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venerdì 5 luglio 2013

TAR: Mobbing, risarcimento possibile ma solo se il lavoratore ha impugnato i provvedimenti vessatori Respinto il ricorso di un sottufficiale cui erano stati inflitti atti lesivi: dovevano essere contestati con i rimedi previsti dall'ordinamento





Mobbing, risarcimento possibile ma solo se il lavoratore ha impugnato i provvedimenti vessatori
Respinto il ricorso di un sottufficiale cui
erano stati inflitti atti lesivi: dovevano essere contestati con i
rimedi previsti dall'ordinamento
 (Tar Veneto, sezione prima, sentenza
n. 2503/07; depositata il 18 luglio) 
Ricorso n. xxxxx     Sent. n.
2503/07

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

  Il
Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, prima Sezione, con l’
intervento dei magistrati:

Avviso di Deposito

del

a norma dell’art.
55

della   L.   27 aprile

1982 n. 186

Il Direttore di Sezione

 
Bruno Amoroso  Presidente

  Elvio Antonelli  Consigliere

  Fulvio
Rocco   Consigliere, estensore

  ha pronunciato la seguente

SENTENZA

  sul ricorso R.G.. xxxxx, proposto da xxxxxxxxxxxxx, rappresentato e
difeso dall’Avv. Federico Veneri, con domicilio eletto presso la
Segreteria del T.A.R. Veneto, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 35
del T.U. approvato con R.D.  26 giugno 1924, n. 1054,

contro

  il
Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore,
costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
Distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Venezia, San Maro
n. 63,

e nei confronti di

   - xxxxxxxxxxxxxxxx, costituitosi in
giudizio, rappresentato e difeso dall’Avv. Eugenio Lequaglie, dall’Avv.
Pier Luigi Mostratisi e dall’avv. Francesco Acerboni, con domicilio
eletto presso lo studio di quest’ultimo in Venezia, n. 312/A;

xxxxxxxx, non costituitosi in giudizio;
- xxxxx, non costituitosi in
giudizio,

  per la condanna

  delle parti intimate al risarcimento
del danno professionale e biologico da demansionamento professionale e
mobbing subiti nell’ambito del servizio prestato dal ricorrente presso
il Reggimento Lagunari “Serenissima.

  Visto il ricorso con i relativi
allegati, notificato il 26.7.2004 e depositato il 13.8.2004;

  visti
gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa e di
xxxxxxx;

  viste le memorie prodotte dalle parti;

  visti gli atti
tutti di causa;

  uditi nella pubblica udienza del 15 marzo 2007
(relatore il consigliere Fulvio Rocco) l’Avv. Porcari, in sostituzione
di Veneri per il ricorrente, l’Avvocato dello Stato Daneluzzi per il
Ministero della Difesa e l’Avv. Lequaglie per xxxxxxx;

  ritenuto in
fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO  E  DIRITTO

  1.1
Il ricorrente, Maresciallo Capo dell’Esercito xxxxxxxxxx, espone di
essere nato a San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) in data 20
settembre 1961, di essersi arruolato nell’Esercito nel 1979, di aver
frequentato la Scuola Sottufficiali di Viterbo e di essere stato
assegnato, dopo l’addestramento in tale Istituto, al 1° Battaglione del
Reggimento Lagunari “Serenissima”, di stanza a Malcontenta di Mira
(Venezia).

  Il xxxxx afferma di aver ivi prestato servizio per 20
anni, venendo quindi trasferito presso il Comando reggimentale a
Mestre, segnatamente all’Ufficio Maggiorità, su richiesta dell’allora
Aiutante Maggiore, Capitano Migheli.

  Il xxxxxx afferma che anche nel
disimpegno di tale nuovo incarico, ha conseguito sino a tutto il 31
dicembre 2001 il giudizio di “eccellente” nelle valutazioni periodiche
(cfr. doc. 1 di parte ricorrente).

  Il medesimo xxxxx riferisce,
quindi, che nel marzo del 2002 la propria figlia Monica, all’epoca
undicenne, ha subito un infortunio alla gamba destra, fratturandosi il
femore e la tibia (cfr. ibidem, doc. 2).

  In relazione a ciò, l’
attuale ricorrente ha chiesto in data 5 marzo 2002 un congedo parentale
al fine di prestarle assistenza (cfr. ibidem, doc. 3), posto che la
madre doveva a sua volta assistere l’altro figlio, di un anno d’età
(cfr. ibidem, doc. 4) e che i suoceri e gli altri parenti del proprio
nucleo familiare risiedevano ad Ascoli Piceno.

  Il ricorrente
evidenzia, peraltro, di aver limitato a 25 giorni la propria richiesta,
pur a fronte dei 45 giorni retribuiti consentiti dalla disciplina
vigente al riguardo.

  Il diretto superiore di xxxx, Capitano xxxxxx,
si sarebbe - a sua volta - rifiutato di ricevere la domanda,
asserendone la carenza di presupposti.

  Tale invero singolare
comportamento del xxx, all’evidenza  illegittimo e illecito, avrebbe
quindi indotto il xxxxx a omettere la consueta via gerarchica e ad
inoltrare la propria domanda mediante  l’Ufficio Protocollo.

  Il
ricorrente afferma che, in considerazione della legittimità della
richiesta, il Comando avrebbe provveduto in data 7 marzo 2002 alla sua
riformulazione previa nuova sottoscrizione dell’istanza da parte del
suo presentatore (cfr. ibidem doc. 5).

  La nuova domanda risulta
accolta dal Comandante, Col. xxxxxx (cfr. ibidem, doc.6).

  Il xxxxxx
afferma di non essere stato sanzionato per tale sua mancata osservanza
della linea gerarchica: e questa circostanza, a suo avviso,
comproverebbe la consapevolezza dell’illegittimità del rifiuto da parte
del suo superiore diretto.

  Il Capitano xxxx avrebbe appreso la
notizia dell’intervenuto assenso al congedo con vivo disappunto,
reclamando presso il Comandante e sostenendo l’indispensabilità di xxx
all’Ufficio.

  Il Comandante avrebbe quindi convocato il
Sottufficiale addetto all’Ufficio Personale, che gli aveva sottoposto
la domanda, rimproverandolo per il sotterfugio di aver confuso la
domanda del xxxxx con le altre pratiche, al fine di indurlo a
firmarla.

  Il xxx, per parte propria, avrebbe affermato di non aver
mai ricevuto la domanda, nonostante fosse a capo dell’Ufficio
Protocollo Generale.

  Il xxxxx avrebbe a sua volta insisteva nel
rivendicare il proprio diritto, e l’obiettiva sua necessità di fruire
del congedo parentale.

  Il medesimo ricorrente afferma che il
Capitano xxxx non sarebbe stato nuovo a consimili comportamenti, posto
che qualche tempo prima, adducendo generiche esigenze d’ufficio,
avrebbe precluso al xxxx la partecipazione a ben due corsi di
qualificazione anfibia, con finalità di aggiornamento, addestramento e
percezione delle relative indennità.

  Il xxxx rimarca che tale
divieto avrebbe causato la perdita di importanti occasioni di crescita
professionale, anche in vista della sua progressione in carriera.

  Il
xxxxx insiste sul punto, affermando che gli ordini del xxx si sarebbero
tradotti, non di rado, in autentici arbitrii.

  In tal senso, il
medesimo ricorrente riferisce di essere stato sovente comandato dal
medesimo xxxx in ufficio oltre l’orario di servizio, per il disbrigo di
pratiche sicuramente non impellenti e di altre accumulatesi per la
cronica carenza di personale.

  Il ricorso allo straordinario sarebbe
quindi diventato per l’ufficio comandato dal xxxx evento del tutto
ordinario e sistematico (cfr., esemplificativamente lo statino presenze
gennaio -luglio 2002, ibidem, doc. 7), e a tale proposito il medesimo
xxxxxx riferisce di aver smarrito in quel periodo il bancomat (cfr.
ibidem, doc. 8 e di aver avuto necessità, venerdì 25 gennaio 2002, di
effettuare un prelievo in banca.

  Il medesimo ricorrente afferma che
quel giorno, ultimo della settimana lavorativa, il proprio servizio
terminava alle ore 12.00, e che egli aveva quindi previsto di disporre
liberamente del tempo necessario per compiere tale operazione entro le
16.00, orario di chiusura degli sportelli; anche quel giorno, peraltro,
il xxxx gli avrebbe imposto di svolgere mansioni straordinarie di
ufficio ragionevolmente rinviabili al giorno dopo, posto che il
medesimo xxxx afferma di essere frequentemente comandato in ufficio
anche il sabato.

  Alle ore 15.00 il xxxx, temendo ormai di non avere
più la possibilità di recarsi in banca, avrebbe protestato ed infine,
data l’indifferenza di xxx, si sarebbe messo a rapporto dal
Comandante.  Questi, compresa la situazione, avrebbe quindi autorizzato
in via straordinaria il prelievo della somma direttamente dalla cassa
interna della caserma, quale anticipo sullo stipendio.

  Il xxxxx
tuttavia, per evitare complicazioni, avrebbe chiesto di essere
piuttosto di essere accompagnato al più presto in banca, riuscendo alla
fine a raggiungere lo sportello grazie alla disponibilità del collega
Maresciallo xxxxxxxxxxxxxx (cfr. doc. 9, estratto del conto corrente
dal quale risulta la data del prelevamento effettuato presso lo
sportello, nonché doc. 7, pag. 2, evidenziante l’uscita del xxxx dalla
caserma alle ore 15.40).

