Manifesto per un soggetto politico nuovo
per un’altra politica nelle forme e nelle passioni
Non c’è più tempo
Oggi in Italia meno del 4% degli elettori si dichiarano soddisfatti dei partiti
politici come si sono configurati nel loro paese. Questo profondo
disincanto non è solo italiano. In tutto il mondo della democrazia
rappresentativa i partiti politici sono guardati con crescente sfiducia,
disprezzo, perfino rabbia. Al cuore della nostra democrazia si è aperto
un buco nero, una sfera separata, abitata da professionisti in gran
parte maschi, organizzata dalle élite di partito, protetta dal
linguaggio tecnico e dalla prassi burocratica degli amministratori e, in
vastissima misura, impermeabile alla generalità del pubblico. È
crescente l’ impressione che i nostri rappresentanti rappresentino solo
se stessi, i loro interessi, i loro amici e parenti. Quasi fossimo
tornati al Settecento inglese, quando il sistema politico si è
guadagnato l’epiteto di ‘Old Corruption’.
In reazione a tutto questo è
maturata da tempo, anche troppo, la necessità di una politica
radicalmente diversa. Bisogna riscrivere le regole della democrazia,
aprirne le porte, abolire la concentrazione del potere ed i privilegi dei rappresentanti,
cambiarne le istituzioni. E allo stesso tempo bisogna inventare un
soggetto nuovo che sia in grado di esprimersi con forza nella sfera
pubblica e di raccogliere questo bisogno di una nuova partenza. I due
livelli – la democratizzazione della vita pubblica del paese e la
fondazione, anche a livello europeo, di un soggetto collettivo nuovo, si
intersecano e ci accompagnano in tutto il manifesto. Le nostre sono
grandi ambizioni ma siamo stanchi delle clientele che imperversano,
dell’appiattimento della politica su un modello unico, delle partenze
che non partono. E poi, con la destra estrema che alza la testa in tutta
l’Europa, si fa sempre più pressante lo stimolo ad agire, a non
lasciare una massa di persone in balia alle menzogne populiste.
Oggi la sfera separata della
politica in Italia, ‘il palazzo’ per intenderci, non rappresenta affatto
parti intere del paese: le persone giovani, specialmente del Sud e
donne, che non trovano sbocco ai loro sogni e ai loro percorsi
educativi; le operaie e gli operai, che vedono giorno dopo giorno
minacciati i loro diritti dentro la fabbrica, le commesse e i commessi
intrappolati nella catena della distribuzione, i ceti medi del pubblico
impiego, quelli della scuola, della sanità, dell’ amministrazione
pubblica, che in questi anni sono stati tartassati e disprezzati; i
giovani precari, spesso super-qualificati, vittime di una flessibilità
selvaggia neoliberista inizialmente introdotta dal centro-sinistra che
ha tolto loro dignità e futuro, la rete dei microproduttori
e del cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione entrata in
crisi con la recessione. Tutti questi elementi possono mobilitarsi nella
società per poi trovare nel palazzo solo un muro di gomma o un ascolto
distratto. E’ ora di spezzare questi meccanismi perversi. Al loro posto
proponiamo un nuovo percorso in cui i cittadini riescano ad
appropriarsi, attraverso processi democratici diversi, del potere di
contare e di decidere.
La ‘poesia pubblica’, per utilizzare la
frase del poeta americano Walt Whitman, deve entrare nella storia della
Repubblica. E lo farà quando un gruppo sempre più grande di cittadini
(donne ed uomini) qualificati, informati e attivi decideranno di farne
la loro bandiera.
