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martedì 9 luglio 2013

Cassazione: Uffici pubblici, il capo non può denigrare per lettera i propri sottoposti Neppure quando relaziona ai dirigenti più alti sulle capacità (carenti) dei dipendenti. Le critiche vanno espresse solo nelle contestazioni formali di addebiti disciplinari o manchevolezze professionali




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Uffici pubblici, il capo non può denigrare per lettera i propri sottoposti
Neppure quando relaziona ai dirigenti più alti sulle
capacità (carenti) dei dipendenti. Le critiche vanno espresse solo
nelle contestazioni formali di addebiti disciplinari o manchevolezze
professionali
 (Sezione sesta, sentenza n. 22702/07; depositata l'11
giugno)
ABUSO DI UFFICIO
Cass. pen. Sez. VI, (ud. 10-04-2007) 11-06-
2007, n. 22702


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.
mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SANSONE Luigi - Presidente

Dott.
AMBROSINI Gian Giulio - Consigliere

Dott. DE ROBERTO Giovanni -
Consigliere

Dott. CONTI Giovanni - Consigliere

Dott. CARCANO Domenico
- Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso
proposto da:

1) M.G.R., N. il (OMISSIS);

avverso SENTENZA del
05/06/2006 CORTE APPELLO di CAGLIARI;

Visti gli atti la sentenza e il
ricorso;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. AMBROSINI
Giangiulio;

Udito il Procuratore Generale, in persona del Dott.
FAVALLI Mario che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il
difensore della parte civile, avv. MANCA BITTI;

Udito il difensore del
ricorrente avv. SECHI Gian Mario.


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Fatto - Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo - Motivi della
decisione
La Corte d'appello di Cagliari con sentenza 5.6.2006
confermava la sentenza 9.5.2006 del Tribunale della stessa città di
condanna di M.G. alla pena di anni uno di reclusione per il reato di
cui agli artt. 81, 323, 595 c.p..

Al M. si addebita, in qualità di
direttore dell'aereoporto, di avere inibito a una funzionaria ( B.M.M.)
l'esercizio di funzioni corrispondenti alla sua qualifica attribuendole
a un funzionario ( C.) di livello inferiore e di avere revocato alla
stessa le funzioni vicarie in assenza del dirigente, nonostante le
sollecitazioni dei superiori e una decisione del TAR che annullava il
provvedimento di revoca.

Inoltre di avere usato espressioni offensive
della reputazione e della professionalità della B. in ambiti diversi
dalle formali contestazioni.

Ricorre la difesa dell'imputato in primo
luogo per violazione dell'art. 323 c.p., e difetto di motivazione sul
punto.

Assume che le norme indicate nel capo di imputazione (D.P.R. n.
266 del 1987, art. 20, e D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56,) non hanno i
requisiti di specifica precettività richiesti per integrare la
fattispecie di cui all'art. 323 c.p..

Per contro il M., cessate le
esigenze temporanee che avevano comportato il conferimento delle
funzioni vicarie (alla B.), era legittimato a riprendere appieno dette
funzioni.

Ed ancora all'epoca del fatto la legge non prevedeva
l'obbligo di ottemperanza alle decisioni cautelari del TAR di
sospensiva.

Rileva inoltre che la conflittualità della B. con
l'imputato era sorta dopo il rientro di questi dall'assenza per
malattia ed era dovuta al fatto che egli aveva negato alla funzionaria
la liquidazione di straordinari superiori al monte - ore.

Contesta
infine la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato non essendo le
condotte finalizzate intenzionalmente al perseguimento di un danno
ingiusto.

Con un secondo motivo denuncia la violazione dell'art. 595 c.
p., e il relativo difetto di motivazione.

Le frasi ritenute offensive
del decoro della B. erano contenute in comunicazioni indirizzate
esclusivamente ai superiori gerarchici, unici legittimati ad adottare
eventuali provvedimenti nei confronti della B.. Dal che desume
l'assenza del requisito della volontà di divulgare il loro contenuto a
terzi.

Con un terzo motivo si duole della violazione dell'art. 539 c.p.
p., e del relativo difetto di motivazione per quanto riguarda la
quantificazione della provvisionale.

MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Il
primo motivo di ricorso si articola in una serie di censure aventi
oggetti diversi, che vanno pertanto singolarmente esaminate.

2. La
prima di esse concerne la precettività o meno delle norme di legge
indicate dal capo di imputazione che si assumono violate.

Segnatamente
l'art. 97 Cost.; D.P.R. 10 ottobre 1957, n. 3, artt. 13 e 31; D.P.R. 8
maggio 1987, n. 266, art. 20; D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56.

E' principio consolidato in giurisprudenza che, perchè la violazione di
legge possa integrare, con gli altri elementi richiesti dall'art. 323 c.
p., il delitto di abuso di ufficio occorrono due presupposti.

Il primo
di essi è che la norma violata non sia genericamente strumentale alla
regolarità dell'attività amministrativa, ma vieti puntualmente il
comportamento sostanziale del pubblico ufficiale. Il secondo
presupposto è che l'agente violi leggi e regolamenti che di questi
abbiano i caratteri formali e il regime giuridico, non essendo
sufficiente un qualunque contenuto materialmente normativo della
disposizione trasgredita.

Occorre dunque verificare se tali
presupposti sussistono in relazione alle norme sopra ricordate.

3. Per
quanto concerne dell'art. 97 Cost., comma 1, secondo cui i pubblici
uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo da
assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, la
giurisprudenza consolidata (per tutte Cass., Sez. 6, 8.5.2003, Zardini,
rv 226.706) si esprime nel senso che la norma non ha carattere
precettivo e ha valore meramente programmatico, sicchè tali principi
per il carattere generale che li distingue non sono idonei a costituire
oggetto della violazione che può dar luogo alla integrazione del reato
previsto dall'art. 323 c.p..

4. Per quanto concerne le altre norme di
legge menzionate nel capo di imputazione, di cui si assume la
violazione, la contestazione difensiva non appare decisiva.
Innanzitutto la giurisprudenza citata nel ricorso non è specifica, ma
riferita a principi di carattere generale del tutto condivisibili, e
condivisi dal collegio, come ricordato al punto 2 che precede.

Il D.
Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, non può considerarsi norma meramente
programmatica o procedimentale, poichè stabilisce un ordine prioritario
nelle assegnazioni di funzioni corrispondenti alla qualifica funzionale
e vieta quindi di alterare quest'ordine con l'attribuzione delle
funzioni a un soggetto avente qualifica inferiore pur in presenza di un
funzionario di qualifica superiore.

Salva, ovviamente, una adeguata
motivazione del provvedimento che determini lo "scavalcamento"
dell'ordine di priorità dei funzionari - che nella specie non si
riscontra.

5. Tanto basterebbe per identificare la violazione di legge
rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 323 c.p..

Ma la sentenza
impugnata evidenzia altre violazioni di legge significative, quali
quella relativa al D.P.R. n. 266 del 1987, art. 20, per l'assegnazione
delle funzioni vicarie a un funzionario di rango inferiore; o quella
relativa al D.P.R. n. 3 del 1957, art. 16, che impone il dovere di
adeguare la propria condotta agli ordini ricevuti dai superiori
gerarchici (nella specie il Ministero dei trasporti).

6. Sempre
nell'ambito del primo motivo di ricorso la difesa del ricorrente si
attarda sulla questione delle funzioni vicarie, prima attribuite e poi
revocate alla persona offesa.

Sul punto la doglianza appare in fatto,
poichè sposta il quadro di riferimento alla riappropriazione delle
funzioni proprie del dirigente al momento di rientro in servizio dopo
l'assenza per malattia, ignorando la complessa vicenda della revoca
dalle funzioni vicarie anteriore al rientro in servizio - sulla quale
si era pronunciato anche il TAR con decisione contraria ai
provvedimenti dell'imputato e senza ottemperanza ad essa da parte del
medesimo.