  Il ricorrente inoltre afferma che in varie
occasioni la propria moglie, giunta verso le 16.30 in caserma per
riaccompagnarlo a casa, sarebbe stata costretta a rientrare da sola in
seguito all’inaspettato prolungamento del servizio.

  Il xxxx
evidenzia, quindi, di aver accumulato pesanti ragioni di stress già all’
epoca della presentazione della predetta domanda di congedo parentale.

  Il xxxx riferisce, pure, che dopo il suo rientro dal congedo, il
comportamento dei superiori si sarebbe ulteriormente inasprito.

  Egli
cita a tale proposito, quali esempi, il rimprovero di scarso
attaccamento al dovere (riferito, sempre, al congedo parentale fruito)
estemporaneamente rivoltogli dal Comandante mentre gli consegnava la
posta della giornata, nonché un ulteriore e consistente aumento degli
straordinari (cfr. ibidem, doc. 7) che era chiamato a prestare da solo
o, al più, con l’aiuto di un militare di leva, mentre il numero del
personale disponibile presso il Comando sarebbe nel frattempo
addirittura raddoppiato (cfr. ibidem, doc.ti 10 e 11).

  Sempre in
tale periodo il xxxx, nel corso di una riunione indetta tra i membri
dell’Ufficio Maggiorità e Personale, avrebbe pure accusato il xxxxxxx
di aver falsificato, posticipandolo, l’orario del registro di uscita.

  Il xxxxx sarebbe insorto a propria difesa, chiedendo di verificare il
registro di uscita, nonché l’ulteriore registro esistente al posto di
controllo per l’annotazione delle targhe dei veicoli in entrata e in
uscita.

  La versione del ricorrente risulta, comunque, confermata
dalla dichiarazione di un suo collega (cfr. ibidem, doc. 12): ma dall’
accusa del xxx sarebbe comunque scaturito un acceso diverbio, con la
minaccia di adozione di provvedimenti disciplinari a carico del
medesimo xxxx.

  Tale minaccia si è, infatti, poco dopo concretata con
l’irrogazione a carico del xxxx di due sanzioni disciplinari da parte
del Comandante di corpo, entrambe senza formale contestazione di
addebiti e senza l’instaurazione del contraddittorio a garanzia del
diritto a difesa dell’incolpato.

  La prima di tali sanzioni reca la
data del 10 maggio 2002, e con essa si sarebbe inteso perseguire il
tardivo espletamento di un imprecisato incarico (cfr. ibidem, doc. 13),
peraltro del tutto infondatamente, essendo stato il medesimo xxxx
collocato in licenza ordinaria dal medesimo Comandante nella stessa
data del comportamento assunto a presupposto per la punizione.

  Con
la seconda sanzione è stata censurata la lunghezza eccessiva dei
capelli dell’attuale ricorrente (cfr. ibidem, doc.15), il quale a sua
volta afferma l’insussistenza di quanto contestatogli.

  Comunque sia,
il xxxxx evidenzia che, previo suo ricorso gerarchico, entrambi tali
provvedimenti sono stati annullati nell’assorbente presupposto della
mancata concessione dei termini a difesa nei suoi confronti da parte
del Comandante di corpo (cfr. ibidem, doc.ti 16 e 17).

  Il xxxxx,
dopo ciò, ha dato mandato ad un legale di fiducia di diffidare il xxx
dal persistere nelle proprie molestie (cfr. ibidem, doc. 18).

  Il
medesimo ricorrente riferisce in proposito che i propri superiori non
avrebbero replicato a tale sua iniziativa, e che – peraltro – egli da
quel momento sarebbe stato di fatto esautorato dalle più qualificanti
mansioni del proprio incarico.

  Il ricorrente afferma, anche, di aver
presentato in data 20 giugno 2002, mediante atto protocollato, una
domanda di licenza per 12 giorni, al fine di recarsi in vacanza (cfr.
ibidem, doc. 19).

  Tale richiesta sarebbe stata ricusata dal xxxx,
allegando che la stessa non trovava rispondenza nel piano ferie
precedentemente stabilito per il personale dipendente(cfr. ibidem, doc.
20).

  Il xxxx evidenzia che, per contro, la programmazione sarebbe
documentata nella sua materiale esistenza, in quanto risalente
addirittura al 7 marzo 2002, per espressa disposizione del Comandante
xxxxxxx (cfr. ibidem, doc. 21), il quale dovette – quindi – accogliere
la richiesta anzidetta, ancorchè con provvedimento pervenuto a quest’
ultimo soltanto il giorno prima del previsto inizio della licenza (cfr.
ibidem, doc. 22, con riferimento alla data di registrazione in calce).

  Dopo il ritorno dalla licenza, il xxxxxxx venne messo agli ordini di
un nuovo superiore, il Capitano xxxx, chiamato a sostituire il xxxx
nell’incarico precedentemente disimpegnato.

  Il ricorrente evidenzia,
comunque, che il xxx, prima di assumere il proprio nuovo incarico,
aveva compilato le sue note caratteristiche per il periodo 1 gennaio –
23 luglio 2002, abbassando – con la piena approvazione del Comandante
xxxx - il proprio giudizio da “eccellente” a “superiore alla media”
(cfr. ibidem, doc. 23).

  Le note censuravano, in tal senso, nei
riguardi del xxxxx l’asseritamente scarsa sua applicazione al servizio,
svolto con discontinuità ed anteponendo al lavoro problemi
extraistituzionali: e ciò, in modo del tutto contraddittorio rispetto
all’indubbia mole di ore straordinarie forzatamente svolte, nonché alla
circostanza che tale atteggiamento negativo mai era stato dianzi
rilevato con l’irrogazione di sanzioni disciplinari.

  (mancanze del
resto mai rilevate prima con alcun tipo di sanzione). Nel periodo
oggetto di valutazione, al contrario, risultava effettuata da xxxxxxx
una gran mole di lavoro straordinario.

  Il ricorrente - altresì –
allega, a comprova della mancanza di obiettività di tale giudizio, la
circostanza che il Capitano xxxx, nelle note di giudizio da lui poi
redatte, ha riattribuito nei suoi riguardi la qualifica di eccellenza
(cfr. ibidem, doc. 24).

  Il xxxx riferisce, anche, che nell’agosto
2002 il Capitano xxxxxxx lo aveva selezionato per l’invio in missione
in Kossovo, con intuitivi benefici economici e di incremento di
professionalità, utile anche ai fini dell’avanzamento di grado.

  Il
xxxxxx era stato sottoposto per tale motivo anche a visite mediche e a
vaccinazioni che ne avevano confermato la piena idoneità fisica (cfr.
ibidem, doc. 25); ma, venuto meno l’appoggio dello xxxx, trasferito
alla Scuola di Guerra di Civitavecchia e essendosi ripristinato il
rapporto di subordinazione gerarchica nei confronti del xxx,questi
avrebbe immotivatamente escluso il medesimo xx dall’invio in missione,
con evidente violazione – tra l’altro – delle disposizioni emanate al
riguardo dallo Stato Maggiore Esercito che imponevano la scelta del
personale in base all’idoneità fisica, all’irreprensibilità di
condotta, all’assenza di congedi di carattere sanitario e alla
turnazione

  Il xxxx, a tale proposito, riferisce di aver saputo dell’
invio in missione all’estero di personale privo di tali requisiti, da
lui – per contro – posseduti.

  In particolare, il ricorrente rimarca
in proposito il proprio possesso della qualifica anfibia (cfr. ibidem,
doc. 27) e dell’attestato di conoscenza della lingua inglese da lui
conseguito presso l'Università S. Pio V di Roma (cfr. ibidem, doc.
28).

  Il ricorrente afferma di aver provato grande esasperazione ed
umiliazione per tale ulteriore atto di mortificazione professionale, e
di aver pertanto chiesto di mettersi a rapporto dal Comandante di
Brigata, per motivi di servizio, denunciando in tal modo tutti soprusi
perpetrati a suo carico.

  Il Generale, peraltro, avrebbe ricusato di
riceverlo, essendo stato presumibilmente informato in via preventiva
delle sue intenzioni.

  Il ricorrente afferma, allora, di aver
convertito la propria originaria richiesta in rapporto per motivi
personali, di per sé non ricusabile (cfr. ibidem, doc. 30) e che,
peraltro, il Col. xxx lo avrebbe convocato innanzi ad una commissione
di tre membri, davanti alla quale lo avrebbe costretto a confermare per
tre volte la natura personale del rapporto richiesto.

  Il xxxxxx
afferma che tale azione intimidatoria avrebbe sortito il suo effetto,
poiché egli sarebbe stato in questo modo costretto a rinunciare al
rapporto mediante dichiarazione consegnata al Capitano xxx, suo diretto
superiore (cfr. ibidem, doc. 31).

  Il xxx riferisce che il Generale
avrebbe ignorato tale rinuncia, dando comunque corso al rapporto.

 
Trovatosi – dunque - qualche giorno dopo davanti al Comandante di
Brigata, il xxxx, temendo le ritorsioni del xxx e del xxxxxx, avrebbe
deciso di tacere.

