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Bolletta telefonica: non sta all'utente verificare perché la banca non ha comunicato il pagamento
Smentito il fornitore del servizio, secondo
cui era il cliente a dover controllare. Ma non basta la testimonianza
indiretta su di un affare sfumato a far lievitare il lucro cessante per
la linea staccata
OBBLIGAZIONI E CONTRATTI - TELEFONI
Cass. civ.
Sez. III, 08-11-2007, n. 23304
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VARRONE Michele -
Presidente
Dott. MAZZA Fabio - Consigliere
Dott. FILADORO Camillo -
rel. Consigliere
Dott. FEDERICO Giovanni - Consigliere
Dott. LEVI
Giulio - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul
ricorso proposto da:
TELECOM ITALIA SPA, in persona della Dott.ssa S.
B., nella sua qualità di Dirigente della predetta società,
elettivamente domiciliata in ROMA VIA FERDINANDO DI SAVOIA 3, presso lo
studio dell'avvocato SGROMO GIOVAMBATTISTA, che la difende, giusta
delega in atti;
- ricorrente -
contro
C.L.;
- intimato -
e sul 2^
ricorso n. 04422/04 proposto da:
C.L., elettivamente domiciliato in
ROMA VIALE MAZZINI 120, presso STUDIO RUGGERI - PONTESILLI, difeso
dall'avvocato AUGUSTO PRINCIPI, giusta delega in atti;
-
controricorrente e ricorrente incidentale -
e contro
TELECOM ITALIA
SPA, in persona della Dott.ssa S.B., nella sua qualità di Dirigente
della predetta società, elettivamente domiciliata in ROMA VIA
FERDINANDO DI SAVOIA 3, presso lo studio dell'avvocato GIOVAMBATTISTA
SGROMO, che la difende, giusta delega in atti;
- controricorrente al
ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 4983/03 della Corte
d'Appello di ROMA, sezione terza civile emessa il 12/11/2 003,
depositata il 25/11/03; RG. 2676/2001;
udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 09/10/07 dal Consigliere Dott.
Camillo FILADORO;
udito l'Avvocato GIONVAMBATTISTA SCROMO;
udito il P.
M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCARDACCIONE
Eduardo Vittorio, che ha concluso per l'accoglimento del 2^ motivo
assorbito il 1^ del ricorso principale e il rigetto del ricorso
incidentale.
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Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
Con sentenza 12-25
novembre 2003 la Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della
decisione del Tribunale di Rieti del 14 luglio - 5 settembre 2000,
condannava la TELECOM spa a pagare all'appellante C.L. la somma di Euro
309.870,41 per i danni causati dal mancato funzionamento della linea
telefonica (dopo aver riconosciuto che la morosità denunciata dalla
società con riferimento al primo bimestre 1995 doveva considerarsi in
realtà inesistente).
Avverso tale decisione ha proposto ricorso la
TELECOM con due motivi di ricorso.
Resiste C. con controricorso,
proponendo a sua volta ricorso incidentale, cui resiste TELECOM con
controricorso.
Motivi della decisione
Devono innanzi tutto essere
riuniti i due ricorsi, proposti contro la medesima decisione.
Con il
primo motivo la ricorrente principale denuncia violazione di legge in
relazione all'art. 1375 c.c., nonchè omessa, insufficiente e
contradditoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della
controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
I Giudici
di appello avevano rigettato l'appello incidentale proposto da TELECOM
precisando che la società avrebbe dovuto svolgere ulteriori
accertamenti in ordine al mancato pagamento della utenza telefonica,
essendosi verificato un inconveniente inusuale (consistente nella
mancata comunicazione del pagamento del C. da parte della Banca). In
tal modo la società non si era comportata secondo i principi di
correttezza e buona fede.
TELECOM, osserva in contrario la ricorrente
principale, è una struttura complessa. Sarebbe stato onere dell'utente,
una volta ricevuto l'avviso che non risultava pervenuto il pagamento
della bolletta precedente, accertare la veridicità di tale circostanza,
ponendo quindi anche la TELECOM in condizioni di poter assumere
informazioni presso la banca.
Il motivo è privo di fondamento.
Una
volta eseguito il pagamento, non si vede quale ulteriore attività
avrebbe potuto o dovuto svolgere il C..
Con il secondo motivo la
ricorrente principale denuncia violazione di legge in relazione agli
artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e con-traddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione
all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Non era mai stato dimostrato che le
trattative intraprese dal C. con il commerciante coreano, K.S.
avrebbero portato alla stipulazione di un contratto di società tra i
due, nè che lo stesso avrebbe avuto comunque durata non inferiore a tre
anni, nè infine che al C. sarebbe stata garantito il guadagno netto
annuo minimo di duecento milioni.
Le censure sono fondate.
La
liquidazione equitativa del lucro cessante, ai sensi degli artt. 2056 e
1226 c.c., richiede comunque la prova, anche presuntiva, circa la
certezza della sua reale esistenza, prova in difetto della quale non vi
è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale (Cass. n. 15676
del 2005).
Secondo Cass. n. 1443 del 2003, "La liquidazione equitativa
del lucro cessante, ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., richiede
comunque la prova, anche presuntiva, circa la certezza della sua reale
esistenza, prova in difetto della quale non vi è spazio per alcuna
forma di attribuzione patrimoniale.