A. Diffondere il potere, non concentrarlo.
Oggi le decisioni sono sempre
prese altrove – non a livello comunale ma regionale, non nel parlamento
romano ma a Bruxelles, non a Bruxelles ma a Francoforte, non alla BCE ma
dai ‘mercati’, strane creature che vivono solo di giorno ma che
decidono tutto lo stesso, sia per il giorno che per la notte. Il nostro
compito è di frenare per quanto possiamo questa fuga decisionale verso
l’alto, l’inspiegabile e l’astratto. Bisogna innescare un processo
opposto che destituisca, decostruisca, ceda, decentri, abbassi,
distribuisca, diffonda il potere. Bisogna riaffermare la validità della
dimensione territoriale locale (ma non’ localistica’), espandendo tutti
quegli spazi in cui il governo e il cittadino sono vicini l’uno
all’altro. Il comune è uno di questi. Carlo Cattaneo, una delle più
belle ed inascoltate voci del nostro Risorgimento, nel 1864 descrisse il
comune come ‘la nazione nel più intimo asilo della sua libertà’. E
aggiunse, con un pizzico di amarezza: ‘pare che fuori di codesto modo di
governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi’. Ridare
spazio e poteri ai comuni, e metterli in contatto tra di loro sarebbe
già in sé una ‘cosa grande’. La Rete dei comuni per i beni comuni punta in questa direzione, verso una valorizzazione profonda dei beni comuni e dei diritti
fondamentali ad essi collegati. E punta anche ad agire dal basso verso
l’alto, costituendo una sede congeniale per proposte da sottoporre alla
Commissione Europea ai sensi del Trattato di Lisbona e del reg. UE
n.211/2001. Si pensi, per esempio, al progetto di una ‘Carta Europea dei Beni
Comuni’, così come deliberato dal Comune di Napoli, mediante la quale
inserire la nozione di bene comune tra i valori fondanti dell’Unione e
fronteggiare la dimensione puramente mercantile (market oriented) del
diritto comunitario. In questo modo il potere locale riesce ad
aggregarsi, a contare a livello nazionale, a diventare forza anche
transnazionale ma sempre quale attuazione di un indirizzo politico
espresso dal basso e soprattutto dalla cittadinanza attiva.
Non basta. Il comune è
un’istituzione costituzionale, non un’aggregazione di una certa tendenza
politica. Un soggetto politico nuovo dovrebbe impegnarsi su tanti
terreni, sia dentro le istituzioni che fuori, cercando sempre di
coniugare fra di loro livelli diversi della democrazia: quella
rappresentativa, quella partecipativa e quella di prossimità. In prima
istanza esso dovrebbe interagire con le forze e movimenti della società
civile. Essi agiscono per una grande varietà di motivi – in nome
dell’ambiente, in difesa dei diritti dei lavoratori,
per la legalità e contro la criminalità organizzata, per la dignità e
la parità delle donne – in un mondo (e un mondo di lavoro) ancora
profondamente patriarcali. Nel rapporto tra i generi l’eguaglianza non
può limitarsi alle “pari opportunità” cioè ad accomodamenti (pur
necessari) dentro un sistema che resta immutabile, ma diviene un
processo in grado di sovvertire l’esistente. Chi vive una situazione di
ineguaglianza non può limitarsi a voler essere uguale a chi si ritiene
superiore o più potente, al contrario aspira al superamento dei vecchi modelli.
Tutte queste istanze della società
civile sottolineano giustamente la loro specificità e autonomia; molte
insistono anche sull’informalità e spontaneità delle loro strutture. Ma
allo stesso tempo tutte hanno un bisogno disperato di connettersi fra
loro e con le sedi decisionali, di presentare i loro punti di vista
nelle istituzioni e di riformare quelle istituzioni stesse. Si cerca un
nuovo tipo di relazione politica: che forma potrebbe mai assumere una
volta che ci si rende conto dell’inadeguatezza del sistema attuale della
rappresentanza?
