato  e  di  disposizioni  anticipate  di
trattamento), che sancisce l'obbligo di rispettare le  decisioni  del
paziente, anche quando ne possa derivare la morte.
    La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo.  Essa  avrebbe  conosciuto
una  evoluzione,  il  cui  approdo   finale   sarebbe   rappresentato
dall'esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che
riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla  vita  e
il diritto al rispetto della vita privata), del  diritto  di  ciascun
individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria  vita
finira'».
    A  fronte  di  cio',  il  bene  giuridico  protetto  dalla  norma
denunciata andrebbe oggi identificato,  non  gia'  nel  diritto  alla
vita, ma nella liberta' e consapevolezza della decisione del soggetto
passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta.
    In quest'ottica, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio
che non  abbiano  inciso  sul  percorso  deliberativo  della  vittima
risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13, primo  comma,
e 117 Cost. In tale ipotesi, infatti,  la  condotta  dell'agevolatore
rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di  quanto  deciso
da un soggetto che esercita una liberta'  costituzionale,  risultando
quindi inoffensiva.
    La Corte d'assise milanese censura, per  altro  verso,  la  norma
denunciata nella parte  in  cui  punisce  le  condotte  di  aiuto  al
suicidio, non rafforzative del proposito dell'aspirante suicida,  con
la stessa severa pena - reclusione da cinque a dieci [recte:  dodici]
anni  -  prevista  per  le  condotte  di  istigazione,  da   ritenere
nettamente piu' gravi.
    La disposizione violerebbe, per questo  verso,  l'art.  3  Cost.,
unitamente al principio di proporzionalita' della pena  al  disvalore
del fatto, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27,  terzo
comma, Cost.
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilita'  delle  questioni
sotto plurimi profili, deducendone, in ogni caso, l'infondatezza  nel
merito.
    3.- Si e' costituito altresi' l'imputato nel giudizio a  quo,  il
quale, con memoria  integrativa  -  contestata  la  fondatezza  delle
eccezioni di inammissibilita'  -  ha  rilevato  come,  di  la'  dalla
generica formulazione del petitum,  le  questioni  debbano  ritenersi
radicate sul caso di specie: prospettiva nella  quale  ha  chiesto  -
sulla base di articolate considerazioni - che l'art.  580  cod.  pen.
sia dichiarato illegittimo «nella parte in cui punisce la condotta di
chi  abbia  agevolato  l'esecuzione   della   volonta',   liberamente
formatasi,  della  persona  che  versi  in  uno  stato  di   malattia
irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che l'agevolazione
sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente, avrebbe  potuto
darsi  la  morte  rifiutando  i  trattamenti  sanitari»;  ovvero,  in
subordine,  «nella  parte  in  cui  prevede  che   le   condotte   di
agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione  del
proposito suicidario siano punite allo stesso modo della  istigazione
al suicidio».
    Nella memoria per l'udienza, la parte costituita  ha  prospettato
anche  la  possibilita'   di   un   superamento   dei   problemi   di
costituzionalita' denunciati a mezzo di una  sentenza  interpretativa
di rigetto.
    4.- Con ordinanza pronunciata all'udienza pubblica del 23 ottobre
2018 questa Corte  ha  dichiarato  inammissibili  gli  interventi  ad
opponendum  del  Centro  Studi  "Rosario  Livatino",   della   libera
associazione di volontariato "Vita e'" e del Movimento  per  la  vita
italiano.
     
    Considerato in diritto
    1.-  La  Corte  d'assise  di  Milano  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 580 del codice penale, che prevede il  reato
di istigazione o aiuto al suicidio, sotto due distinti profili.
    Da un lato, pone in discussione il  perimetro  applicativo  della
disposizione  censurata,  lamentando  che  essa  incrimini  anche  le
condotte  di  aiuto  al  suicidio  che  non  abbiano  contribuito   a
determinare o a rafforzare il proposito  della  vittima.  Dall'altro,
contesta il trattamento  sanzionatorio  riservato  a  tali  condotte,
dolendosi del fatto che esse siano punite  con  la  medesima,  severa
pena prevista per le piu' gravi condotte di istigazione.
    Il giudice a  quo  non  pone  alcun  rapporto  di  subordinazione
espressa tra le questioni.  Esso  e',  pero',  in  re  ipsa.  Appare,
infatti, evidente che le censure  relative  alla  misura  della  pena
hanno un senso solo in quanto  le  condotte  avute  di  mira  restino
penalmente rilevanti: il che presuppone il mancato accoglimento delle
questioni intese a ridefinire i confini applicativi della fattispecie
criminosa.
    2.-  Cio'  puntualizzato,  le   eccezioni   di   inammissibilita'
formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri non sono fondate.
    Contrariamente a quanto sostenuto dall'Avvocatura generale  dello
Stato, la circostanza che il giudice a quo abbia  gia'  escluso  che,
nella specie, il comportamento dell'imputato sia valso  a  rafforzare
il proposito  di  suicidio  della  vittima  non  rende  le  questioni
irrilevanti.  Queste  ultime  poggiano,   infatti,   sulla   premessa
ermeneutica che l'agevolazione del suicidio sia repressa anche se non
influente sul percorso deliberativo del  soggetto  passivo  e  mirano
proprio a denunciare l'illegittimita' costituzionale  di  una  simile
disciplina.
