Cass. pen. Sez. V, (ud. 21-01-2009) 17-02-2009, n. 6758
Svolgimento del processo
Il
Giudice di Pace di Acireale ha condannato il 12.4.2005 B. A.,
Presidente della Cooperativa "@@@@@@@" quale responsabile sia di
ingiurie sia di diffamazione per avere indirizzato al dipendente G.R.
lettera raccomandata portante frasi offensive del suo onore e decoro
("appare penoso dover constatare l'utilizzo di certi mezzucci da mezze
maniche per fregare il proprio datore di lavoro") e di avere informato
della medesima missiva i membri del consiglio di amministrazione.
Il Tribunale di Catania (sez. Acireale) ha confermato con la sentenza 1.7.2008 la prima decisione.
Ricorre la difesa del prevenuto ed eccepisce:
-
l'assenza di motivazione mancando nel provvedimento impugnato una
articolazione giustificativa (non ravvisabile neppure per relationem),
per il rigetto dell'appello;
- l'inosservanza
della legge processuale avendo il primo giudice revocato (all'udienza
3.3.2005) l'ordinanza che ammetteva alcuni testimoni dedotti dalla
difesa nonchè l'esame dell'imputato, così inibendo l'esercizio delle
facoltà difensive dell'imputato medesimo;
-
erronea applicazione della legge penale avendo indebitamente ritenuto
integrativa delle condotte illecite la frase incriminata, mancando la
consapevolezza in capo all'autore del fatto lesivo dell'onore e della
reputazione della persona offesa, ed avendo omesso di motivare
convincentemente (quanto agli elementi soggettivi ed oggettivi della
fattispecie) l'assunto foriero della penale responsabilità, trattandosi
di rimprovero al dipendente sulla condotta da questi tenuta.
All'odierna
udienza il Procuratore Generale (nella persona del Cons. Dott. Tindari
Baglione) conclude instando per l'annullamento senza rinvio perchè il
fatto non costituisce reato.
E' presente l'avv. Savino Pantuso del Foro di Palermo, difensore di B.A., che si associa alle richieste del PG.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
La motivazione, seppur molto sintetica e succinta, non può dirsi carente in guisa da integrare la nullità dettata dall'art. 125 c.p.p.,
comma 3. Infatti, il giudice ha espresso le ragioni per cui ha
rigettato l'appello, con percorso argomentativo comprensibile se
rapportato alla vicenda dedotta dal gravame di appello, non rispondendo
al vero che esso si sia limitato (neppure con un richiamo per
relationem) a denegare sic et impliciter il fondamento della
impugnazione. Il provvedimento esaudisce, cioè, Io scopo processuale a
cui è preposto.
Infondato è pure il secondo motivo.
Precisato
che la revoca delle prove coinvolse anche quelle dedotte dall'accusa,
come si evince dal brano riportato dal medesimo ricorrente nel suo atto
di impugnazione, il giudice espressamente giustificò l'ordinanza, dopo
aver sentito le parti, poichè ritenne superfluo "assumere le
testimonianze degli altri testi nelle rispettive liste già ammessi,
perchè i fatti di cui all'imputazione sono stati provati documentalmente
e specificati dai testi già escussi" (cfr. ricorso pag. 5). Ne consegue
che la censura di mancata ammissione di una prova decisiva, avendo il
giudice indicato le ragioni della revoca della prova già ammessa, impone
la verifica della logicità e congruenza della relativa motivazione
raffrontata al materiale probatorio raccolto e valutato: vaglio che,
assunto in termini di logicità e sufficienza, si presenta immune da
vizio effettivo.
Del resto, il ricorrente non
segnala quale rilievo decisivo avrebbero avuto le deposizioni dedotte,
nell'economia della decisione ed in quale parte essa urti con le
risultanze documentali acquisite.
A sua volta
il giudice di appello ha validato la discrezionalità esercitata dal
giudicante e l'assenza di lesione delle disposizioni processuali, così
adempiendo all'onere giustificativo anche per questo versante
processuale.
Al contempo, l'assenza
dell'imputato all'udienza fissata per il suo esame priva di rilievo
l'omesso espletamento dell'invocato incombente, poichè - oltretutto -
tanto non concreta menomazione del diritto di difesa potendo
l'interessato avvalersi della facoltà di rendere le dichiarazioni più
opportune e di domandare per ultimo la parola ai sensi dell'art. 494 c.p.p., comma 1, e art. 523 c.p.p., comma 5.
Non
può esser accolto neppure l'ultimo mezzo di impugnazione, che il
Procuratore generale sembra, invece, aver condiviso all'odierna udienza.
In tema di ingiuria in ambito lavorativo, il potere gerarchico o,
comunque, di sovraordinazione consente di richiamare, ma non di
ingiuriare il dipendente lavoratore, o di esorbitare dai limiti della
correttezza e del rispetto della dignità umana.
Esattamente
il giudice di appello ha negato che il linguaggio corrente, nei suoi
eccessi verbali, consenta l'uso di espressioni che travalichino ogni
finalità correttiva e disciplinare. La valutazione del contesto in cui
sorse e si sviluppò la censura incriminata non può essere oggetto di
ulteriore vaglio da parte del giudice di legittimità, attenendo al
merito. Può soltanto osservarsi che espressioni come "penoso",
"mezzucci", "mezze maniche" e "fregare il proprio datore di lavoro"
contengono un'intrinseca valenza mortificatrice della persona e si
dirigono più che all'azione censurata, alla figura morale del
dipendente, traducendosi in un attacco personale sul piano individuale,
che travalica ogni ammissibile facoltà di critica.
Il
ricorrente non ha affacciato alcuna ragione, giuridicamente
apprezzabile, volta a dimostrare l'assenza di contezza del portato
denigratorio delle sue frasi, rivolte direttamente alla persona offesa e
ribadite con ulteriore comportamento diffamatorio verso i componenti
del consiglio di amministrazione della cooperativa, frasi redatte per
iscritto e, dunque, frutto di una qualche meditazione.
La
correttezza della decisione nel merito della vicenda priva di interesse
la censura che eccepisce l'asserita insufficiente motivazione a suo
sostegno.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2009
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