B. Il nuovo spazio pubblico della democrazia
A metà dell’Ottocento John Stuart Mill
era convinto che il nuovo sistema rappresentativo garantisse a ‘tutte le
voci ‘ del Regno di farsi sentire nel parlamento. La storia gli ha dato
torto. Anche in virtù della deriva maggioritaria, i parlamenti si sono
sempre più allontanati dal paese reale, e sempre più i parlamentari
rappresentano, in primo luogo, se stessi. La democrazia rappresentativa
ha bisogno, dunque, sia di una sua riforma interna in senso
proporzionale, sia di essere arricchita da nuove forme di democrazia
partecipativa. Ciò che vale per il sistema politico nazionale è ancora
più vero per i partiti in cui la democrazia ha sempre fatto fatica ad
imporsi. La teoria che sottende ai cambiamenti deve essere resa
esplicita: il sistema rappresentativo è l’unico che garantisce la
partecipazione di tutti i cittadini in condizioni di voto segreto. Esso
gioca di conseguenza un ruolo insostituibile. Ma per affrontare
l’attuale crisi deve essere associato alla democrazia partecipativa E il
punto cruciale riguardante il rapporto tra i due risiede nel fatto che
l’attività costante della partecipazione alimenta e garantisce, stimola e
controlla la qualità della rappresentanza e la qualità della politica
pubblica.
In altre parole è emersa in questi
ultimi anni una domanda esplicita di rottura che ha al suo centro una
nuova percezione dello spazio pubblico, che non può essere ridotto né
all’attività, sempre più degradata, dei partiti,
né ai codici di per sé privatistici, del “mercato”. Tra i cittadini è
cresciuto il desiderio di riappropriarsi di ciò che è comune, non solo
beni ma anche processi. La democrazia si allarga e diventa più
inclusiva: delle nuove forme di partecipazione dei cittadini, della gestione dei beni
comuni, della società civile che interagisce, in piena autonomia, con
una sfera politica che si apre alla cittadinanza invece di chiudersi
come un riccio.
Processi di questo tipo cambierebbero in
positivo anche il delicato rapporto tra privato e pubblico. Nei decenni
del neoliberismo abbiamo assistito al trionfo del privato, declinato in
vari modi: consumismo, chiusura nell’interesse personale, familismo,
evasione fiscale; ma anche, sul versante opposto, solitudine,
frammentazione, esclusione. Sarebbe ora di riattivare e riapplicare
quella rivoluzionaria intuizione del movimento delle donne degli anni
’60 e ’70: ‘il personale è politico’. Le persone, uomini e donne, devono
riflettere sul loro ‘privato’ – i loro valori, consumi, strategie
individuali e familiari. Questa riflessione ha rilevanza per lo spazio
pubblico di più grande emergenza – l’ambiente. Una visione ecologica del
mondo incentrata sui beni comuni richiede una trasformazione
qualitativa e relazionale del rapporto tra spazi pubblici e privati,
così da perseguire la giustizia ambientale e sociale. I destini del
pianeta non possono essere affidati esclusivamente ad interessi
individualistici, guidati dal tasso di profitto a breve termine e dalla
negazione della dignità del lavoro. In coerenza con una visione
ecologica del mondo incentrata sui beni comuni, occorre invece coniugare
i doveri e i diritti, per costruire relazioni equilibrate per l’insieme
della collettività.
Troppe volte la ‘partecipazione’, come
viene praticata dai partiti ansiosi di dimostrare la loro disponibilità e
la loro ‘modernità’, ha assunto il volto dello ‘sfogatoio’, con
assemblee caratterizzate da un confusionismo generale. Occorre invece
uscire da questa mistificazione della sovranità popolare, e allo stesso
tempo destrutturare una sovranità popolare totalmente fondata sulla
delega. Occorre trasformare il livello prepolitico della partecipazione
in diritto alla democrazia. Possiamo infatti mutuare i principi della
Convenzione europea di Aarhus – legge dello Stato a partire dal 2001. La
Convenzione, attraverso l’istituto della partecipazione, riduce la
discrezionalità delle scelte politico-amministrative, obbligando le
istituzioni a prendere in considerazione le istanze partecipative e ad
argomentare in maniera più circostanziata le proprie decisioni.
In questo senso il Laboratorio Napoli “Per una Costituente dei beni comuni” prevede sedici consulte divise per macro-aree che si interfacciano con i singoli assessorati attraverso il ruolo dei facilitatori.
L’informazione deve costituire il presupposto per una reale
partecipazione. Il processo partecipativo è normato e calendarizzato, la
sua violazione può determinare l’annullamento degli atti
amministrativi. Ciò rende certo il processo evitando forme fasulle e
confusionarie della partecipazione, ponendosi come un esempio del
necessario connubio tra rappresentanza e partecipazione.
