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Cass. civ. Sez. lavoro, 06-03-2006, n. 4774
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MERCURIO Ettore - Presidente
Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio - rel.
Consigliere
Dott. MAIORANO Francesco Antonio -
Consigliere
Dott. D'AGOSTINO Giancarlo - Consigliere
Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella -
Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
-
- ricorrente -
contro
-
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 367/2003 della Corte
d'Appello di VENEZIA, depositata il 20/09/2003 - R.G.N. 524/2002;
udita la relazione della causa svolta nella
pubblica udienza del 19/12/2005 dal Consigliere Dott. Fabrizio MIANI
CANEVARI;
udito l'Avvocato WONGHER;
udito il P.M. in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo che ha concluso per il
rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
(Lpd), dipendente della S.p.a. (Lpd), ha
convenuto in giudizio la società datrice di lavoro chiedendo il
risarcimento dei danni derivati - con l'instaurarsi di una malattia
invalidante - da un serie di comportamenti persecutori, ricondotti
ad un'ipotesi di mobbing, posti in atto dalla società fin dal 1992,
consistiti in provvedimenti di trasferimento, ripetute visite
mediche fiscali, attribuzione di note di qualifica di insufficiente,
irrogazione di sanzioni disciplinari, privazione della abilitazione
necessaria per operare al terminale ed altri episodi.
Il giudice adito rigettava la domanda, con
decisione che, su impugnazione dell'attore soccombente,
ricostituitosi il contraddittorio con la S.p.a. (Lpd) (incorporante
la S.p.a.(Lpd)), la Corte di Appello di Venezia confermava con la
sentenza oggi impugnata. Il giudice dell'appello, esaminando i vari
episodi della vicenda dedotta in giudizio, escludeva la
configurabilità nel caso di specie di una condotta aziendale
protratta nel tempo caratterizzata da intenti persecutori e
finalizzata all'emarginazione del lavoratore.
Avverso questa sentenza il M. propone ricorso
per Cassazione affidato a tre motivi, al quale la S.p.a. (Lpd)
resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. I tre motivi, che contengono tutti la
denuncia di vizi della motivazione, sotto vari profili, della
sentenza impugnata, possono essere esaminati congiuntamente per la
loro stretta connessione.
Un primo aspetto riguarda la dedotta omessa
valutazione complessiva degli episodi posti a fondamento della
pretesa azionata, che dovevano essere considerati nell'ambito del
fenomeno del mobbing (anche se corrispondenti singolarmente e
astrattamente a comportamenti leciti del datore di lavoro) in quanto
diretti a cagionare nel dipendente turbamenti psicologici e disturbi
di salute.
1.1. Secondo l'assunto della parte, le azioni
vessatorie si sono concretate in particolare;
1.1.1. in un provvedimento di trasferimento
dall'unità produttiva (che risale al 1992, e di cui è stata
accertata con sentenza definitiva l'illegittimità);
1.1.2. in errori ed abusi
dell'amministrazione aziendale, identificati in una serie di cinque
visite di accertamento della idoneità fisica nell'arco di dieci mesi
(nel periodo tra il 1993 e il 1994);
1.1.3. nella privazione dell'abilitazione
all'uso del terminale sul posto di lavoro;
1.1.4. nella irrogazione di una sanzione
disciplinare nel novembre del 1994;
1.1.5. nell'attribuzione della nota di
qualifica di "insufficiente". 1.2. Si imputa poi alla Corte
territoriale di non aver riconosciuto il valore dei singoli episodi
e la loro appartenenza ad un medesimo progetto aziendale mirato al
progressivo allontanamento e isolamento del M..
1.2.1. Quanto al trasferimento del 1992, si
osserva che nella relativa controversia promossa dal lavoratore la
sentenza di appello aveva ritenuto fondata la censura relativa
all'insussistenza di ragioni giustificatrici del provvedimento, e
che la Corte di Cassazione adita dal datore di lavoro aveva
confermato l'illegittimità del trasferimento a causa della mancata
Z' comunicazione scritta dei motivi.
1.2.2. Con riguardo alle visite fiscali, il
giudice dell'appello ha confuso quelle effettuate per il controllo
delle assenze con quelle disposte per l'accertamento dell'idoneità
fisica; queste ultime risultavano chiaramente ispirate da un intento
persecutorio e non potevano trovare giustificazione nelle assenze
per la medesima malattia, anche perchè le visite avevano sempre
avuto risultati positivi; e le stesse considerazioni valevano per il
controllo delle assenze, disposto ripetutamente per la stessa
malattia già accertata.
1.2.3. In ordine alle limitazioni
dell'attività lavorativa, disposte dopo il rientro in servizio nel
1997, con la sottrazione delle abilitazioni all'accesso dei
terminali, le circostanze dedotte dall'attore in primo grado erano
state confermate dai testi escussi.