    Si tratta, a ben vedere, di una premessa corretta.  La  soluzione
interpretativa  di  segno  inverso  risulterebbe,  in   effetti,   in
contrasto con la lettera della disposizione, poiche'  si  tradurrebbe
in una interpretatio abrogans. Nel momento stesso in cui si ritenesse
che la condotta di agevolazione sia punibile  solo  se  generativa  o
rafforzativa  dell'intento  suicida,  si  priverebbe  totalmente   di
significato  la  previsione  -  ad  opera  della  norma  censurata  -
dell'ipotesi dell'aiuto al suicidio, come fattispecie  alternativa  e
autonoma («ovvero») rispetto a quella dell'istigazione.
    Cio' e' sufficiente ad  escludere  che  possa  ritenersi  fondata
l'ulteriore eccezione formulata dall'Avvocatura generale dello Stato,
di inammissibilita' delle questioni perche' finalizzate a  conseguire
un avallo interpretativo e non precedute dal  doveroso  tentativo  di
interpretazione   conforme   a   Costituzione   della    disposizione
denunciata. Come affermato piu' volte da  questa  Corte,  l'onere  di
interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all'incidente
di   costituzionalita',   allorche'   il   tenore   letterale   della
disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze
n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016, n. 219  del  2008).
In quest'ottica, non  influisce,  dunque,  sull'ammissibilita'  delle
questioni la circostanza che il presupposto ermeneutico su  cui  esse
poggiano  risulti  recepito,  per  affermazione  della  stessa  Corte
rimettente, in un'unica pronuncia resa da una sezione semplice  della
Corte di cassazione (la  sola  in  argomento:  Corte  di  cassazione,
sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo  1998,  n.  3147);
pronuncia che, proprio perche' isolata, non sarebbe di per se' idonea
a determinare - contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo - la
formazione di un "diritto vivente" (ex plurimis, sentenze n. 223  del
2013 e n. 258 del 2012, ordinanza n. 139 del 2011).
    3.- Ugualmente infondata - in rapporto al petitum del  giudice  a
quo - e'  la  conclusiva  eccezione  dell'Avvocatura  generale  dello
Stato,  di  inammissibilita'  delle  questioni  per  avere  la  Corte
rimettente richiesto una pronuncia manipolativa  in  materia  rimessa
alla    discrezionalita'    del    legislatore    -    come    quella
dell'individuazione dei fatti da sottoporre a pena -  in  assenza  di
una soluzione costituzionalmente obbligata.
    Al riguardo, va osservato che il giudice a  quo  chiede,  in  via
principale,  a  questa  Corte  di  rendere   penalmente   irrilevante
l'agevolazione  dell'altrui  suicidio  che  non  abbia  inciso  sulla
decisione della vittima,  a  prescindere  da  ogni  riferimento  alle
condizioni personali del soggetto passivo  e  alle  ragioni  del  suo
gesto:  il  che  equivarrebbe,  nella  sostanza,   a   rimuovere   la
fattispecie criminosa  dell'aiuto  al  suicidio,  facendola  ricadere
integralmente in quella dell'istigazione. Di la'  dalla  formulazione
letterale del petitum, la Corte d'assise milanese invoca, dunque, una
pronuncia  a  carattere  meramente  ablativo:  pronuncia  che,  nella
prospettiva  della  rimettente,  rappresenterebbe   una   conseguenza
automatica della linea argomentativa  posta  a  base  delle  censure,
senza implicare alcun intervento "creativo". Ad avviso del giudice  a
quo, infatti, gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione,
in riferimento agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848, attribuirebbero a ciascuna persona  la  liberta'
di scegliere quando e come porre fine alla propria vita: ottica nella
quale  l'aiuto  al  suicidio  prestato  in  favore  di  chi  si   sia
autonomamente   determinato   nell'esercizio   di    tale    liberta'
costituzionale  si  tradurrebbe,  in  ogni  caso,  in  una   condotta
inoffensiva.
    4.- Nel  merito,  la  tesi  della  Corte  rimettente,  nella  sua
assolutezza, non puo' essere condivisa.
    Analogamente  a   quanto   avviene   nelle   altre   legislazioni
contemporanee, anche il nostro ordinamento non punisce  il  suicidio,
neppure quando sarebbe materialmente possibile,  ossia  nel  caso  di
tentato suicidio. Punisce, pero', severamente (con la  reclusione  da
cinque a dodici anni) chi concorre nel suicidio altrui,  tanto  nella
forma del concorso morale, vale a dire determinando o rafforzando  in
altri  il  proposito  suicida,  quanto  nella  forma   del   concorso
materiale, ossia agevolandone «in qualsiasi modo» l'esecuzione. Cio',
sempre che il suicidio abbia luogo o  che,  quantomeno,  dal  tentato
suicidio derivi una lesione personale grave o  gravissima  (nel  qual
caso e' prevista una pena minore).
    Il legislatore penale intende dunque, nella sostanza,  proteggere
il soggetto da decisioni in suo danno: non  ritenendo,  tuttavia,  di
poter  colpire  direttamente  l'interessato,  gli  crea  intorno  una
"cintura protettiva", inibendo ai terzi  di  cooperare  in  qualsiasi
modo con lui.
    Questo assetto non puo' ritenersi contrastante, di per se', con i
parametri evocati.
    5.- Non e' pertinente, anzitutto, il riferimento  del  rimettente
al diritto alla vita, riconosciuto implicitamente - come  «primo  dei
diritti inviolabili dell'uomo» (sentenza n. 223 del 1996), in  quanto
presupposto per l'esercizio di tutti gli altri -  dall'art.  2  Cost.