Un altro esempio di partecipazione,
disegnato per la consultazione di un grande numero di cittadini, è il
referendum on line che, preceduto dalla necessaria dispensa di
informazione bi-partisan, può portare alle decisioni in tempi
rapidissimi.
Un altro ancora viene chiamato PARTY
(partecipazione attiva riunendo tavoli interagenti). E’ un metodo
ispirato a due fra i più diffusi (Town meeting e Open Space Technology),
che permette di discutere e decidere insieme sia su questioni locali
che nazionali. Un’assemblea, ad esempio, viene divisa in tavoli di
dieci-quindici persone ciascuno. I/le partecipanti, che possono non
conoscersi affatto, affrontano i temi a loro sottoposti. Per ogni tavolo
si sceglie una persona per facilitare il dibattito, un’altra per
prendere appunti. Dopo una lunga e informata discussione in un arco di
tempo prestabilito, ogni tavolo cerca di esprimere nel report
un’opinione collettiva che può anche comprendere proposte diverse. Alla
fine, una sintesi di tutto il lavoro svolto viene presentato alla
plenaria. L’interazione tra chi partecipa ai tavoli e la possibilità di
essere praticata a costi contenuti e con un uso ottimale delle
tecnologie informatiche, costituiscono un pregio particolare di questo
tipo di democrazia partecipativa.
Di tutte le forme di democrazia
partecipativa, quella iniziata nella città di Porto Alegre in Brasile
rimane una delle più convincenti, e per tre ragioni principali: la prima
perché la partecipazione è calendarizzata, con un forte senso di
continuità temporale durante l’anno, non limitata a una singola
occasione. La seconda perché prevede un gran numero di luoghi e livelli
di partecipazione, dagli incontri di strada (street meeting) di gennaio
al Consiglio di bilancio in settembre, alla solenne adozione del
bilancio partecipativo da parte del consiglio municipale e del sindaco a
fine anno. E la terza perché è un processo, non un momento, che
contribuisce così alla formazione di un prezioso capitale per qualsiasi
democrazia – gruppi crescenti di cittadini informati, attivi e con idee
chiare su che cosa costituisce una cultura democratica. Dobbiamo
trovare, declinando in più di un modo la democrazia partecipativa, la
forza per portare avanti una vera rivoluzione culturale fatta di
trasparenza e responsabilità.
C. Forme e pratiche di una nuova aggregazione
La degenerazione degli attuali partiti
politici oscura e mortifica gli ideali di molte persone che, soprattutto
a livello di base, vi militano in buona fede e con generosità. La
volontà di partecipazione, di “far da sé”, di riprendere in mano il
bandolo del discorso pubblico, richiede invece un modello di pratica e
di organizzazione politica radicalmente altro rispetto a quello
formatosi nel lungo ciclo novecentesco. Non possiamo più accettare un
modello incentrato sulla stretta identificazione di “sfera pubblica” e
di “sfera politica” con un tendenziale primato della seconda sulla
prima, in quanto luogo di espressione della “forma partito” intesa come
unico soggetto dotato di voce e legittimazione.
I nostri Costituenti, nello
scrivere l’art. 49, avevano immaginato i partiti come luoghi di
mediazione, corpi intermedi fra società e istituzioni politiche. Luoghi
nei quali potesse formarsi e organizzarsi il consenso. Ma il principio
costituzionale che i partiti devono concorrere “con metodo democratico”
alla vita politica nazionale, è stato realizzato solo parzialmente, in
riferimento alle relazioni esterne dei partiti. In realtà s’immaginava che il metodo democratico dovesse valere soprattutto nel funzionamento interno dei partiti,
sulla base di principi quali la solidarietà, l’eguaglianza, la pari
dignità, la trasparenza. Una volontà velocemente disattesa da un
sistema politico che si è progressivamente organizzato con strutture
opache, piramidali, fortemente escludenti.