  Rimproverato dal suo interlocutore, il medesimo
xxxx rispondeva di aver presentato formale e tempestiva rinuncia al
rapporto; il Comandante di Brigata, presumibilmente arguendo la
responsabilità di xxxxxxx, avrebbe peraltro poi assunto un tono più
temperante, cercando di rassicurare il medesimo xxxxxxx in merito ai
comportamenti del xxxxx e del xxxxxx, a lui noti in ragione della
pregressa diffida legale, in ordine alla quale esprimeva un giudizio di
inopportunità.

  Durante l’assenza del xxxx e del xxxx, inviati nel
Kossovo, il xxxxx venne valutato dal sostituto del primo, Ten. Col.
xxxxxxx, come “un sottufficia1e supportato da un alta motivazione al
lavoro ... sul quale fare sicuro affidamento” (cfr. ibidem, doc 32).

  Peraltro, dopo il rientro dal Kossovo, ossia in data 20 maggio 2003
il Col. xxxxxxx ha comunicato al xxxxx la sua collocazione in mobilità,
per il trasferimento ad altro reparto (cfr. ibidem, doc.33).

  Il
ricorrente evidenzia che nessuna motivazione, ovvero una sia pur minima
indicazione di una qualche ragione organizzativa o tecnica è stata
fornita a supporto di tale decisione, in spregio alle più elementari
regole che connaturano una modifica così rilevante del rapporto di
servizio, comportante la fuoriuscita dal Reggimento e, quindi, dalla
stessa specialità propria di “Lagunare”, nonché il rischio dello
sradicamento dell’intero suo nucleo familiare dal proprio contesto
sociale.

  Il ricorrente afferma che, se in effetti tale provvedimento
avesse avuto finalità riorganizzativa, avrebbe dovuto riguardare, prima
di lui, altri colleghi meno qualificati, ed afferma che – secondo gli
stessi criteri enunciati dal Col. xxxxxxx – il trasferimento non
avrebbe potuto riguardare i militari che, come lui, erano comunque in
possesso della qualifica anfibia.

  Il ricorrente reputa che il
proprio trasferimento sarebbe stato disposto a scopo chiaramente
punitivo, quale rimedio estremo e definitivo per stroncare il personale
scomodo, e che, quale preannuncio dell’imminente suo abbandono dei
Lagunari, sarebbe stato adottato il provvedimento assunto in data 4
giugno 2003 dallo stesso Col. xxxxxxx, con il quale è stato disposto il
suo trasferimento  presso l’Ufficio Logistico (Casermaggio), vera e
propria destinazione di transito destinata agli elementi destinati al
mutamento di specialità (cfr. ibidem, doc. 34).

  Il xxxxxxi sarebbe,
quindi, ivi rimasto per due settimane senza ordini né istruzioni,
costretto all’inerzia.

  Il trauma subito lo avrebbe indotto a
consultare un medico civile specialista, il quale ne ha certificato la
sottoposizione ad una “sintomatologia ansiosa di tipo reattivo con
alterazioni episodi del tono dell'umore, associata a sintomatologia
neurovegetativa caratterizzata da disturbi gastrointestinali, nausea
tachicardia e notevole alterazione del ritmo sonno-veglia” (cfr.
ibidem, doc.35).

  In data 12 giugno 2003 il ricorrente, prostrato e
psicologicamente esaurito, ha chiesto l’assistenza del medico addetto
al servizio interno della Caserma.

  Mentre questi si è riservato di
far svolgere esami specialistici, il Col. xxx avrebbe disposto la
convocazione del xxxxxx presso l’Ospedale Militare ad una Commissione
costituita da altri tre militari e innanzi alla quale un caporale, ivi
convocato, lo ha accusato di aver sottratto dall’infermeria
documentazione che lo riguardava.

  Il xxxx avrebbe respinto l’
addebito, nonostante le minacce rivoltegli dal xxxx.

  All’Ospedale
Militare, presso la Commissione Medico Ospedaliera, il xxxx è stato
visitato da uno specialista che lo ha giudicato non idoneo
temporaneamente al servizio per giorni trenta e diagnosticando nei suoi
confronti, come il medico civile al quale il medesimo ricorrente si era
rivolto, una sindrome ansioso - reattiva - depressiva (cfr. ibidem,
doc. 36).

  Al xxxxx è stata, quindi, assegnato un periodo di
convalescenza di 30 giorni, durante il quale egli ha chiesto e ottenuto
il rilascio di copia delle relazioni del Comandante xxxx e del medico
della Caserma. Ottenuti i documenti richiesti, nella relazione dd. 18
giugno 2003 del Comandante xxxxxxx, indirizzata all'Ospedale (cfr.
ibidem, doc. 37), il medesimo xxx avrebbe letto con stupore la non
pertinente esposizione di una serie di fatti del tutto incoerenti con
la funzione dell’atto, il quale, ben lungi dal fornire dati utili a
delineare lo stato psichico del malato, oggetto di valutazione clinica,
conteneva espressioni denigratorie della sua persona e deformanti la
realtà di fatto.

  In relazione a ciò, quindi, il xxxxx ha presentato
una querela avanti la Procura Militare della Repubblica per il tramite
della Stazione Carabinieri di Mestre in data 31 Dicembre 2003 (cfr.
ibidem, doc.38).

  In data 23 dicembre 2003 il xxxxx è stato visitato
dal dottor xxxxxx, specialista in neurologia e psichiatria, nonché
consulente medico -legale del Comune di Padova in materia di mobbing,
il quale nella propria consulenza medico legale (cfr. ibidem, doc.39)
ha affermato- tra l’altro -  "di aver raramente assistito alla
distruzione sistematica e scientifica della personalità di un individuo
colpito nel più profondo dei suoi ideali”  (cfr. ivi, pag. 6), reputa
espressamente l’ascrivibilità a mobbing di tutta una serie di condotte
tenute nei confronti del ricorrente ascrivibili a mobbing (cfr. ivi,
pag. 8) e conclude per la sussistenza, nella specie, di “una sindrome
ansiosa depressiva reattiva con manifestazioni psicosomatiche a livello
personale e con espressioni fobico ossessive a livello sociale”.

  Nel
frattempo, il COMFOTER – Comando Italiano Forze Operative Terrestri, ha
comunicato al xxxx che la mobilità disposta nei suoi confronti era
stata prevista a livello superiore, ossia per qualsiasi sede in Italia
(cfr. doc. 40 di parte ricorrente).

  Il xxxxx riferisce, da ultimo,
di aver forzatamente accettato in data 5 gennaio 2005 la proposta di
reimpiego formulatagli dallo Stato Maggiore Esercito, e che pertanto
dal 2 febbraio 2004 egli presta servizio presso il Comando
Infrastrutture Nord, avente sede in Padova.

  1.2. Tutto ciò premesso,
con il ricorso in epigrafe, dichiaratamente proposto “ex art. 68 D.L.vo
7 febbraio 1993 n. 29”,  il xxxxx chiede “il risarcimento del danno
professionale e biologico da demansionamento professionale e mobbing
subiti nell’ambito del rapporto di servizio … prestato presso il
Reggimento Lagunari “Serenissima””.

  Il ricorrente, dopo aver
evidenziato la sussistenza al riguardo della giurisdizione di questo
giudice, afferma che l’insieme dei surriferiti episodi, da lui ritenuti
imputabili all’Amministrazione della Difesa quale datrice di lavoro,
sarebbe riguardabile quale dequalificazione professionale, con
conseguente danno da mobbing da lui subito.

  Egli reputa che tale
danno debba essere liquidato in via equitativa, a’ sensi degli artt.
1226 e 2056 c.c., rapportandone l’ammontare alla durata della condotta
pregiudizievole e ad una percentuale della retribuzione da lui
percepita.

  Sempre in tal senso, il xxxxx afferma pure di aver subito
un evidente calo nel senso di autostima, come ben emergerebbe anche
dalla predetta perizia stilata dal Prof. xxxxxx e che ciò dovrebbe
intendersi, soprattutto, come insicurezza sul proprio futuro
professionale, posto che nei suoi comportamenti emergerebbe un’ormai
costante fobia ossessiva che ridonderebbe anche nelle incertezze sulle
sue capacità professionali (cfr. ibidem, perizia xxxxxxxxxxxxx, doc.
39, pag. 10).

  Secondo la prospettazione della difesa del xxxx,
sussisterebbero nella specie – quindi – vere e proprie lesioni
esistenziali, che sommandosi alla base patrimoniale del mobbing dianzi
descritta, darebbero origine alla c.d. L.A.M. (lesione accertata da
mobbing) da risarcirsi sulla base di apposite tabelle predisposte dal
Prof. Harald Ege (cfr. ibidem, doc. 46), noto esperto della materia ed
asseritamente già applicate dai giudicanti in procedimenti analoghi.

 
Sempre secondo il xxxxx, ove si volesse negare nella specie la
sussistenza della lesione da mobbing, dovrebbe comunque ravvisarsi, da
parte di questo stesso giudice, la sussistenza di un danno da
dequalificazione o demansionamento, posto che il ricorrente medesimo,
dapprima valutato come “eccellente”, è stato poi ingiustamente oberato
di lavoro (asseritamente, poi, svolto al suo posto da più unità di
personale), privato di qualsiasi assegnazione coerente alla propria
professionalità e, da ultimo, immotivatamente trasferito ad altra
destinazione e con altri compiti, con totale dispersione del patrimonio
professionale costruito nel corso degli anni.