Occorre pertanto che dagli atti
risultino elementi oggettivi di carattere lesivo, la cui proiezione
futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa, e che si
traducano, in termini di lucro cessante o in perdita di chances, in un
pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia
meramente potenziale o possibile, ma che appaia invece - anche
semplicemente in considerazione dell'"id quod plerumque accidit" -
connesso all'illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di
elevata probabilità.
Nulla di tutto ciò è possibile rinvenire nella
sentenza della Corte d'appello romana, che non svolge alcuna
considerazione sul punto della elevata probabilità di perdita di sicuro
guadagno da parte del C..
Sotto altro, subordinato, profilo, va
ricordato che la valutazione equitativa del danno non equivale, come
invece sembra ritenere la Corte territoriale, a mero arbitrio.
Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte
quello secondo il quale l'esercizio in concreto del potere
discrezionale conferito al Giudice di liquidare il danno in via
equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità.
(Cass. 8807 del 2001, 409 del 2000).
Tale principio, tuttavia, può
trovare applicazione solo nei casi in cui il Giudice dia conto del
criterio equitativo utilizzato, la valutazione sia congruente al caso,
la concreta determinazione dell'ammontare del danno non sia palesemente
sproporzionata per difetto od eccesso (Cass. 13066 del 2004).
Nel caso
di specie la Corte territoriale non ha spiegato le ragioni per le
quali, a fronte di una liquidazione del danno operata dal primo giudice
in L. 20.000.000 ha ritenuto di riconoscere un risarcimento pari a
trenta volte la somma originariamente liquidata, sulla base di una
testimonianza "de relato" che riferisce di favolosi (possibili)
guadagni perduti dal C. solo a causa del momentaneo distacco della
linea telefonica.
Nel caso di specie, è rimasta assolutamente sfornita
di prova la affermazione secondo la quale i due commercianti avrebbero
raggiunto un accordo circa la costituzione di una società (manca
qualsiasi documento scritto e qualsiasi particolare sulle modalità con
le quali una attività del genere, che tra l'altro necessita di
particolari autorizzazioni e permessi da parte delle Autorità di
Pubblica sicurezza, avrebbe dovuto essere svolta dal C. insieme con il
socio coreano).
Sul punto manca ogni spiegazione in proposito nella
sentenza impugnata.
Nella motivazione non vi è alcun accenno nè una
(congrua) spiegazione delle ragioni per le quali dalla futura attività
di commercio di preziosi (non meglio descritta o qualificata) sarebbe
comunque derivato un guadagno netto annuo per il C. di L. 200 milioni.
Il tutto, secondo la sentenza di appello, dovrebbe trovare la sua
indiretta conferma nelle dichiarazioni di un teste che, all'aeroporto
di (OMISSIS), incontrando "casualmente" l'aspirante socio del C., K.S.,
avrebbe ricevuto da quest'ultimo l'ammissione che egli non aveva voluto
stringere un accordo associativo con il C. per la - unica - ragione che
egli non si era dimostrato affidabile, mancando persino del danaro
necessario per attivare una linea telefonica.
Sarebbe stato lo stesso
K.S., ha riferito il teste, ad assicurare il C. che dalla nuova
attività sarebbe derivato un guadagno netto, per il solo C., di oltre
L. 200 milioni annui.
Di più. Nella sentenza non sono riportate le
ragioni per le quali il giudice di appello ha indicato in tre anni la
durata di un contratto di società, avente ad oggetto preziosi.
Sul
punto, con motivazione apodittica, la Corte territoriale si è limitata
a invocare, inammissibilmente, il fatto notorio sotto forma dell' "id
quod plerumque accidit".
Secondo la giurisprudenza di questa Corte
(Cass. n. 4862 del 2005):
“Il ricorso alle nozioni di comune
esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio
dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo
civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse
non vagliati nè controllati, va inteso in senso assolutamente rigoroso,
e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale
grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile.
Di
conseguenza, non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti
di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in
un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che
implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di
determinate situazioni, nè quelle nozioni che rientrano nella scienza
privata del Giudice, poichè questa, in quanto non universale, non
rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice
medesimo dalla pregressa trattazione d'analoghe controversie (Conf.
Cass. n. 3160 del 1986 e 3829 del 1982).
Avendo completamente ignorato
le indicazioni che emergono dalle decisioni richiamate, la sentenza
merita pertanto di essere cassata, in relazione alle censure accolte
con il secondo motivo del ricorso principale.
Il ricorso incidentale
deve invece essere rigettato.
Con l'unico motivo il ricorrente
incidentale denuncia violazione o falsa applicazione di norme di
diritto (art. 2043 c.c.) in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
In
particolare, il C. censura l'entità della liquidazione del danno
patrimoniale operata dai giudici di appello, con riferimento alla
durata presumibile di tre anni della società che il C. avrebbe dovuto
costituire con il K..
Il motivo di ricorso non merita accoglimento,
per le ragioni già indicate in precedenza.
Secondo quanto già
osservato, il giudice di rinvio dovrà stabilire, innanzi tutto se un
danno patrimoniale sia stato effettivamente causato dal distacco della
linea telefonica alla attività commerciale del C..
Solo una volta
accertata l'esistenza di tale danno, lo stesso giudice potrà procedere,
eventualmente anche con liquidazione equitativa, alla determinazione
dello stesso attenendosi ai rigorosi criteri già specificati.
Il
Giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente
giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi.
Rigetta
il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo motivo del
ricorso principale. Rigetta il ricorso incidentale.
Cassa, in
relazione alle censure accolte, rinvia anche per le spese alla Corte di
Appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 9
ottobre 2007.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2007
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