I partiti politici attuali sono
così diventati organizzazioni completamente anacronistiche rispetto ad
un modello di democrazia che non può più esaurirsi nella rappresentanza
e nella delega. Il fondamento giuridico leggero che li intende quali
libere associazioni di cittadini non riconosciute (Codice civile)
risulta paradossale. Essi incredibilmente si trovano nella posizione di
godere da un lato di tutti i benefici di un soggetto privato,
dall’altro di avere accesso ad ingenti risorse pubbliche. Un mostro a
due teste che si appella al diritto di riservatezza, proprio dei soggetti
privati, mentre vive di risorse pubbliche in una dimensione opaca,
espressione di corruzione e perversa contaminazione di interessi
pubblici-privati.
Noi vogliamo invece affermare
l’interpretazione autentica dell’espressione “metodo democratico”,
vogliamo un soggetto politico che, oltre i partiti, sappia muovere dai
fondamenti costituzionali per creare nuovi modelli di partecipazione
politica, fondati sulla passione, la trasparenza e l’altruismo.
In primo luogo il soggetto nuovo, nelle sue regole e pratiche, dovrebbe mettere l’accento sull’inclusione. L’immagine dei partiti
arroccati ai propri privilegi e separati dal resto della società,
dediti all’hollowing out, allo svuotamento della democrazia – sempre più
potere nelle mani della leadership, sempre meno democrazia interna,
sempre meno iscritti (Peter Mair) – dovrebbe cedere il passo a un’altra,
totalmente diversa, basata sull’allargamento dello spazio pubblico
della politica, non sulla sua restrizione. Dentro questo spazio, non più
separato dalle istanze della società, si muoverebbe una pluralità di
attori politici nuovi. Si passa così dall’esclusione verticistica (il
tesserato come spettatore passivo degli show dei suoi
leader) all’inclusione orizzontale: il cittadino come agente in una
struttura basata su regole democratiche. La struttura del nuovo soggetto
non sarebbe piramidale ma confederale, senza un centro ‘nazionale’
fisso ma con un coordinamento itinerante e a rotazione che si sposta
regolarmente da regione a regione. I singoli individui si aggregano in
modo egualitario sia alla sfera della discussione e della decisione, sia
a quella dell’azione, ognuno nei limiti delle sue possibilità e delle
sue disponibilità di tempo. A tutti i livelli cerchiamo le forme
politiche che consentiranno realisticamente la possibilità di
confrontarsi e decidere insieme (vedi sopra nel paragrafo B). Ci
interessa un luogo dove si sperimentino pratiche fondate sul “potere di”
piuttosto che sul “potere su”.
Il “soggetto nuovo” nascerà da
un’istanza diametralmente opposta a quella che ha guidato quasi tutti i
processi organizzativi novecenteschi. Organizzarsi, secondo quel modello
significava unificare gli identici, raccogliere in un unico contenitore
(modellato gerarchicamente sulla struttura statale) gli “omogenei” –
coloro che condividono gli stessi valori, gli stessi linguaggi, gli
stessi ideali, gli stessi interessi e gli stessi luoghi. Crediamo invece
che organizzare, oggi, voglia dire mettere in connessione le diversità:
culturali, etniche, linguistiche. Inventare la forma della convivenza
in un mondo e in una società in cui quello che era distante e separato
tende a convergere e intrecciarsi. L’organizzazione politica dovrebbe
essere il grande laboratorio in cui si inventano e si forgiano i nuovi
linguaggi di un dialetto universale in grado di superare la separatezza
Una politica che sappia emanciparsi dalla coppia schmittiana
“amico-nemico”. Che sappia trovare la propria “essenza” non
nell’esclusione reciproca (e nel conflitto tra identità chiuse e
separate) ma nell’inclusione e nella
contaminazione-connessione-ibridazione tra identità.