  In tal senso, la
difesa del ricorrente richiama la giurisprudenza secondo la quale la
lesione del diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della
propria prestazione comporta l’obbligo del risarcimento del danno da
qualificazione professionale: danno che potrebbe - sempre ad avviso
della medesima difesa - consistere non soltanto nel pregiudizio subito
per effetto dell’impoverimento della capacità professionale acquisita,
ovvero nel pregiudizio subito per la perdita di chance (ossia di
ulteriori possibilità di guadagno), ma anche nella lesione al diritto
alla propria integrità psicofisica, o all'immagine, o alla vita di
relazione (cfr, ex multis, Cass. Sez. Lav. 22 febbraio 2003 n. 2763;
nonché 14 Novembre 2001 n. 14199).

  Per quanto segnatamente attiene
alla quantificazione dei danni subiti, la difesa del xxxx espone le
proprie richieste con riferimento alla tabelle di percentuali di
invalidità INAIL di cui al D.L.vo 23 febbraio 2000 n. 38 e al D.M. 12
Luglio 2000, ossia: danno biologico parziale al 50% da giugno 2002 a
giugno 2003; danno biologico parziale al 90% da giugno 2003 a tutt’
oggi; danno patrimoniale da mobbing, con riferimento alla circolare
INAIL n.71 /2003 (cfr. ibidem, doc. 42); danno esistenziale da mobbing
determinato applicando le tabelle EGE (cfr. ibidem, doc. 46).

  Per
quanto attiene all’asserito danno da dequalificazione, la difesa del
ricorrente produce copia dello statino paga del marzo 2004 (cfr.
ibidem, doc. 43-bis) nonché quello del maggio 2003, (cfr. ibidem, doc
43), con la precisazione che, non avendo l’interessato da tale data
percepito gli assegni familiari, gli stessi dovrebbero essere
conteggiati con riferimento a quest’ultimo statino.

  Sempre al fine
della liquidazione del danno da dequalificazione, la difesa del
ricorrente ha pure prodotto agli atti di causa copia della normativa
individuante le indennità da corrispondere al personale inviato in
missione all’estero (cfr. ibidem, doc.44), nonché della normativa sull’
indennità di impiego addestrativo (cfr. ibidem, doc. 45).

  Sempre
secondo la difesa del ricorrente, il danno economico, anche da
intendersi come perdita di chance derivante dalla perdita delle
indennità di addestramento (almeno 30 gg. annui) e di missione all’
estero (ad anni alterni, per almeno i prossimi 10 anni), si
identificherebbe con la somma risultante dal seguente conteggio:
indennità di addestramento = lunedì - venerdì € 66,00 x 20 gg +sabato e
domenica € 131 x 8 gg. = € 1.320,00 + € 1.048,00 = € 2.368,00 x 10 anni
di servizio residui = € 23.680,00; indennità missione estera indicativa
( Irak) = € 155 al giorno x 120 giorni di missione all’anno x 5
missioni da svolgere = € 93.000,00 oltre ad € 116,34 x 120 gg. di
mancata missione in Kosovo (vedi narrativa) = € 13.960,00.

  In via
istruttoria, la difesa del ricorrente formula la richiesta di
ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio medico-legale, volta a
determinare - ove contestate - la patologia dalla quale il ricorrente
medesimo è afflitto, nonché la sua riconducibilità causale ai
comportamenti tenuti dalle parti convenute agli effetti del danno da
mobbing, nonché il quantum debeatur.

  2. Si è costituito il Ministero
della Difesa, concludendo per la reiezione del ricorso.

  3. Si è pure
costituito in giudizio il Colonnello xxxxx xxxx, eccependo in via
preliminare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e
replicando, comunque, nel merito alle censure avversarie.

  4. Alla
pubblica udienza del 15 marzo 2007 la causa è stata trattenuta per la
decisione.

  5.1. Tutto ciò premesso, il Collegio, avuto riguardo alla
complessiva vicenda sin qui descritta, non può che dichiarare l’
inammissibilità del ricorso.

  5.2. Il Collegio, a tale proposito,
evidenzia che un’ormai consolidata giurisprudenza ha puntualmente
individuato gli elementi richiesti agli effetti della configurabilità
del c.d. mobbing a carico di un dipendente.

  In tal senso, quindi, è
assodato che il cosiddetto mobbing consiste  in una condotta del datore
di lavoro sistematica e protrattasi nel tempo, con le caratteristiche
della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore e che
concreti, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’
integrità fisica e alla personalità morale del prestatore di lavoro
(cfr., ex multis, Cass. Sez. Lav., 6 marzo 2006 n. 4774).

  Il mobbing
può essere pure efficacemente descritto quale condotta del datore di
lavoro sistematica nel tempo e diretta all’emarginazione del
lavoratore, e che si qualifica per il nesso che lega i diversi atti e
comportamenti del primo in un disegno unitario finalizzato a tale
scopo. La sua sussistenza deve essere - quindi - desunta da un’analisi
complessiva del quadro in cui si esplica la prestazione del lavoratore,
attraverso indici presuntivi quali la reiterazione di richiami e
sanzioni disciplinari, ovvero la sottrazione di vantaggi
precedentemente acquisiti, che avvengano con carattere di ripetitività
(così T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 21 luglio 2006 n. 1844), oppure
– e ancora - quale situazione illecita di conflittualità sistematica,
persistente ed in costante progresso all’interno del luogo di lavoro,
in cui gli attacchi reiterati e sistematici hanno lo scopo di
danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di
informazioni, la reputazione e la professionalità della vittima, sicché
quest'ultima può pretendere il risarcimento da parte dell'autore delle
condotte illecite del danno biologico, morale ed esistenziale; in altri
termini, deve trattarsi di diffusa ostilità proveniente dall'ambiente
di lavoro che si realizza in una pluralità di condotte, frutto di una
vera e propria strategia persecutoria, piuttosto che in un singolo
comportamento, sia pure reiterato (così T.A.R. Campania, Salerno, Sez.
I, 29 giugno 2006 n. 881).

  Ciò che, dunque, distingue il mobbing
dalle mere situazioni di conflittualità interpersonali che sovente
caratterizzano gli ambienti di lavoro (sia privati che pubblici) è la
sistematicità dei comportamenti vessatori e il reiterarsi nel tempo,
nonché l’unitaria e intenzionale finalizzazione di tali comportamenti
allo svilimento della professionalità del lavoratore e alla
mortificazione della sua dignità (cfr., puntualmente, Tribunale Milano,
4 gennaio 2006); ossia, detto altrimenti, la fattispecie del mobbing
presuppone, nell'accezione che va consolidandosi (pur con varietà di
accentuazioni) in dottrina e giurisprudenza, una durevole serie di
reiterati comportamenti vessatori e persecutori, tali da creare una
situazione di sofferenza nel dipendente: sofferenza che si concreta in
un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore e, in
particolare, sulla sua sfera mentale, relazionale e psicosomatica.

 
Pertanto, concreta il mobbing una serie prolungata di atti volti ad
“accerchiare” la vittima, a porla in posizione di debolezza, sulla base
di un intento persecutorio sistematicamente perseguito (cfr. T.A.R.
Lazio, Roma, Sez. III, 25 giugno 2004 n. 6254).

  Autore del mobbing
(o più soggetti in concorso fra loro) può essere chiunque (sia esso
solo un opportunista, o autoritario di carattere, sia esso, ben oltre
le prime apparenze, anche un malvagio e perverso) che, servendosi di un
potere - vantato o reale - invade sistematicamente e consapevolmente la
sfera privata della vittima, con azioni che possono dirigersi contro la
persona del soggetto da colpire, contro la sua funzione lavorativa,
contro il suo ruolo e contro lo status della vittima: “il tutto
finalizzato ad un progressivo isolamento fisico, morale e psicologico
dall'ambiente di lavoro, sì da lasciare la vittima nella convinzione
che è solo colpa sua se non vale nulla, per cui è meglio che se ne
vada” (così T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 6 giugno 2006 n. 4340).

  Né
va sottaciuto che le controversie dirette ad accertare fattispecie di
mobbing comportano per loro stessa natura una penetrazione psicologica
dei comportamenti, al di là di atti che possono presentarsi anche come
legittimi e inoffensivi, in modo da indagarne il carattere
eventualmente vessatorio, ossia dolosamente diretto a svilire, nuocere
o ledere la dignità personale e professionale di un dipendente; in tal
senso, quindi, la coscienza e volontà del mobber si pone rispetto al
fatto non solo come elemento essenziale e costitutivo dell'illecito, ma
come elemento idoneo persino a darvi significato: in altri termini,
senza il dolo specifico del mobber medesimo gli atti potrebbero tutti
apparire legittimi e leciti (cfr. Tribunale Trieste, 10 dicembre 2003).

  L’ illecito da mobbing rappresenta, innanzitutto, una violazione
dell’obbligo di sicurezza posto dall’art. 2087 c.c. a carico del datore
di lavoro, e si può realizzare con comportamenti materiali o
provvedimenti del datore di lavoro anche indipendentemente dall’
inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla
disciplina del rapporto di lavoro subordinato (Cass. Sez. Lav. n. 4774
del 2006 cit.), fermo restando che nell’ipotesi in cui la tutela
invocata attenga a diritti soggettivi derivanti direttamente dal
medesimo rapporto di lavoro, lesi da comportamenti che rappresentano
l'esercizio di tipici poteri datoriali, in violazione non solo del
principio di protezione delle condizioni di lavoro, ma anche della
tutela della professionalità prevista dall'art. 2103 cod. civ., la
fattispecie di responsabilità va ricondotta alla violazione degli
obblighi contrattuali stabiliti da tali norme, indipendentemente dalla
natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi
su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute di all’art. 32
Cost.) che trovano la loro tutela specifica nell'ambito dei rapporto
obbligatorio (cfr. sul punto Cass. SS.UU. 4 maggio 2004 n. 8438).