(sentenza n. 35 del 1997), nonche', in modo  esplicito,  dall'art.  2
CEDU.
    Dall'art. 2 Cost. - non  diversamente  che  dall'art.  2  CEDU  -
discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo:
non quello - diametralmente opposto - di riconoscere all'individuo la
possibilita' di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.
    Che dal diritto alla vita, garantito dall'art. 2 CEDU, non  possa
derivare il diritto di rinunciare  a  vivere,  e  dunque  un  vero  e
proprio diritto a morire, e' stato, del  resto,  da  tempo  affermato
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, proprio in relazione  alla
tematica dell'aiuto al suicidio  (sentenza  29  aprile  2002,  Pretty
contro Regno Unito).
    6.- Neppure, d'altro canto - contrariamente  a  quanto  sostenuto
dal giudice a quo - e' possibile desumere la generale  inoffensivita'
dell'aiuto al suicidio da un generico diritto  all'autodeterminazione
individuale, riferibile anche al bene della vita, che  il  rimettente
fa discendere dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost.
    In senso contrario, va infatti rilevato come non possa  dubitarsi
che l'art. 580 cod. pen. - anche nella parte in cui sottopone a  pena
la  cooperazione  materiale  al  suicidio  -  sia   funzionale   alla
protezione   di   interessi   meritevoli   di   tutela    da    parte
dell'ordinamento.
    E' ben vero quanto rileva il  giudice  a  quo,  e  cioe'  che  il
legislatore del 1930,  mediante  la  norma  incriminatrice  in  esame
(peraltro gia' presente nel previgente codice penale del  1889:  art.
370),  intendeva  tutelare   la   vita   umana   intesa   come   bene
indisponibile, anche in funzione dell'interesse che la  collettivita'
riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini.  Ma  e'
anche vero che non e' affatto  arduo  cogliere,  oggi,  la  ratio  di
tutela di una norma quale l'art. 580 cod. pen. alla luce  del  mutato
quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore
in se', e non come a un semplice  mezzo  per  il  soddisfacimento  di
interessi collettivi.
    L'incriminazione dell'istigazione  e  dell'aiuto  al  suicidio  -
rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei  -  e',
in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto
delle persone piu' deboli e  vulnerabili,  che  l'ordinamento  penale
intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come  quella
del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante  attualita',  di
tutelare le persone che attraversano difficolta' e sofferenze,  anche
per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in  atto
il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano  interferenze
di ogni genere.
    La circostanza, del tutto  comprensibile  e  rispondente  ad  una
opzione da  tempo  universalmente  radicata,  che  l'ordinamento  non
sanzioni chi abbia tentato di porre fine alla propria vita non  rende
affatto incoerente la scelta di punire chi cooperi materialmente alla
dissoluzione   della   vita   altrui,    coadiuvando    il    suicida
nell'attuazione  del  suo  proposito.   Condotta,   questa,   che   -
diversamente dalla prima - fuoriesce dalla sfera personale di chi  la
compie, innescando una relatio ad alteros di fronte alla quale  viene
in rilievo, nella sua pienezza, l'esigenza di rispetto del bene della
vita.
    Il  divieto  in  parola  conserva  una  propria  evidente  ragion
d'essere anche, se  non  soprattutto,  nei  confronti  delle  persone
malate, depresse,  psicologicamente  fragili,  ovvero  anziane  e  in
solitudine,  le  quali  potrebbero  essere   facilmente   indotte   a
congedarsi   prematuramente   dalla   vita,   qualora   l'ordinamento
consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all'esecuzione  di
una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale  tornaconto.
Al legislatore penale non puo'  ritenersi  inibito,  dunque,  vietare
condotte che spianino la strada a scelte  suicide,  in  nome  di  una
concezione  astratta  dell'autonomia  individuale   che   ignora   le
condizioni concrete di disagio o di abbandono  nelle  quali,  spesso,
simili decisioni vengono concepite. Anzi, e' compito della Repubblica
porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere  chi  versa  in
simili situazioni di fragilita', rimovendo, in tal modo, gli ostacoli
che impediscano il  pieno  sviluppo  della  persona  umana  (art.  3,
secondo comma, Cost.).
    7.- Le medesime considerazioni ora svolte valgono,  altresi',  ad
escludere che la norma censurata si ponga, sempre e comunque sia,  in
contrasto con l'art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di  ciascun
individuo al rispetto della propria vita privata.
    Nel menzionato caso Pretty contro Regno Unito, la  Corte  europea
dei diritti dell'uomo ha, in  effetti,  dichiarato  che  il  divieto,
penalmente sanzionato, di assistere altri  nel  suicidio  costituisce
un'interferenza con il diritto in questione: diritto che comporta  in
linea di principio - e salvo  il  suo  necessario  bilanciamento  con
interessi e diritti contrapposti, di cui si dira'  poco  oltre  -  il
riconoscimento  all'individuo  di  una  sfera  di   autonomia   nelle
decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che e' a sua  volta  un
aspetto del piu' generale diritto al libero  sviluppo  della  propria
persona. Tale affermazione e' stata ulteriormente  esplicitata  dalla
Corte in plurime occasioni  successive,  nelle  quali  i  giudici  di
Strasburgo hanno affermato - ancora in riferimento a casi  in  cui  i
ricorrenti si dolevano di altrettanti ostacoli frapposti dallo  Stato
resistente al proprio  diritto  di  ottenere  un  aiuto  a  morire  a
traverso la somministrazione di farmaci letali - che  il  diritto  di
ciascuno di decidere come e in quale  momento  debba  avere  fine  la
propria vita, sempre che si tratti di persona capace di prendere  una
decisione libera e di agire in conformita' a tale decisione,  e'  uno
degli aspetti del diritto alla vita privata riconosciuto dall'art.  8
CEDU (Corte EDU, sentenza 20  gennaio  2011,  Haas  contro  Svizzera;
nello stesso senso, sentenza 19 luglio 2012, Koch contro Germania,  e
sentenza 14 maggio 2013, Gross contro Svizzera).