7. Per quanto concerne la conflittualità fra imputato e
persona offesa, relativamente alla controversia circa la liquidazione
dei compensi per le ore straordinarie di lavoro, la questione da un
lato appare priva di rilevanza ai fini della verifica della sussistenza
degli estremi del reato di cui all'art. 323 c.p.p., dall'altro appare
suscettibile di lettura ambivalente non necessariamente favorevole alla
posizione dell'imputato (non a caso il diniego degli straordinari
figura fra le contestazioni nel capo di imputazione).

8. In ordine
all'elemento soggettivo del reato non pare necessario ricorrere a
citazioni giurisprudenziali consolidate, laddove è intuitiva - oltre
che specificata nella sentenza impugnata - la natura vessatoria delle
condotte dell'imputato, il quale - come si legge nell'ultima pagina
della decisione (sia pure relativa specificamente al reato di
diffamazione) - "se riteneva in base ad elementi oggettivi, rimasti
peraltro non dimostrati, la B. assolutamente inadeguata al suo ruolo ed
incapace di assolvere alle sue mansioni, avrebbe dovuto, avvalendosi
dei suoi poteri di direzione dell'ufficio, procedere a formali
contestazioni".

La motivazione appare ineccepibile e tale da
evidenziare la volontà espressa dell'imputato di porre in essere atti
in danno della persona offesa escludendo aprioristicamente l'adozione
di procedure conformi alla legge.

9. Il secondo motivo ricorso
denuncia il difetto di motivazione relativamente alla pronunciata
condanna per il reato di cui all'art. 595 c.p..

Sostiene la difesa del
ricorrente la mancanza dei presupposti del reato, essendo state le
lettere contenenti espressioni critiche (e offensive) nei confronti
della dipendente B. inviate a soggetti individuati, ossia i superiori
gerarchici legittimati ad adottare provvedimenti amministrativi nei
confronti della stessa.

La vastissima giurisprudenza in materia, non
sempre uniforme, consente in ipotesi la più ampia gamma di soluzioni.

10. La difesa non contesta l'obiettiva offensività del contenuto delle
missive inviate dall'imputato ai titolari di organi pubblici.

Ciò che
viene messo in discussione è la volontà di divulgare il contenuto delle
missive a un numero indeterminato di persone. Sul punto la sentenza
impugnata fornisce una adeguata motivazione, osservando che l'imputato
poteva giovarsi di strumenti formali di contestazione di eventuali
addebiti disciplinari o di incapacità nell'assolvere le funzioni
attribuite.

La prassi, invece, di inviare missive ad organi pubblici,
con la conseguente possibilità concreta della conoscenza del loro
contenuto da parte di una molteplicità di soggetti (quanto meno i
funzionari addetti agli uffici cui le missive erano indirizzate), si
pone al di fuori delle formalità proprie cui è tenuto il soggetto
preposto a un pubblico ufficio e pone in essere una condotta del tutto
anomala, il cui significato è stato correttamente inteso dalla sentenza
impugnata come volontà di portare a conoscenza di terzi espressioni
offensive del decoro della persona oggetto delle missive.

11. L'ultimo
motivo di ricorso concerne il difetto di motivazione relativo alle
statuizioni civili.

Il motivo appare infondato, a fronte della
decisione della Corte d'appello che conferma anche in punto pena la
decisione di primo grado e ne fa proprie le statuizione civili, già
sufficientemente argomentate dal primo giudice.

12. Non si pone
problema di prescrizione del reato in considerazione delle sospensioni
della stessa (pari a un anno, 2 mesi e 5 giorni), così che il termine
prescrizionale resta fissato al 29.5.2007 e non è stato superato.

13.
In questo quadro il ricorso deve essere rigettato con la conseguente
condanna al pagamento delle spese processuali.

Il rigetto del ricorso
comporta la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese
sostenute dalla parte civile in questo grado di giudizio, che vengono
equitativamente liquidate in complessivi euro 2,500,00, oltre IVA e
CPA.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali nonchè a rifondere alla costituita parte civile
le spese del grado liquidate in Euro 2.500,00, oltre IVA e CPA. Così
deciso in Roma, il 10 aprile 2007.

Depositato in Cancelleria il 11
giugno 2007


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cost. art. 97
c.p. art. 323
D.Lgs. 03/02/1993 n. 29, art. 56

 

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