Una serie di regole semplici e
condivise che in questi anni sono diventate patrimonio comune
determineranno il comportamento del nuovo soggetto nelle istituzioni e
fuori di esse. Adozione di un codice etico e dunque politico nella
ricerca e accettazione dei finanziamenti, rifiuto della gestione clientelare di risorse e consulenze, primarie per la selezione dei candidati
o assemblee partecipate nei piccoli comuni, limiti e vincoli di
mandato, rotazione negli incarichi di direzione, trasparenza nell’uso
delle risorse. La vita interna del nuovo soggetto si baserà anch’essa su
alcune semplici regole di base: prendere le decisioni ricercando in
modo prioritario il massimo consenso possibile; quando occorre procedere
al voto con il sistema “una testa un voto”, unire il rispetto delle
decisioni maggioritarie con la salvaguardia dei diritti
delle minoranze, possibilità per tutti di votare in modo regolare e
segreto. Nelle riunioni del nuovo soggetto, considerazioni di genere
devono assumere un posto di massima importanza: nessuna tolleranza per i
soliti maschi accentratori. Tempi stretti di intervento, ascoltare
ciascuno/a e fare in modo che ciascuno/a parli, report tempestivi delle
riunioni.
La chiave della vita interna
dovrebbe essere la prevenzione insieme all’invenzione: prevenzione di
tutte quelle forme di burocratizzazione e di oligarchia che hanno sempre
caratterizzato i partiti socialdemocratici (per non parlare di quelli
democristiani), un’invenzione che si nutre di una partecipazione dal
basso sempre più formata politicamente: negli ultimi anni, tante delle
persone coinvolte nelle campagne referendarie e in mobilitazioni simili
si sono informate, studiando, sostituendosi così ai partiti nelle
proposte di nuove politiche. La formazione, ormai assente nelle
strutture partitiche (con gravi danni non solo a livello nazionale, ma
anche nelle amministrazioni locali, con politici sempre più ignoranti) è
un terreno su cui ritornare a impegnarsi. Più estesa la scala, più
arduo diventa il nostro compito. In ogni caso la nuova democrazia deve
camminare mano in mano con l’efficacia. Oltre al come si decide, diventa
importante come si funziona. E’ del tutto inutile rimpiazzare la
repubblica delle banane o quella dei “tecnici” con una delle chiacchiere.
Lavoriamo per stemperare, rendendolo dinamico, il confine fra le persone che partecipano a campagne e gli iscritti. Pensiamo ad allargare il potere decisionale a tutti, attraverso consultazioni vincolanti tramite voto referendario e primarie, per la materia elettorale e non solo.
Lavoriamo per stemperare, rendendolo dinamico, il confine fra le persone che partecipano a campagne e gli iscritti. Pensiamo ad allargare il potere decisionale a tutti, attraverso consultazioni vincolanti tramite voto referendario e primarie, per la materia elettorale e non solo.
D. Comportamenti e passioni
Le regole formali, preziose e
insostituibili, non sono sufficienti. Ad esse va associata la lenta ma
costante creazione di una cultura profondamente diversa. Per troppo
tempo abbiamo scelto di escludere dal campo della politica qualsiasi
riflessione sulle passioni e sui comportamenti individuali. Un esempio
fra tanti: la cultura della pace. Siamo bravi a predicare la
non-violenza a livello internazionale ma molto meno a praticarla come
virtù sociale. Le relazioni tra di noi nella sfera pubblica politica
rimangono piuttosto primitive, senza alcun guida. Anzi. Abbiamo
accettato fin troppo facilmente che la nostra pratica politica sia
intrisa della violenza e della competitività, una forma di
‘neo-liberismo interiorizzato’. Superare una cultura così longeva e
insidiosa non è questione di una stagione politica. Ma riconoscere la
legittimità del tentativo è già un grande passo in avanti.
Quando parliamo delle passioni e
delle emozioni viene in mente primo di tutto un discorso sul loro
governo. Tante volte consentiamo che siano le passioni negative –
l’invidia, l’odio, l’orgoglio, l’ira – e i comportamenti sociali che ne
derivano – la rivalità, la voglia di sopraffare, il perseguimento dei propri
interessi in modo esclusivo – a guidare le nostre azioni. E spesso lo
facciamo con una grande inventiva, rappresentando i dissidi come
‘differenze oggettive ’, negando con veemenza le loro origini
soggettive. Questo approccio rende la sfera pubblica politica
paragonabile a una grande giungla preistorica, dominata da ‘ego-mostri’ –
politici moderni gonfiati dall’attenzione incessante dei media.