 
Detto altrimenti, la responsabilità da mobbing può dar luogo ad un
danno esistenziale o danno alla vita di relazione, di natura sia
contrattuale che extracontrattuale, che si realizza ogniqualvolta il
lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità senza che tale
aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria
(Tribunale Como, 22 maggio 2001); e se, dunque, la responsabilità del
datore di lavoro assume, al riguardo, connotazione sia contrattuale a’
sensi dell’art. 2087 c.c., sia extracontrattuale a’ sensi dell’art.
2043 c.c., il regime di ripartizione dell'onere della prova è quello
più favorevole al dipendente e, pertanto, quello contrattuale;
conseguentemente spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in
essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psico-fisica
del dipendente, mentre spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza del
nesso causale tra l'evento lesivo e il comportamento del datore di
lavoro (così Tribunale Forlì, 15 marzo 2001; in termini del tutto
consonanti, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 22 giugno 2004 n. 6254
afferma che in tema di mobbing è ammissibile il concorso tra la
responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. e la responsabilità
specifica ex art. 2087 c.c. - nella parte cui obbliga il datore di
lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la personalità
morale dei prestatori di lavoro - anche alla luce dell’obbligo di
eseguire il contratto secondo buona fede, e che nell’ipotesi in cui il
ricorrente faccia valere un’ipotesi di responsabilità al tempo stesso
contrattuale ed extracontrattuale della P.A. resistente trova in ogni
caso applicazione la disciplina dell’onere probatorio più favorevole al
ricorrente, ossia quello contrattuale, con la conseguenza che spetta al
datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure
necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica del dipendente).

 
5.3. Sussiste, viceversa, per quanto segnatamente attiene al pubblico
impiego “non contrattualizzato” di cui all’art. 3 del D.L.vo 30 marzo
2001 n. 165 – tra il quale è, per l’appunto, compreso anche “il
personale militare e delle Forze di polizia di Stato,” - un’incertezza
della stessa giurisprudenza in ordine all’individuazione della
giurisdizione tenuta a pronunciarsi sulle fattispecie dianzi
descritte.

  La parte ricorrente, nell’atto introduttivo del presente
giudizio, al di là della formalmente errata intestazione dell’
impugnativa come ricorso proposto “ex art. 68 D.L.vo 7 febbraio 1993 n.
29”, ossia in forza di una disciplina espressamente abrogata per
effetto dell’art. 72, comma 1, lett. t) del predetto D.L.vo 165 del
2001 ed attualmente sostituita – per quanto qui segnatamente interessa
– dalla disciplina contenuta nell’art. art. 63, comma 4, di tale
medesimo D.L.vo, reputa la sussistenza della giurisdizione di questo
giudice avuto riguardo al precedente costituito dalla sentenza n. 2 dd.
8 gennaio 2004 resa da questa stessa Sezione, anche in conformità al
precedente costituito dalla decisione di Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre
2002 n. 5414.

  In effetti, la pronuncia del giudice di appello testè
citata e pedissequamente recepita nei suoi presupposti motivazionali
dal predetto precedente della Sezione afferma che sono attribuite alla
giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie di natura
risarcitoria relative al predetto personale pubblico “non
contrattualizzato” senza che sia dato distinguere tra responsabilità
contrattuale e responsabilità extracontrattuale della pubblica
amministrazione datrice di lavoro, non potendo ricondursi la
responsabilità medesima - sempre che sussista un collegamento non
occasionale tra comportamento illegittimo e rapporto di lavoro - alla
categoria delle questioni attinenti ai diritti patrimoniali
consequenziali.

  Entrambi i precedenti valorizzati dalla difesa del
ricorrente appartengono, peraltro, ad un indirizzo attualmente
minoritario della giurisprudenza.

  Secondo Cass. SS.UU. 4 maggio 2004
n. 3438, ad esempio, in tema di azione promossa da un dipendente nei
confronti del suo datore di lavoro pubblico per il risarcimento del
danno all’integrità psicofisica derivante da condotte antigiuridiche
configuranti fattispecie di mobbing, il riparto di giurisdizione
risulterebbe strettamente subordinato – a differenza di quanto
affermato innanzi - all’accertamento della natura giuridica dell’azione
di responsabilità in concreto proposta: “e ciò in quanto, se trattasi
di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - allorquando la
controversia abbia per oggetto una questione relativa ad un periodo del
rapporto di lavoro antecedente al 30 giungo 1998 - mentre, se trattasi
di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al giudice
ordinario”., con la precisazione che “al fine di tale accertamento,
deve ritenersi proposta l’azione di responsabilità extracontrattuale
tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato,
mentre si può ritenere proposta l'azione di responsabilità contrattuale
quando la domanda di risarcimento del danno sia espressamente fondata
sull’inosservanza, da parte del datore di lavoro, di una puntuale
obbligazione contrattuale” (cfr. ivi).

  Il problema, tuttavia, qui
assume – a ben vedere – una diversa connotazione sistematica, e va
riconnesso alla fondamentale distinzione tra “atti” e “comportamenti di
mero fatto” dell’Amministrazione intimata.

  Come si è visto innanzi,
i pregiudizi (oggettivamente sussistenti) che il xxxxx ha
complessivamente subito sono classificabili in due categorie, per così
dire “eziologiche”, ben distinte: ossia i danni che rinvengono dall’
adozione di provvedimenti amministrativi veri e propri, nel caso di
specie all’evidenza illegittimi, e che –in quanto tali – hanno leso
specifiche posizioni giuridiche del loro destinatario (ad esempio, i
denegati invii in missione in Kosovo ed in Irak; l’abbassamento delle
note caratteristiche; il trasferimento a Padova, la compilazione della
relazione indirizzata all’Ospedale Militare da parte del Comandante di
corpo recante la distorsione di determinati elementi di fatto della
vicenda complessivamente qui descritta) e i danni che rinvengono,
viceversa, da condotte altrettanto indiscutibilmente vessatorie tenute
da taluni superiori del ricorrente e che non hanno mai assunto la
formale configurazione di veri e propri “provvedimenti amministrativi”,
se non nell’alquanto lata fattispecie degli “ordini” oralmente (e,
giova ribadire, illegittimamente) impartiti dal superiore gerarchico
(ad esempio, le convocazioni intimidatorie del ricorrente da parte del
Comandante di corpo prima della presentazione del medesimo xxxx a
rapporto dal Generale comandante di brigata; la ritardata comunicazione
dell’avvenuta concessione del congedo per ferie; il diniego del
permesso di recarsi in banca per prelevare danaro).

  Orbene, tale
seconda tipologia di lesioni di per sé trae origine da fatti che,
seppur accaduti nel contesto dello svolgimento da parte del xxxx delle
proprie mansioni lavorative e formalmente ascrivibili a soggetti che
hanno agito nel medesimo contesto quali veri e propri “organi” dell’
Amministrazione militare, e che –come si è detto - non hanno comportato
nei confronti del medesimo ricorrente l’adozione di specifici
provvedimenti illegittimi, ma la ben più generica realizzazione di
comportamenti illeciti, in ordine ai quali – a rigore – dovrebbe
concludersi nel senso della sussistenza della giurisdizione del giudice
ordinario, avuto riguardo – per l’appunto - alla predetta, fondamentale
distinzione tra “atti” e “comportamenti” introdotta nell’ordinamento
per effetto della ben nota sentenza della Corte Costituzionale n. 204
dd. 6 luglio 2004.

  Allo stesso tempo, tuttavia, la disamina della
complessiva vicenda occorsa al xxxxx consente a questo giudice di
rilevare che gli elementi, per così dire “portanti” del mobbing da lui
oggettivamente subito si rinvengono proprio nei predetti provvedimenti
amministrativi illegittimi adottati nei suoi confronti (giova ribadirne
l’elencazione: denegati invii in missione in Kosovo ed in Irak;
abbassamento delle note caratteristiche; trasferimento a Padova,
compilazione della relazione indirizzata all’Ospedale Militare da parte
del Comandante di corpo) e che il medesimo ricorrente non ha, peraltro,
ritenuto di impugnare innanzi a questo stesso giudice al fine di
rimuoverne gli effetti e di conseguire, quindi, per effetto della
necessaria conformazione dell’azione amministrativa (anche degli stessi
suoi superiori gerarchici) al contenuto del giudicato di accoglimento,
quegli stessi “beni della vita” che gli erano stati illegittimamente
sottratti (ossia, nell’ordine, l’invio in missione all’estero, la
riformulazione delle proprie note caratteristiche e della relazione del
Comandante di corpo all’Ospedale militare, l’annullamento del
trasferimento a Padova), salva – altresì – la monetizzazione dell’
ulteriore pregiudizio da lui subito ed eventualmente non rimuovibile
per effetto delle sentenze di annullamento dei medesimi provvedimenti
illegittimi.

  E, sempre in tal senso, risulta altrettanto evidente
che proprio l’avvenuta documentazione della contemporanea sussistenza,
rispetto a tali provvedimenti illegittimi, di comportamenti illeciti
tenuti da taluni superiori nei riguardi dello stesso ricorrente, ben
avrebbe potuto essere invocata a conforto della necessità di
accompagnare le statuizioni giudiziali di annullamento anche da
statuizioni a contenuto risarcitorio per quegli ulteriori profili di
lesione non eliminabili per effetto della caducazione ope iudicis dei
provvedimenti medesimi.