    In forza del paragrafo 2 dello stesso art.  8,  una  interferenza
della pubblica autorita' nell'esercizio di tale diritto e'  possibile
solo  se  prevista  dalla  legge  e  necessaria,  «in  una   societa'
democratica», per gli scopi ivi indicati, tra  i  quali  rientra  «la
protezione dei diritti e  delle  liberta'  altrui».  Per  consolidata
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il concetto  di  necessita'
implica, altresi', che l'interferenza debba  risultare  proporzionata
al legittimo scopo perseguito.
    A questo riguardo, la Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  ha,
peraltro, riconosciuto agli Stati un ampio margine di  apprezzamento,
sottolineando a piu' riprese come incriminazioni generali  dell'aiuto
al suicidio siano presenti nella gran parte delle legislazioni  degli
Stati membri del Consiglio d'Europa (Corte EDU,  sentenza  29  aprile
2002, Pretty contro Regno  Unito;  sentenza  20  gennaio  2011,  Haas
contro Svizzera; sentenza 19 luglio 2012, Koch contro Germania). E la
ragione atta a giustificare, agli effetti dell'art. 8,  paragrafo  2,
CEDU, simili incriminazioni e' stata colta proprio nella finalita'  -
ascrivibile  anche  alla  norma  qui  sottoposta  a  scrutinio  -  di
protezione delle persone deboli e vulnerabili (Corte EDU, sentenza 29
aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).
    8.-   Da   quanto   sinora   osservato   deriva,   dunque,    che
l'incriminazione dell'aiuto al  suicidio  non  puo'  essere  ritenuta
incompatibile con la Costituzione.
    Occorre, tuttavia,  considerare  specificamente  situazioni  come
quella  oggetto  del  giudizio  a  quo:   situazioni   inimmaginabili
all'epoca in cui la norma incriminatrice fu  introdotta,  ma  portate
sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica  e
della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte  pazienti  in
condizioni estremamente compromesse, ma non di  restituire  loro  una
sufficienza di funzioni vitali.
    Il riferimento e', piu' in particolare, alle ipotesi  in  cui  il
soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta  da  una
patologia  irreversibile  e  (b)  fonte  di  sofferenze   fisiche   o
psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c)
tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno  vitale,  ma  resti
(d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
    Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l'assistenza di  terzi
nel porre fine alla sua vita puo' presentarsi al malato come  l'unica
via d'uscita per sottrarsi, nel  rispetto  del  proprio  concetto  di
dignita' della persona, a un mantenimento  artificiale  in  vita  non
piu' voluto e che egli ha il diritto di rifiutare  in  base  all'art.
32,  secondo  comma,  Cost.  Parametro,  questo,  non   evocato   nel
dispositivo nell'ordinanza di rimessione, ma piu' volte richiamato in
motivazione.
    Paradigmatica, al  riguardo,  la  vicenda  oggetto  del  giudizio
principale, relativa a persona che,  a  seguito  di  grave  incidente
stradale, era rimasta priva della  vista  e  tetraplegica,  non  piu'
autonoma   nella   respirazione   (necessitando   dell'ausilio,   pur
periodico, di un respiratore inserito  in  un  foro  della  trachea),
nell'alimentazione  (essendo  nutrita  in   via   intraparietale)   e
nell'evacuazione:   conservando,   pero',   intatte   le    capacita'
intellettive  e  la   sensibilita'   al   dolore.   Alle   sofferenze
psicologiche indotte dalla drammatica  condizione  di  cecita'  e  di
totale  immobilita'   si   accompagnavano   cosi'   quelle   fisiche,
particolarmente acute, prodotte dagli spasmi e dalle  contrazioni  da
cui il soggetto era  quotidianamente  percorso.  Condizione,  questa,
risultata refrattaria a ogni tentativo di cura, anche sperimentale ed
effettuata persino fuori dai confini nazionali.
    In simili casi, la decisione di lasciarsi morire potrebbe  essere
gia' presa dal malato, sulla base  della  legislazione  vigente,  con
effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo  della  richiesta
di interruzione dei trattamenti di  sostegno  vitale  in  atto  e  di
contestuale  sottoposizione  a  sedazione  profonda  continua.  Cio',
segnatamente in forza della recente legge 22 dicembre  2017,  n.  219
(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni  anticipate
di trattamento): legge che si autodichiara  finalizzata  alla  tutela
del   diritto   alla   vita,   alla   salute,   alla    dignita'    e
all'autodeterminazione della persona, nel rispetto  dei  principi  di
cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e  3  della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 1, comma 1).