Un primo passo, dunque, verso una nuova politica in questo campo
sarebbe un discorso centrato sul governo e sull’autogoverno delle
passioni, l’invito forte all’autodisciplina, la produzione di un codice
di comportamento.
Soprattutto dobbiamo negare spazio a una
delle passioni più dannose – il narcisismo. Siamo stufi di leader
narcisi e non vogliamo semplicemente affidarci a figure carismatiche,
incoraggiate al massimo dalla moderna personalizzazione della politica.
Non sopportiamo il protagonismo sfrenato e l’auto-compiacimento senza
fine. Se il nuovo soggetto politico venisse concepito come veicolo per
una leadership che si presenta in questo modo, avrebbe poca possibilità
di crescere e fiorire.
Le passioni non esistono però solo per
essere governate. Una seconda riflessione invita al superamento della
classica contrapposizione tra ragione e emozioni, la prima vista come
positiva e civilizzante, le seconde giudicate negative e primitive.
Certe emozioni e i comportamenti sociali che ne derivano costituiscono
invece una risorsa preziosissima per la sfera pubblica politica: la
compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità e il
rispetto per gli altri. Non cerchiamo una nuova sfera politica di
auto-abnegazione e di sacrificio, in cui l’individuo si annulli a
servizio della causa comune. Cerchiamo invece l’autorealizzazione
individuale in un contesto collettivo radicalmente nuovo, all’insegna
dell’eguaglianza. Sarebbe interessante sperimentare di più il sentimento
dell’empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altra/o, in
termini non solo personali ma politici, praticando quella “salda
comunanza” (Martha Nussbaum) che esalta le facoltà tipicamente umane di
scelta e di socialità.
Tutto questo può trovare una prima
verifica nella sfera della micro-politica, la cultura sottostante e di
supporto alle regole formali e alle grandi riunioni nazionali. E’ qui
che i partiti politici tradizionali danno il peggio di sé. Abbiamo visto
dirigenti dei partiti
venire alle riunioni e poi leggere ostinatamente i giornali finché non è
il loro turno di parlare o quello di un altro dirigente (rivale).
Abbiamo visto ovunque i tipici atteggiamenti maschili – non solo di
uomini – per cui ci si preoccupa solo del proprio intervento, poi si
riaccendono i cellulari e ci si mette a chiacchierare in fondo alla
sala. Tutti arrivano in ritardo: più importante sei, più in ritardo
arrivi. Tutto l’impasto di una riunione o di un’assemblea assume
l’aspetto livido di una contusione, di una profonda e persistente ferita
alla democrazia. Da quel terreno cosa può scaturire di nuovo o di
buono?
A livello di micro-politica un soggetto
nuovo metterebbe invece l’accento su un modo di comportarsi radicalmente
diverso, all’insegna dell’eguaglianza e della cooperazione fra generi,
della capacità di ascoltare, della puntualità, dell’incoraggiare alla
partecipazione i più timidi o chi ha meno esperienza. Ritroverebbe una
fisicità della politica oltre le reti virtuali di Internet, avrebbe
attenzione alla massima circolazione dell’informazione interna e cura
che i nuovi partecipanti non si sentano “ospiti”, ma protagonisti alla
pari degli altri. A predominare sarebbero le virtù sociali della mitezza
e della fermezza. Il mite, scrive Norberto Bobbio, ‘è l’uomo [donna] di
cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé’. Alle sue
qualità intrinseche ne viene aggiunta un’altra – quella della fermezza,
la capacità di non cedere, come ci ha insegnato Gandhi, ma di insistere
con pacatezza. Così la cultura politica nuova si distanzia mille miglia
da quella classica del Novecento, basata com’era in grande parte sul
machiavellismo, sulla realpolitik, sulla furbizia e
l’autoreferenzialità.