  Del resto, allo stato attuale della
giurisprudenza assolutamente prevalente, la proposizione della domanda
di annullamento dell’atto reputato invalido costituisce, come è ben
noto, un presupposto indefettibilmente necessario per poter radicare
innanzi a questo stesso giudice l’ulteriore istanza risarcitoria del
danno (cfr. su tale specifico punto, ad es., Cons. Stato, A.P. 26 marzo
2003 n. 4): e nel caso di specie il xxxxxxx non avendo, per l’appunto,
presentato entro i termini decadenziali di cui all’art. 21, primo
comma, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 come modificato per effetto
dell’art. 1 della L. 21 luglio 2000 n. 205, la domanda di annullamento
dei provvedimenti di cui trattasi, non può – ora – chiedere i danni da
essi asseritamente discendenti.

  A ben vedere, infatti, la sua
inerzia al riguardo, proprio perché ha reso inoppugnabili i
provvedimenti in questione, va riguardata quale implicita acquiescenza
alle pur illegittime determinazioni assunte nei suoi confronti dall’
Amministrazione qui intimata; né va sottaciuto che nello specifico caso
del trasferimento a Padova tale acquiescenza è ricavabile non già in
via implicita, ma in via del tutto esplicita a fronte della circostanza
che lo stesso xxxxx afferma di aver sottoscritto in data 5 gennaio 2005
un assenso al proprio reimpiego. Sempre in tal senso, va pure rilevato
che, anche le stesse pronunce giudiziali citate dalla difesa del xxxxxx
a fondamento della sussistenza della giurisdizione di questo giudice in
ordine al mobbing da questi subito  - ossia la predetta sentenza n. 2
del 2004 resa da questa stessa Sezione e la decisione n. 5414 del 2002
resa dalla Sezione V del Consiglio di Stato – a loro volta ribadiscono
la necessità che la pretesa risarcitoria si fondi sul previo
annullamento dei provvedimenti lesivi e - allo stesso tempo –
costitutivi di danno.

  5.4. Il Collegio, peraltro, reputa doveroso in
tale contesto farsi carico anche di quell’indirizzo giurisprudenziale
che, muovendo dalle ben note ordinanze nn. 13659, 13660 e 13911 dd. 13
giugno 2006 rese dalle Sezione Unite della Corte di Cassazione, reputa
che, qualora si sia in presenza di atti riferibili oltre che ad una
pubblica amministrazione a soggetti ad essa equiparati ai fini della
tutela giudiziaria del destinatario del provvedimento e l’atto sia
capace di esplicare i propri effetti, la tutela giudiziaria dovrebbe
essere chiesta al giudice amministrativo, segnatamente non soltanto
nella forma demolitoria degli atti impugnati e - insieme o
successivamente - nella forma demolitoria e risarcitoria, ovvero anche
nella sola forma risarcitoria, senza dover osservare in tale ultima
evenienza il termine di decadenza di sessanta giorni proprio dell’
azione di annullamento e contemplato dall’art. 21, primo comma, della
L. 6 dicembre 1971 n. 1034 come modificato dall’art. 1 della L  21
luglio 2000 n. 205.

  Tale indirizzo non persuade il Collegio per una
serie di motivi, qui appresso illustrati.

  A seguito dell’entrata in
vigore delle riforme che hanno introdotto la regola della risarcibilità
della lesione arrecata all’interesse legittimo, sono state invero
sostenute opposte tesi – sia in dottrina che in giurisprudenza - sulla
possibilità per il soggetto leso dall’atto autoritativo di chiedere il
risarcimento del danno da questo conseguente, dopo la scadenza del
termine per la sua impugnazione.

  A ben vedere, tali opposte tesi si
sono formate, innanzitutto, per una diversa qualificazione della
posizione soggettiva posta a base della domanda risarcitoria, nonché
per una diversa ricostruzione dei principi che si sono progressivamente
affermati nell’ambito della giurisdizione amministrativa al fine di
garantire la più ampia tutela a beneficio dei soggetti destinatari di
atti autoritativi illegittimi.

  L’ammissibilità, in tal senso, di
una domanda processuale autonoma e svincolata dalla tempestiva
impugnazione dell’atto lesivo, a volte è stata quindi ammessa
ravvisando una posizione di diritto soggettivo al risarcimento del
danno, riconducibile alla disciplina sulla responsabilità
extracontrattuale, ovvero alla disciplina in tema di responsabilità
contrattuale.

  Secondo altre opinioni, l’ammissibilità di un tale
tipo di domanda è stata ammessa in base ad una peculiare ricostruzione
“dogmatica” della fattispecie nel contesto di una vera e propria nuova
teoria generale dell’illecito, in forza della quale l’atto lesivo, in
relazione ai propri effetti produttivi di danno, dovrebbe essere
considerato dal giudice amministrativo non in quanto tale, ma in quanto
vero e proprio elemento costitutivo dell’illecito medesimo.

  Ciò
premesso, ad avviso di questo giudice, nell’attuale quadro normativo –
anche, e soprattutto, di rilievo costituzionale – non possono
sussistere dubbi circa la natura della posizione di colui che chiede il
risarcimento del danno derivante dall’emanazione di un atto
amministrativo autoritativo, posto che questo seguita comunque ad
incidere su di una posizione di interesse legittimo, ancorché
normativamente definita – ora – come risarcibile (cfr. art. 7, terzo
comma, prima parte della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, così come
sostituito per effetto dell’art. 35 del D.L.vo 31 marzo 1998 n. 80 nel
testo a sua volta sostituito dall'art. 7, comma l, della L. 21 luglio
2000 n. 205: “Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della
sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative
all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali
consequenziali”).

  Invero, come hanno chiarito le sentenze della
Corte Costituzionale 6 luglio 2004 n. 204 e 11 maggio 2006 n. 191, la
L. 205 del 2000, nel novellare l’art. 35 del D.L.vo 80 del 1998, ha
attribuito all’esclusiva giurisdizione del giudice amministrativo la
cognizione delle domande risarcitorie fondate sulla lesione arrecata ad
una posizione soggettiva di interesse legittimo.

  Va, peraltro,
evidenziato che ciò non configura la sussistenza nel “sistema” di un
“diritto” tutelato dal codice civile al risarcimento del danno arrecato
all’interesse legittimo mediante un atto autoritativo, ma introduce nel
“sistema” medesimo una nuova connotazione di interesse legittimo,
tutelato quindi da una  legge “speciale” rispetto al codice civile, non
soltanto con l’annullamento dell’atto lesivo, ma anche con il
risarcimento del danno conseguentemente subito, semprechè - ovviamente
- risulti l’antigiuridicità del danno e la sua riferibilità ad un
comportamento dell’autore.

  Sempre in via, per così dire
“sistematica”, va pure evidenziato che, per quanto segnatamente attiene
alla ricostruzione della fattispecie e alla struttura dell’illecito
amministrativo derivante dalla lesione all’interesse legittimo, le
riforme introdotte con il D.L.vo 80 del 1998 e con la L. 205 del 2000
anche in connessione al precedente art. 13 della L. 19 febbraio 1992 n.
142 e alle altre fonti normative “derogatorie” rispetto all’allora
diritto “vivente” italiano (cfr. art. 11 della L.19 dicembre 1992 n.
489; art. 11 della L. 22 febbraio 1994 n. 146 e l’art. 30 del D.L.vo 17
marzo 1995 n. 157 nel suo testo originario, ossia antecedente alla
novella di coordinamento con il D.L.vo 80 del 1998 introdotta mediante
l’art. 17 del D.L.vo 25 febbraio 2000 n. 65) che avevano già ammesso la
tutela risarcitoria per gli interessi di rilievo comunitario, non hanno
previsto una nuova “materia” attribuita alla giurisdizione esclusiva,
ma hanno introdotto uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a
quello di annullamento risalente nel “sistema” alla storica L. 31 marzo
1889 n. 5992, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato.

  Infatti, le leggi che hanno ammesso la risarcibilità del danno
arrecato all’interesse legittimo (prima in tema di appalti assoggettati
alla disciplina comunitaria, poi in tutti i casi in cui sussiste la
giurisdizione amministrativa, ai sensi dell’anzidetto art. 35 del D.L.
vo 80 del 1998 come sostituito dall’art. 7 della 205 del 2000) hanno
consapevolmente valutato e innovato l’ordinamento della giustizia
amministrativa sul piano della giurisdizione e su quello sostanziale.

  Nel precedente quadro normativo, invero, si ammettevano al riguardo
la sussistenza della giurisdizione ordinaria e l’applicabilità dell’
art. 2043 c.c. soltanto qualora il provvedimento autoritativo,
annullato nella sede propria della giustizia amministrativa, avesse
inciso su una previa posizione legittimante di diritto e dunque di
‘interesse” c.d. “oppositivo”, con la conseguente nascita della regola
giurisprudenziale della pregiudizialità, in forza della quale potrebbe
essere proposta una domanda risarcitoria innanzi al giudice civile solo
nel caso di annullamento dell’atto da parte del giudice amministrativo.