    La disciplina da essa recata, successiva  ai  fatti  oggetto  del
giudizio  principale,  recepisce  e  sviluppa,  nella  sostanza,   le
conclusioni alle quali era gia' pervenuta all'epoca la giurisprudenza
ordinaria - in particolare a seguito delle sentenze  sui  casi  Welby
(Tribunale ordinario di Roma, 17 ottobre 2007, n.  2049)  ed  Englaro
(Corte di cassazione, sezione  prima  civile,  16  ottobre  2007,  n.
21748) - nonche' le indicazioni di questa Corte  riguardo  al  valore
costituzionale del principio del consenso informato del  paziente  al
trattamento sanitario proposto dal  medico:  principio  qualificabile
come «vero e proprio diritto della persona»,  che  «trova  fondamento
nei principi espressi nell'art. 2 della Costituzione, che ne tutela e
promuove i  diritti  fondamentali,  e  negli  artt.  13  e  32  della
Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che "la liberta'
personale e' inviolabile", e che "nessuno puo' essere obbligato a  un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di  legge"»
(sentenza n. 438 del 2008), svolgendo, in pratica, una  «funzione  di
sintesi» tra il diritto all'autodeterminazione e quello  alla  salute
(sentenza n. 253 del 2009).
    In quest'ottica, la citata legge n. 219  del  2017  riconosce  ad
ogni persona «capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere
qualsiasi trattamento sanitario, ancorche'  necessario  alla  propria
sopravvivenza,  comprendendo  espressamente  nella  relativa  nozione
anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art.  1,
comma 5). L'esercizio di tale diritto viene, peraltro, inquadrato nel
contesto della «relazione di cura  e  di  fiducia»  -  la  cosiddetta
alleanza terapeutica - tra paziente e medico, che  la  legge  mira  a
promuovere  e  valorizzare:  relazione  «che  si  basa  sul  consenso
informato  nel  quale  si  incontrano  l'autonomia  decisionale   del
paziente  e   la   competenza,   l'autonomia   professionale   e   la
responsabilita' del medico», e che  coinvolge,  «se  il  paziente  lo
desidera, anche i suoi familiari o la parte dell'unione civile  o  il
convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo» (art.
1, comma  2).  E'  in  particolare  previsto  che,  ove  il  paziente
manifesti l'intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari
alla propria sopravvivenza, il medico debba prospettare a lui  e,  se
vi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze della sua  decisione
e le possibili alternative, e promuovere «ogni azione di sostegno  al
paziente  medesimo,  anche  avvalendosi  dei  servizi  di  assistenza
psicologica». Cio', ferma restando la possibilita' per il paziente di
modificare in qualsiasi momento la propria volonta'  (art.  1,  comma
5).
    In ogni caso, il medico  «e'  tenuto  a  rispettare  la  volonta'
espressa dal paziente di rifiutare  il  trattamento  sanitario  o  di
rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza  di  cio',  [...]
esente da responsabilita' civile o penale» (art. 1, comma 6).
    Integrando le  previsioni  della  legge  15  marzo  2010,  n.  38
(Disposizioni per garantire l'accesso alle  cure  palliative  e  alla
terapia del dolore) - che tutela e  garantisce  l'accesso  alle  cure
palliative  e  alla  terapia  del  dolore  da  parte  del   paziente,
inserendole nell'ambito dei livelli essenziali  di  assistenza  -  la
legge n. 219 del 2017 prevede che la  richiesta  di  sospensione  dei
trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie
palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente  (art.
2, comma 1). Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che  il
medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla  sedazione
palliativa profonda continua  in  associazione  con  la  terapia  del
dolore,  per  fronteggiare  sofferenze  refrattarie  ai   trattamenti
sanitari.  Tale  disposizione  non  puo'  non  riferirsi  anche  alle
sofferenze  provocate  al  paziente  dal  suo  legittimo  rifiuto  di
trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione,  l'idratazione
o l'alimentazione artificiali: scelta  che  innesca  un  processo  di
indebolimento  delle  funzioni  organiche  il   cui   esito   -   non
necessariamente rapido - e' la morte.
    9.- La legislazione oggi  in  vigore  non  consente,  invece,  al
medico che ne sia richiesto di mettere a  disposizione  del  paziente
che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti  diretti,  non
gia' ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte.
    In tal modo, si costringe il paziente a subire un  processo  piu'
lento, in ipotesi meno  corrispondente  alla  propria  visione  della
dignita' nel morire e piu' carico di sofferenze per  le  persone  che
gli sono care.
    Secondo quanto ampiamente dedotto  dalla  parte  costituita,  nel
caso oggetto del giudizio a quo l'interessato  richiese  l'assistenza
al suicidio, scartando la soluzione dell'interruzione dei trattamenti
di  sostegno  vitale  con  contestuale  sottoposizione  a   sedazione
profonda (soluzione che pure  gli  era  stata  prospettata),  proprio
perche' quest'ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. Non
essendo  egli,  infatti,  totalmente   dipendente   dal   respiratore
artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo  un  periodo  di
apprezzabile durata, quantificabile in alcuni  giorni:  modalita'  di
porre fine alla propria esistenza che egli reputava non  dignitosa  e
che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo.
    Nelle ipotesi in esame vengono messe in discussione,  d'altronde,
le  esigenze  di  tutela  che  negli  altri  casi   giustificano   la
repressione penale dell'aiuto al suicidio.