Per concludere:
quattro nodi radicali e di rottura per un soggetto politico nuovo e una proposta
- Si rompe con il modello novecentesco del partito, introducendo nuove regole e pratiche: trasparenza non segretezza, semplicità non burocrazia, potere distribuito non accentrato, servizio non carrierismo, eguaglianza di genere non enclave maschili, direzione e coordinamento collettivo e a rotazione, non di singoli individui carismatici.
- Si rompe con questo modello neo liberista europeo che vuole privatizzare a tutti i costi, che non ha alcuna cultura dell’eguaglianza, che minaccia a morte lo stato sociale, la dignità e sicurezza del lavoro. Si insiste invece sulla centralità dei beni comuni, la loro inalienabilità, la loro gestione democratica e partecipata.
- Si rompe con la visione ristretta della politica, tutta concentrata sul parlamento e i partiti. Si lavora invece per un nuovo spazio pubblico allargato, dove la democrazia rappresentativa e quella partecipata lavorano insieme, dove la società civile e i bisogni dei cittadini sono accolti e rispettati.
- Si riconosce l’importanza della sfera dei comportamenti e delle passioni, rompendo con le pratiche mai esplicitate ma sempre perseguite dal ceto politico attuale: la furbizia, la rivalità, la voglia di sopraffare, il mirare all’interesse personale. Al loro posto mettiamo l’inclusività, l’empatia, la mitezza coniugata con la fermezza.
Una proposta:
Il futuro di questo manifesto, del
progetto di radicale rinnovamento della soggettività politica che esso
propone, è nelle mani di tutti e tutte coloro che lo desiderano
attivamente. Si può iniziare dall’impegno a promuovere incontri,
inventare momenti partecipativi e occasioni di confronto fondate su una
comune condizione sociale o sul radicamento attivo nei territori. Una
mobilitazione diffusa e connessa, che non imponga esclusività di
appartenenze e che si ritrovi poi in un primo appuntamento nazionale.
Inoltre si può pensare che sia
positiva la presenza alle elezioni amministrative di liste di
cittadinanza politica che prendano a riferimento e contribuiscano a
costruire questo progetto nazionale. Una rete orizzontale di
rappresentanza che sia radicata nei territori e connotata dagli elementi
di metodo prima indicati: democrazia, governo partecipato dei beni
comuni, etica, nuova cultura delle relazioni. Non si tratta di
aggiungere sigle contro tutto e tutti, né di sommare esperienze locali
che restano locali, tanto meno di chiudersi nel recinto di una
radicalità ideologica.
Vogliamo costruire un soggetto che
determini una trasformazione complessiva, costruisca anche alleanze e
mediazioni ma con l’ambizione tutt’altro che minoritaria di mettere in
campo un’altra Italia. Di lavorare per un’altra Europa.
Primi firmatari: Andrea
Bagni, Paul Ginsborg, Claudio Giorno, Chiara Giunti, Alberto Lucarelli,
Ugo Mattei, Nicoletta Pirotta, Marco Revelli, Massimo Torelli,
(Redattori del testo) Giuseppina Antolini, Danila Baldo, Giuliana
Beltrame, Piero Bevilacqua, Valter Bonan, Paolo Cacciari, Nicoletta
Cerrato, Adelaide Coletti, Emmanuele Curti, Sergio D’Angelo, Giuseppe De
Marzo, Gianna De Masi, Silvia Dradi, Luigi Ferrajoli, Dario Fracchia,
Luciano Gallino, Domenico Gattuso, Luca Giunti, Celeste Grossi, Danilo
Lillia, Marinunzia Maiorani, Teresa Masciopinto, Luca Nivarra, Leo
Palmisano, Livio Pepino, Tonino Perna, Riccardo Petrella, Anna
Picciolini, Marina Pivetta, Sandro Plano, Chiara Prascina, Corinna
Preda, Giuliana Quattromini, Leana Quilici, Alessandro Rampiconi,
Domenico Rizzuti, Stefano Rodotà, Chiara Sasso, Enzo Scandurra, Laura
Tonoli, Mapi Trevisani, Vittorio Vasquez, Fulvio Vassallo Paleologo,
Guido Viale.
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