  Per converso, e sempre nel precedente quadro normativo, era escluso
che l’art. 2043 c.c. o altra disposizione del Codice Civile
contemplasse la lesione arrecata all’interesse c.d. “pretensivo”, con
la conseguenza che era esclusa la risarcibilità del danno, anche nel
caso di annullamento del provvedimento impeditivo della venuta ad
esistenza del diritto.

  E’ bene rimarcare che tale sistema,
normativamente fondato – per quanto detto sopra - sulle stesse
disposizioni di legge che avevano correlato all’interesse legittimo la
sola tutela di annullamento precludendo expressis verbis al giudice
amministrativo la cognizione delle questioni patrimoniali
consequenziali all’annullamento, di per sé non contrastava con l’art.
28 Cost., in forza del quale la pretesa ad ottenere un risarcimento del
danno da parte dell’Amministrazione Pubblica è costituzionalmente
garantita solo allorquando essa debba solidalmente rispondere della
lesione di un diritto.

  Anche la Corte Costituzionale era – del
resto - pervenuta a tale conclusione, affermando a sua volta che l’
irrisarcibilità della lesione arrecata all’interesse legittimo
pretensivo, in quanto essenzialmente connessa alla disciplina
pubblicistica, non contrastava con i principi costituzionali, nel
mentre “il problema di ordine generale” comunque richiedeva “prudenti
soluzioni normative, non solo nella disciplina sostanziale, ma anche
nel regolamento delle competenze giurisdizionali” (cfr. Corte Cost., 25
marzo 1980. n. 35) con la possibilità di “una unificazione per evitare
una duplicità di giudizi con competenza ripartita” (cfr. Corte Cost.,
ord. 8 maggio 1998 n. 165).

  Come si è detto innanzi, la regola
pubblicistica dell’irrisarcibilità della lesione arrecata all’interesse
pretensivo è stata dapprima incisa dalla normativa sugli appalti di
rilievo comunitario.

  Superando settorialmente lo storico
significato del concetto di responsabilità (esteso in tal modo anche
all’illegittimo esercizio della funzione, in quanto lesivo della
pretesa alla stipula di un contratto ancorché in assenza di un diritto
alla stipula medesima), il legislatore aveva infatti ammesso la
proponibilità dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile,
subordinandola comunque al previo annullamento dell’atto lesivo da
parte del giudice dell’interesse legittimo (cfr. in tal senso i
predetti art. 13 della L.142 del 1992, art. 11 della L. 489 del 1992,
art. 11 della L.146 del 1994 e art. 30 del D.L.vo 157 del 1995nel suo
testo originario).

  Di tali articoli di legge – giova ribadire,
espressamente fondati sul principio della pregiudizialità dell’
annullamento dell’atto lesivo rispetto al susseguente giudizio di
danno  – non è mai stata ipotizzata alcuna incostituzionalità, posto
che essi hanno aggiunto la tutela ulteriore del risarcimento del danno
per i casi in cui la tutela d’annullamento non avesse dato un effettivo
soddisfacimento alla posizione lesa dall’atto illegittimo (ad esempio,
perché nel corso del processo amministrativo, conclusosi con l’
annullamento dell’aggiudicazione o di una esclusione dalla gara, vi era
già stata l’esecuzione del conseguente contratto).

  L’art. 35 del D.L.
vo 80 del 1998, nell’abrogare tali disposizioni di legge e fondando un
nuovo sistema di responsabilità per l’illegittimo esercizio del potere
pubblico, ha poi attribuito alla giurisdizione amministrativa
esclusiva, nelle tre materie di cui agli articoli 33 e 34, anche ogni
altra controversia riguardante “il risarcimento del danno ingiusto”,
arrecato all’interesse legittimo, sia esso di natura oppositiva o
pretensiva.

  Per le posizioni già in precedenza tutelate sul piano
risarcitorio (nei casi di preesistenza della posizione legittimante di
diritto ovvero degli appalti di rilievo comunitario), l’art. 35 del D.L.
vo 80 del 1998 (poi modificato, come si è detto innanzi, per effetto
dell’art. 7 della L.. 205 del 2000) ha fatto venire meno le regole
processuali (una di conio giurisprudenziale, l’altra espressamente
affermata dal legislatore) del duplice giudizio di cognizione presso
giurisdizioni diverse (di cui quella civile sussisteva solo se il
giudice amministrativo avesse annullato l’atto lesivo).

  Il medesimo
art. 35 ha - quindi - previsto che il giudice amministrativo conosca,
sotto ogni profilo e in base al principio di concentrazione
processuale, del provvedimento impugnato e delle lesioni da questo
arrecate anche tramite la sua esecuzione, ma non introduce - si badi -
alcuna norma incidente sul consolidato principio per il quale l’oggetto
principale del giudizio è l’atto lesivo, né su quello per il quale l’
inoppugnabilità dell’atto preclude la verifica della antigiuridicità
del danno, in quanto cagionato secondum ius.

  Quanto agli interessi
pretensivi non aventi un rilievo comunitario, la riforma del 1998
(valutando anche le risorse della finanza pubblica complessivamente
disponibili) ha consapevolmente effettuato una scelta innovativa, sul
piano processuale e su quello sostanziale.

  Sul piano processuale, lo
ius novum ha infatti devoluto al giudice amministrativo la
giurisdizione sulla domanda risarcitoria (in applicazione dell’art.
103, primo comma, Cost.); sul piano sostanziale, la medesima riforma ha
completato il sistema di tutela risalente alla predetta L. 5992 del
1889 e ancora ribadito con la L.. 1034 del 1971 (per il quale, di
regola, il ricorrente otteneva una adeguata tutela con la rimozione del
provvedimento lesivo ed il conseguente obbligo di conformazione dell’
azione amministrativa al dictum del giudice), ammettendo quindi che il
giudice amministrativo possa sindacare il provvedimento impugnato -
impeditivo della nascita del diritto - anche in relazione alla domanda
risarcitoria.

  La L. 205 del 2000, nel novellare l’art. 35 del D.L.
vo 80 del 1998, sul piano della giurisdizione e su quello sostanziale
ha pertanto esteso il potere del giudice amministrativo di disporre “l’
eventuale risarcimento del danno … nell’ambito della sua
giurisdizione”, generalizzando in tal modo il principio in forza del
quale l’interesse legittimo è tutelato in sede giurisdizionale non solo
con l’annullamento, ma anche con lo “strumento di tutela ulteriore” del
risarcimento (cfr., su tale specifico profilo, le sentenze della Corte
Costituzionali n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, dianzi citate).

 
Deve dunque concludersi nel senso che l’attuale ordinamento consente,
al giudice amministrativo (nell’ambito della “sua giurisdizione”, ai
sensi dell’art. 7 della legge n. 205 del 2000, e dei suoi poteri,
attinenti ai limiti interni della giurisdizione: Corte Cost., sent. 12
marzo 2007, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 14 marzo 2007) di
verificare se l’accoglimento della domanda principale di annullamento
dell’atto impugnato – in sede giurisdizionale o straordinaria -
comporti una tutela pienamente soddisfacente e se – conseguentemente –
sussistano, o meno, i presupposti per disporre, anche in alternativa,
la condanna ad un risarcimento, qualora il ricorrente non possa
conseguire dall’annullamento nonché dalle connesse statuizioni
coercibili col giudizio di ottemperanza di cui all’art. 37 della L.
1034 del 1971 e agli artt. 90 e 91 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642, una
piena tutela (in ragione della irreversibile esecuzione dell’atto),
ovvero un’effettiva utilità (per un ostacolo derivante dal diritto
pubblico, quale l’impossibilità giuridica di emanare un ulteriore
provvedimento, emendato dal vizio già riscontrato, o la consolidazione
della posizione di un terzo).

  In considerazione della scelta del
legislatore di disporre un organico sistema, nel quale la tutela
risarcitoria costituisce un rimedio di tutela ulteriore per chi abbia
tempestivamente e fondatamente impugnato l’atto lesivo, avvalendosi di
uno dei due rimedi previsti dall’ordinamento, e cioè del ricorso
giurisdizionale o di quello straordinario, non può – dunque - che
ribadirsi, anche sulla scorta di quanto già puntualmente affermato da
Cons. Stato, A.P., 26 marzo 2003 n. 4, che il soggetto leso da un
provvedimento autoritativo può ottenere il risarcimento del danno solo
ove lo abbia fondatamente impugnato nel prescritto termine di
decadenza, posto che la mancanza di impugnazione rende inoppugnabile il
provvedimento e comporta che la lesione vada considerata secundum ius,
nel senso che il danno patrimoniale si fonda su un titolo giuridico che
è divenuto insindacabile in ogni sede giurisdizionale (cfr.,
puntualmente, Cons. Stato, A.P.. ord. 30 marzo 2000 n. 1, nonché Sez.
VI, 14 marzo 2005 n. 1047 e Sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338).

  Né
va sottaciuto che a conforto di tale tesi rileva pure il necessario
accertamento giudiziale – effettuato, come è ben noto, anche d’ufficio
dal giudicante – in ordine alla ritualità del ricorso, poiché ove esso 
risulti irricevibile o inammissibile o infondato, non potrebbe da parte
del giudice amministrativo ravvisarsi d’ufficio l’illegittimità dell’
atto al fine di una statuizione di condanna al risarcimento.

  Va –
altresì - escluso che, in assenza della tempestiva impugnazione dell’
atto lesivo, si possa chiedere al giudice amministrativo il
risarcimento del danno previa disapplicazione dell’atto medesimo a’
sensi degli artt. 4 e 5 della L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E nel
presupposto della sussistenza, nella specie, di una giurisdizione
esclusiva con la conseguente esercitabilità, al riguardo, dei medesimi
poteri propri del giudice ordinario.