    Se, infatti, il cardinale  rilievo  del  valore  della  vita  non
esclude l'obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine
alla  propria  esistenza  tramite  l'interruzione   dei   trattamenti
sanitari - anche quando cio' richieda una condotta attiva, almeno sul
piano naturalistico, da parte  di  terzi  (quale  il  distacco  o  lo
spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di
una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) - non vi
e' ragione per la quale il  medesimo  valore  debba  tradursi  in  un
ostacolo  assoluto,  penalmente  presidiato,  all'accoglimento  della
richiesta del malato di un aiuto che valga  a  sottrarlo  al  decorso
piu' lento - apprezzato come contrario alla  propria  idea  di  morte
dignitosa - conseguente all'anzidetta  interruzione  dei  presidi  di
sostegno vitale.
    Quanto,  poi,  all'esigenza  di  proteggere   le   persone   piu'
vulnerabili, e' ben vero che i malati irreversibili esposti  a  gravi
sofferenze sono solitamente ascrivibili a tale categoria di soggetti.
Ma e' anche agevole osservare che, se chi e' mantenuto in vita da  un
trattamento di sostegno artificiale e'  considerato  dall'ordinamento
in grado, a certe condizioni,  di  prendere  la  decisione  di  porre
termine  alla  propria  esistenza  tramite  l'interruzione  di   tale
trattamento, non si vede perche' il medesimo  soggetto  debba  essere
ritenuto  viceversa  bisognoso  di  una   ferrea   e   indiscriminata
protezione  contro  la  propria  volonta'  quando  si  discuta  della
decisione di concludere la propria esistenza con  l'aiuto  di  altri,
quale  alternativa  reputata  maggiormente  dignitosa  alla  predetta
interruzione.
    Entro lo specifico ambito considerato,  il  divieto  assoluto  di
aiuto al suicidio  finisce,  quindi,  per  limitare  la  liberta'  di
autodeterminazione del malato nella scelta  delle  terapie,  comprese
quelle finalizzate a liberarlo  dalle  sofferenze,  scaturente  dagli
artt. 2, 13 e  32,  secondo  comma,  Cost.,  imponendogli  in  ultima
analisi un'unica modalita' per congedarsi dalla vita, senza che  tale
limitazione  possa  ritenersi  preordinata  alla  tutela   di   altro
interesse costituzionalmente apprezzabile,  con  conseguente  lesione
del principio  della  dignita'  umana,  oltre  che  dei  principi  di
ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle  diverse  condizioni
soggettive (art.  3  Cost.:  parametro,  quest'ultimo,  peraltro  non
evocato dal giudice a quo in rapporto alla questione  principale,  ma
comunque sia rilevante quale fondamento della tutela  della  dignita'
umana).
    10.- Al riscontrato vulnus ai  principi  sopra  indicati,  questa
Corte ritiene, peraltro, di non  poter  porre  rimedio,  almeno  allo
stato, a traverso la mera estromissione dall'ambito applicativo della
disposizione penale delle ipotesi in cui l'aiuto venga  prestato  nei
confronti di soggetti che versino nelle condizioni appena descritte.
    Una simile soluzione lascerebbe,  infatti,  del  tutto  priva  di
disciplina legale la prestazione di aiuto materiale  ai  pazienti  in
tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilita' etico-sociale
e rispetto al quale vanno con fermezza  preclusi  tutti  i  possibili
abusi.
    In assenza di una specifica disciplina  della  materia,  piu'  in
particolare, qualsiasi soggetto - anche non esercente una professione
sanitaria  -  potrebbe  lecitamente  offrire,  a  casa  propria  o  a
domicilio, per spirito filantropico  o  a  pagamento,  assistenza  al
suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex  ante
sull'effettiva sussistenza,  ad  esempio,  della  loro  capacita'  di
autodeterminarsi, del carattere libero e informato  della  scelta  da
essi espressa e dell'irreversibilita' della  patologia  da  cui  sono
affetti.
    Di tali possibili  conseguenze  della  propria  decisione  questa
Corte non puo' non farsi carico, anche allorche' sia  chiamata,  come
nel presente caso, a vagliare la incompatibilita' con la Costituzione
esclusivamente di una disposizione di carattere penale.
    Una regolazione della materia, intesa ad evitare simili  scenari,
gravidi  di  pericoli  per  la  vita  di  persone  in  situazione  di
vulnerabilita',  e'  suscettibile  peraltro  di   investire   plurimi
profili, ciascuno dei quali,  a  sua  volta,  variamente  declinabile
sulla base di scelte discrezionali: come, ad esempio, le modalita' di
verifica medica della sussistenza dei  presupposti  in  presenza  dei
quali  una  persona  possa  richiedere  l'aiuto,  la  disciplina  del
relativo "processo medicalizzato", l'eventuale riserva  esclusiva  di
somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale,
la possibilita' di una obiezione di coscienza del personale sanitario
coinvolto nella procedura.
    D'altra parte, una  disciplina  delle  condizioni  di  attuazione
della  decisione  di  taluni  pazienti  di  liberarsi  delle  proprie
sofferenze non solo attraverso  una  sedazione  profonda  continua  e
correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale,  ma  anche  a
traverso  la  somministrazione  di  un  farmaco  atto   a   provocare
rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta,  anziche'  mediante
una mera modifica della disposizione penale di cui all'art. 580  cod.
pen., in questa sede censurata, inserendo la  disciplina  stessa  nel
contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito,  in  modo  da
inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e
di  fiducia  tra  paziente  e  medico»,  opportunamente   valorizzata
dall'art. 1 della legge medesima.