1.2.4. La sanzione disciplinare del 1994, di
cui è stata riconosciuta l'illegittimità, è stata poi considerata
dalla sentenza impugnata come un "episodio isolato", senza una
valutazione complessiva della vicenda, con l'affermazione
contraddittoria ed incomprensibile secondo cui "l'illegittimità di
un comportamento datoriale non integra un atto di mobbing". 1.3.
Sotto un ultimo profilo si denuncia l'omesso esame di "molti altri
episodi riportati nell'atto d'appello", di cui viene riproposto un
elenco.
2.1. Le censure non meritano accoglimento. In
primo luogo si osserva che la Corte territoriale ha esaminato le
doglianze dell'appellante seguendo la sua prospettazione di una
fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di lavoro
protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione,
finalizzata all'emarginazione del lavoratore. In questa ottica, ha
condiviso l'affermazione dell'esigenza di una valutazione
complessiva degli episodi dedotti in giudizio, che non risulta
contraddetta dal risultato dell'indagine, fondata sull'analisi dei
singoli comportamenti del datore di lavoro di cui si deduce il
carattere lesivo.
Le circostanze esaminate acquistano rilevanza
ai fini dell'accertamento di una condotta sistematica e protratta
nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una
lesione dell'integrità fisica e la personalità morale del prestatore
di lavoro, garantite dall'art. 2087 cod. civ.; tale
illecito, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza
posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può
realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di
lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi
contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro
subordinato.
La sussistenza della lesione del bene
protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata
considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di
lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata
dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di
persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una
connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una
violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato.
3.0. Tali criteri sono stati seguiti dalla
sentenza impugnata, che ha escluso, con congrua motivazione, la
configurabilità di un disegno persecutorio realizzato mediante i
vari comportamenti indicati dal M..
3.1. Con riguardo al provvedimento di cui al
punto 1.1.1., risulta dalle allegazioni della parte che nel
precedente giudizio tra le parti fu definitivamente accertata
l'illegittimità del trasferimento per la mancata comunicazione dei
motivi che giustificavano lo spostamento dal luogo di lavoro. Nulla
è stato dedotto dal ricorrente in ordine agli elementi probatori
acquisiti in quel procedimento, e riproposti a sostegno della
domanda azionata nel presente giudizio, che avrebbero potuto
dimostrare il carattere persecutorio - nei termini sopra indicati -
dell'azione del datore di lavoro.
3.2. Quanto alle visite mediche eseguite su
richiesta dell'azienda, non viene chiarita in fatto la rilevanza ai
fini dell'indagine, della mancata distinzione tra i controlli della
idoneità fisica e i controlli delle assenze. In proposito il giudice
di merito ha ritenuto giustificabili questi interventi in
considerazione del loro compimento durante una prolungata assenza
per malattia (per oltre duecento giorni): tale apprezzamento di
fatto non viene criticato con l'indicazione di precise circostanze
non esaminate, idonee a dimostrare - anche sotto questo profilo - il
carattere vessatorio dell'iniziativa del datore di lavoro.
3.3. Analoghi rilievi valgono per la vicenda
della mancata abilitazione all'accesso ai terminali, che la Corte
territoriale - condividendo la valutazione espressa dal primo
giudice, non censurata con specifici motivi di gravame - ha
ricondotto a problemi di continuità di inserimento del dipendente
nell'attività di aggiornamento dei dati. Anche su questo punto non
vengono precisati difetti di indagine.
3.4. Quanto alla sanzione disciplinare del
1994 (annullata dal Collegio di conciliazione e arbitrato) la
valutazione espressa dalla Corte Territoriale sfugge alle critiche
mosse, non potendosi ravvisare alcuna contraddizione tra il
riconoscimento della illegittimità del provvedimento e la negazione
della possibilità di iscrivere tale episodio in un disegno
persecutorio, sulla base di un apprezzamento delle concrete
circostanze di fatto.
3.5. La censura di cui al punto 1.3. appare
inammissibile. Il giudice dell'appello ha osservato che con
riferimento a diversi episodi considerati nella decisione di primo
grado non erano stati proposti specifici motivi d'impugnazione:
questo giudizio sulla preclusione di un riesame delle relative
circostanze non viene censurato dalla parte, nè è dato verificare se
i fatti descritti nel ricorso, per i quali si lamenta oggi un
difetto di indagine (una sanzione disciplinare dell'anno 2000, la
richiesta di un caposervizio di un controllo delle attività del M.,
la "costrizione nel 1999 a prendere un periodo di ferie", la
"necessità di ricorrere ad un permesso per recarsi a testimoniare")
coincidano con quelli di cui si è ritenuto precluso il riesame.
In violazione del principio di
autosufficienza del ricorso, l'attuale ricorrente si è del resto
limitato ad elencare sommariamente i vari episodi, senza indicare
gli specifici elementi di fatto rilevanti per l'indagine richiesta
al giudice di appello, così da consentire a questa Corte il
controllo della decisività delle risultanze non valutate.
Il ricorso deve essere quindi respinto con la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente
giudizio liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro
24,00 oltre Euro 5.000 per onorari ed oltre spese generali ed
accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2006
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