  A tale proposito va infatti
evidenziato che, dai lavori preparatori del D.L.vo. 80 del 1998 e della
L. 205 del 2000 non emerge alcuna volontà del legislatore di introdurre
deroghe alla regola dell’onere di impugnare tempestivamente l’atto
lesivo, ovvero di consentirne una sostanziale disapplicazione; né
emerge una volontà del legislatore medesimo di incidere sulla posizione
di un eventuale controinteressato consolidatasi con l’inoppugnabilità
dell’atto lesivo e  che - ove si affermasse la proponibilità della cd
domanda “autonoma” rispetto a quella di annullamento già divenuta
irricevibile - risulterebbe esposta all’esercizio di un potere di
autotutela finalizzato al contenimento del danno risarcibile, e non già
al perseguimento di un interesse pubblico e attuale.

  Nè va
sottaciuto che con la soluzione riaffermata dal Collegio non vulnera il
principio di effettività della tutela, poiché la legge ben può
sottoporre a termini di decadenza l’esercizio di azioni risarcitorie
(come emerge, del resto, anche nel diritto civile, in cui - per in
materia di comunione, di condominio e di quella società - sono
contemplati termini di decadenza per impugnare atti di natura
negoziale, il cui annullamento soltanto può giustificare una pretesa
risarcitoria: cfr., ad es., artt. 1107, 1109 e 1137  c.c.,
rispettivamente riguardanti l’impugnazione del regolamento di
comunione, delle deliberazioni assembleari dei partecipanti alla
comunione e delle deliberazioni delle assemblee condominiali, nonché l’
art. 2377c.c., in materia di impugnazione delle deliberazione adottate
dalle assemblee dei soci di società per azioni, così come da ultimo
sostituito per effetto dell’art. 5, lett. o), del D.L.vo 6 febbraio
2004 n. 37). 

  Va anche ribadito che il sistema di giustizia
amministrativa risultava di per sè già coerente rispetto agli artt. 24,
28, 100 e 113 Cost. anche quando la tutela avverso l’atto autoritativo
reputato lesivo consisteva nella possibilità di chiederne l’
annullamento con l’ulteriore possibilità di chiedere il risarcimento
del danno, arrecato alla posizione legittimante di diritto
eventualmente preesistente, limitata al caso in cui il giudice
amministrativo avesse impugnato l’atto lesivo medesimo; e che, a
maggior ragione, va escluso che nell’attuale quadro normativo la regola
della “pregiudizialità” – materialmente presupposta dal “sistema” sin
qui descritto - contrasti con i testè richiamati articoli della
Costituzione perché per le lesioni arrecate con l’atto autoritativo
alle posizioni legittimanti di diritto è stata introdotta - in coerenza
con le esigenze della più rapida definizione della lite - la
concentrazione della tutela innanzi al giudice amministrativo, nel
mentre per le lesioni arrecate agli interessi legittimi pretesivi, in
cui non sono ravvisabili previe posizioni legittimanti di diritto, le
riforme sopra richiamate hanno aggiunto al tradizionale rimedio dell’
annullamento dell’atto lesivo il rimedio del risarcimento del danno,
fermo peraltro restando – per tutto quanto detto innanzi - l’onere per
l’interessato di attivarsi per evitare l’inoppugnabilità dell’atto.

 
Concludendo sul punto, il Collegio rimarca che il principio secondo il
quale l’esercizio della pretesa risarcitoria fondata sull’affermata
lesione di un interesse legittimo deve intendersi impedito a chi ha
omesso di impugnare, nel termine decadenziale, il provvedimento
amministrativo asseritamente produttivo del danno del quale domanda il
ristoro, tutela sia la parte privata che in tal modo può sollecitamente
accedere al rimedio giudiziale al fine di ottenere nella maggior parte
dei casi il riconoscimento delle proprie ragioni in via diretta  e non
già per equivalente patrimoniale (comunque, in subordine,garantito),
sia la pubblica amministrazione che – a sua volta, e soprattutto in
dipendenza dei fini di interesse generale da essa perseguiti  –
necessita di certezza giuridica al fine di fondare la legittimità del
suo operato, e senza che quest’ultimo - quindi – possa formare oggetto
di contestazione entro i ben più lunghi termini di prescrizione
(esigenza, questa, addirittura essenziale per le pubbliche
amministrazioni che sono chiamate a svolgere funzioni che impongono
celerità decisionali e, soprattutto, duratura permanenza degli effetti
delle determinazioni assunte, proprio in quanto sottese agli interessi
primari che intuitivamente assistono  – tra l’altro –  le esigenze
della difesa nazionale e della tutela dell’ordine pubblico).

  Se,
come si è visto innanzi, lo stesso ordinamento giuridico sancisce l’
inoppugnabilità degli atti delle assemblee dei partecipanti alle
comunioni e ai condomini, oltrechè delle società per azioni, e ciò a
tutela degli interessi collettivi perseguiti da tali aggregati sociali
(dei quali, i prime due sono addirittura privi di personalità
giuridica), non si vede dunque il motivo per il quale l’ordinamento non
debba riconoscere una consimile tutela anche - e soprattutto - alle
persone giuridiche pubbliche, in quanto titolari di interessi di
indiscutibile maggior rilievo, ed in primis tra queste lo Stato.

 
Questa notazione di fondo pare al Collegio di solare evidenza, e sembra
sufficiente per evidenziare il ben grave errore di coerenza nell’
interpretazione del “sistema” nel quale sono purtroppo ricadute le
predette tre ordinanze nn. 13659, 13660 e 13911 dd. 13 giugno 2006 rese
dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

  5.5. Va in ogni caso
soggiunto che, ove pure si dovesse accedere - in esito ad una non
augurabile persistenza dei sopradescritti orientamenti delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione - ad una possibilità di liquidazione
del danno da interesse legittimo anche in mancanza di un’impugnazione
in termini dell’atto che lo ha prodotto, l’esito del giudizio non
potrebbe essere ragionevolmente favorevole per l’attuale ricorrente: e
ciò in relazione alla valutazione, forzatamente negativa nei riguardi
della posizione giuridica di tutti i ricorrenti in consimili ipotesi,
di un elemento di fondo che si preannuncerebbe - per l’appunto - come
costante in tutte le fattispecie omologhe alla presente.

  Se è vero –
infatti - che, a’ sensi dell’art. 2056 c.c., il risarcimento dovuto al
danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli
1223, 1226 e 1227 del medesimo codice e che il primo comma di quest’
ultimo articolo – recante la rubrica “concorso del fatto colposo del
creditore” - dispone, a sua volta, che “se il fatto colposo del
creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito
secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono
derivate”, risulterebbe ben evidente che – sotto questo specifico
profilo – proprio l’omessa impugnazione, da parte del xxxxx dei
predetti provvedimenti autoritativi (certamente illegittimi, ma dalla
cui rimozione ope iudicis sarebbe conseguito il pieno ripristino della
posizione giuridica lesa), ha per certo aggravato il danno, rendendolo
irreversibile.

  Né va sottaciuto che nella vicenda complessivamente
descritta il torto e la ragione reciprocamente si confondono, ma in
modo comunque negativo per la posizione dell’attuale ricorrente,
obliterando qualsivoglia presupposto per la liquidazione di un
risarcimento in suo favore.

  Infatti, se è ben vero che il xxxxxx
aveva diritto alla concessione del congedo parentale, risulta
altrettanto assodato che questi, anziché mettersi a rapporto dal
superiore, ha ottenuto il congedo medesimo con modalità alquanto
discutibili; e se è altrettanto vero che i superiori del xxxx, anziché
perseguire tali modalità mediante un dovuto procedimento disciplinare,
hanno a loro volta posto in essere condotte censurabili e per certo
oggettivamente riconducibili a mobbing in relazione a quanto rilevato
in via generale al § 5.2. della presente sentenza,  a sua volta lo
stesso xxxx non ha – per tutto quanto detto innanzi – agito per la
rimozione nella presente sede di giudizio dei provvedimenti illegittimi
adottati nei suoi confronti, ma si è limitato a far pervenire un’
inconcludente diffida a carico dei responsabili (i quali, a loro volta,
anche a prescindere della stessa intrinseca inconcludenza della diffida
ricevuta, non hanno desistito dal porre in essere ulteriori atti e
comportamenti contra ius nei riguardi del loro sottoposto: e tale
circostanza andrebbe, pertanto, opportunamente valutata dall’
Amministrazione intimata ai fini disciplinari) e cercando - in modo del
tutto incongruo, per quanto detto innanzi - di profittare sotto il
profilo meramente economico dell’acquiescenza da lui stesso prestata
nei riguardi dei provvedimenti medesimi.

  6. Le spese e gli onorari
del giudizio possono essere integralmente compensati tra le parti,
avuto riguardo all’oggettiva sussistenza del mobbing denunciato.

P.Q.
M.

  Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, prima
sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo
dichiara inammissibile.

  Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall’Autorità amministrativa.

  Così deciso in Venezia, nella Camera
di consiglio del 15 marzo 2007

  Il Presidente      l’Estensore


 
Il Segretario


SENTENZA DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il……………..…n.………

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Direttore della Prima Sezione

T.A.
R. Veneto – I Sezione                                                n.
r.g. xxxxx




 

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