    Peraltro,  l'eventuale  collegamento  della  non  punibilita'  al
rispetto di una determinata procedura potrebbe far sorgere l'esigenza
di introdurre una disciplina ad hoc per le  vicende  pregresse  (come
quella oggetto del giudizio a quo), che di tale non  punibilita'  non
potrebbero altrimenti beneficiare: anche  qui  con  una  varieta'  di
soluzioni possibili.
    Dovrebbe  essere  valutata,  infine,   l'esigenza   di   adottare
opportune cautele affinche' - anche nell'applicazione  pratica  della
futura disciplina - l'opzione della somministrazione  di  farmaci  in
grado di provocare entro  un  breve  lasso  di  tempo  la  morte  del
paziente non comporti il rischio di  alcuna  prematura  rinuncia,  da
parte  delle  strutture  sanitarie,  a  offrire  sempre  al  paziente
medesimo concrete possibilita' di accedere a cure palliative  diverse
dalla sedazione profonda continua, ove  idonee  a  eliminare  la  sua
sofferenza - in accordo con l'impegno  assunto  dallo  Stato  con  la
citata legge n. 38 del 2010 - si' da porlo in  condizione  di  vivere
con intensita' e in modo dignitoso la parte  restante  della  propria
esistenza. Il  coinvolgimento  in  un  percorso  di  cure  palliative
dovrebbe costituire,  infatti,  un  pre-requisito  della  scelta,  in
seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente.
    I delicati bilanciamenti ora indicati restano affidati, in  linea
di principio, al Parlamento, il  compito  naturale  di  questa  Corte
essendo  quello  di  verificare  la  compatibilita'  di  scelte  gia'
compiute    dal    legislatore,    nell'esercizio    della    propria
discrezionalita' politica, con i limiti  dettati  dalle  esigenze  di
rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle
persone coinvolti.
    11.- In situazioni analoghe a quella in esame, questa  Corte  ha,
sino  ad  oggi,   dichiarato   l'inammissibilita'   della   questione
sollevata, accompagnando la pronuncia con un  monito  al  legislatore
affinche' provvedesse all'adozione  della  disciplina  necessaria  al
fine di rimuovere il  vulnus  costituzionale  riscontrato:  pronuncia
alla quale, nel caso in cui il monito fosse rimasto senza  riscontro,
ha fatto  seguito,  di  norma,  una  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale (ad esempio: sentenza n.  23  del  2013  e  successiva
sentenza n. 45 del 2015).
    Questa tecnica decisoria ha, tuttavia, l'effetto di  lasciare  in
vita - e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un  periodo  di
tempo non preventivabile - la normativa non conforme a  Costituzione.
La  eventuale  dichiarazione   di   incostituzionalita'   conseguente
all'accertamento dell'inerzia legislativa  presuppone,  infatti,  che
venga sollevata una nuova questione di  legittimita'  costituzionale,
la quale puo', peraltro, sopravvenire anche a  notevole  distanza  di
tempo dalla  pronuncia  della  prima  sentenza  di  inammissibilita',
mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare.
    Un simile effetto non puo' considerarsi consentito  nel  caso  in
esame, per le sue peculiari caratteristiche e per  la  rilevanza  dei
valori da esso coinvolti.
    Onde  evitare  che  la  norma  possa  trovare,  in   parte   qua,
applicazione  medio  tempore,  lasciando  pero',   pur   sempre,   al
Parlamento  la  possibilita'  di  assumere  le  necessarie  decisioni
rimesse in linea di  principio  alla  sua  discrezionalita'  -  ferma
restando l'esigenza di assicurare la tutela  del  malato  nei  limiti
indicati dalla presente pronuncia -  la  Corte  ritiene,  dunque,  di
dover provvedere in diverso modo, facendo leva sui propri  poteri  di
gestione del processo costituzionale: ossia di disporre il rinvio del
giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni  di
legittimita' costituzionale all'udienza del  24  settembre  2019,  in
esito alla quale potra' essere valutata l'eventuale sopravvenienza di
una legge  che  regoli  la  materia  in  conformita'  alle  segnalate
esigenze di tutela. Rimarra' nel frattempo sospeso anche il  giudizio
a quo. Negli altri giudizi, spettera' ai giudici  valutare  se,  alla
luce di quanto indicato nella presente pronuncia, analoghe  questioni
di legittimita' costituzionale della disposizione  in  esame  debbano
essere considerate rilevanti e non manifestamente infondate, cosi' da
evitare l'applicazione della disposizione stessa in parte qua.
    La soluzione  ora  adottata  si  fa  carico,  in  definitiva,  di
preoccupazioni analoghe a quelle che hanno ispirato la Corte  Suprema
canadese,  allorche'  ha  dichiarato,  nel   2015,   l'illegittimita'
costituzionale di  una  disposizione  penale  analoga  a  quella  ora
sottoposta allo scrutinio,  nella  parte  in  cui  tale  disposizione
proibiva l'assistenza medica al suicidio di una persona adulta capace
che abbia chiaramente consentito a por fine alla propria vita, e  che
soffra di una patologia grave e  incurabile  che  provoca  sofferenze
persistenti e intollerabili. In quell'occasione,  i  supremi  giudici
canadesi stabilirono di sospendere per dodici mesi l'efficacia  della
decisione stessa, proprio per dare l'opportunita'  al  parlamento  di
elaborare  una  complessiva  legislazione  in  materia,  evitando  la
situazione di vuoto legislativo che si sarebbe creata in  conseguenza
della decisione (Corte Suprema del Canada, sentenza 6 febbraio  2015,
Carter contro Canada, 2015, CSC 5).
    Lo  spirito  della  presente   decisione   e',   d'altra   parte,
simigliante a quello  della  recente  sentenza  della  Corte  Suprema
inglese in materia di assistenza al suicidio, in cui  la  maggioranza
dei giudici ritenne «istituzionalmente inappropriato per  una  corte,
in questo momento, dichiarare che [la disposizione allora oggetto  di
scrutinio] e' incompatibile con  l'art.  8  [CEDU]»,  senza  dare  al
Parlamento l'opportunita' di considerare il problema  (Corte  Suprema
del Regno Unito, sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri,  [2014]
UKSC 38). Sottolinearono in quell'occasione i supremi giudici inglesi
che  una  anche  solo  parziale  legalizzazione  dell'assistenza   al
suicidio medicalmente assistito rappresenta una questione  difficile,
controversa  ed  eticamente  sensibile,  che  richiede  un  approccio
prudente delle corti; e aggiunsero che una simile  questione  reclama
una valutazione approfondita da parte  del  legislatore,  che  ha  la
possibilita' di intervenire - in esito  a  un  iter  procedurale  nel
quale possono  essere  coinvolti  una  pluralita'  di  esperti  e  di
portatori di interessi contrapposti - dettando una nuova  complessiva
regolamentazione della materia di carattere non  penale,  comprensiva
di uno schema procedurale che consenta una corretta  applicazione  ai
casi concreti delle regole cosi' stabilite. Il tutto in  un  contesto
espressamente definito «collaborativo»  e  «dialogico»  fra  Corte  e
Parlamento.
    Va dunque  conclusivamente  rilevato  che,  laddove,  come  nella
specie, la  soluzione  del  quesito  di  legittimita'  costituzionale
coinvolga l'incrocio di valori di primario rilievo, il  cui  compiuto
bilanciamento presuppone, in via diretta  ed  immediata,  scelte  che
anzitutto il legislatore e' abilitato a compiere, questa Corte reputa
doveroso - in  uno  spirito  di  leale  e  dialettica  collaborazione
istituzionale  -  consentire,  nella  specie,  al   Parlamento   ogni
opportuna riflessione e iniziativa, cosi' da evitare, per  un  verso,
che, nei termini innanzi  illustrati,  una  disposizione  continui  a
produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili,  ma  al
tempo  stesso  scongiurare  possibili  vuoti  di  tutela  di  valori,
anch'essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale.
     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    rinvia all'udienza pubblica del 24 settembre 2019 la  trattazione
delle  questioni  di  legittimita'   costituzionale   sollevate   con
l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2018.

                                F.to:
                    Giorgio LATTANZI, Presidente
                      Franco MODUGNO, Redattore
                    Filomena PERRONE, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 16 novembre 2018.

                           Il Cancelliere
                       F.to: Filomena PERRONE


                                                            Allegato:
                      ordinanza letta all'udienza del 23 ottobre 2018

                              ORDINANZA

    Rilevato  che,  nel  giudizio  di   legittimita'   costituzionale
promosso dalla Corte d'assise di Milano con ordinanza del 14 febbraio
2018 (r.o. n. 43 del 2018), hanno depositato atto  di  intervento  il
Centro  Studi  "Rosario  Livatino",   la   libera   associazione   di
volontariato "Vita e'" e  il  Movimento  per  la  vita  italiano,  in
persona dei rispettivi legali rappresentati pro tempore;
    che,  la  libera  associazione  di  volontariato  "Vita  e'"  ha,
altresi', depositato memoria in data 26 settembre 2018.
    Considerato che le associazioni sopra indicate non  rivestono  la
qualita' di parti del giudizio principale;
    che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte  (tra  le
tante, le ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017, n.  237  e
n. 134 del 2013),  la  partecipazione  al  giudizio  di  legittimita'
costituzionale e' circoscritta, di norma, alle parti del  giudizio  a
quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e,  nel  caso
di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4
delle  Norme  integrative  per   i   giudizi   davanti   alla   Corte
costituzionale);
    che a tale disciplina e' possibile derogare  -  senza  venire  in
contrasto   con   il   carattere   incidentale   del   giudizio    di
costituzionalita' - soltanto a favore di  soggetti  terzi  che  siano
titolari di un  interesse  qualificato,  immediatamente  inerente  al
rapporto  sostanziale  dedotto  in  giudizio  e   non   semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura (ex plurimis, ordinanze allegate  alle  sentenze  n.  29  del
2017, n. 286 e n. 243 del 2016);
    che il presente giudizio - che  ha  ad  oggetto  l'art.  580  del
codice penale, nella parte in cui incrimina le condotte di  aiuto  al
suicidio «a prescindere dal loro contributo alla determinazione o  al
rafforzamento del proposito di suicidio», nonche' nella parte in  cui
punisce tali condotte con la medesima pena prevista per l'istigazione
al suicidio - non sarebbe destinato a produrre, nei  confronti  delle
associazioni intervenienti, effetti immediati, neppure indiretti;
    che,  pertanto,  esse  non  sono  legittimate  a  partecipare  al
giudizio dinanzi a questa Corte.

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibili gli interventi del Centro  Studi  "Rosario
Livatino", della libera associazione di volontariato "Vita e'" e  del
Movimento per la vita italiano.

                 F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente

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