Cass. civ. Sez. III, 20-10-2005, n. 20320 |
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VITTORIA Paolo - Presidente
Dott. PURCARO Italo - rel. Consigliere
Dott. FEDERICO Giovanni - Consigliere
Dott. SEGRETO Antonio - Consigliere
Dott. SPIRITO Angelo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
OSPEDALI
RIUNITI DI BERGAMO in persona del Direttore Generale, Dott. Antonio
Leoni, loro legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato
in ROMA PIAZZALE CLODIO 32, presso lo studio dell'avvocato CIABATTINI
Lidia che lo difende unitamente agli avvocati FRANCESCO REALMONTE, PAOLO
Tosi, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
(omissis) (omissis)
elettivamente domiciliati in ROMA VIA ORTI DELLA FARNESINA 126, presso
lo studio dell'avvocato STELLA RICHTER Giorgio che li difende unitamente
all'avvocato PILADE FRATTINI, giusta delega in atti;
- controricorrenti -
avverso
la sentenza n. 588/01 della Corte d'Appello di BRESCIA, sezione seconda
civile, emessa il 27/06/01, depositata il 20/07/01/ R.G. 147/96;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 27/09/05 dal Consigliere Dott. Italo PURCARO;
udito l'Avvocato Paolo TOSI; udito l'Avvocato Giorgio STELLA RICHTER;
udito
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA
Raffaele che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato in data 17 luglio 1989, (omissis) e (omissis)
convennero, davanti al tribunale di Bergamo, gli Ospedali Riuniti di
Bergamo, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, sulla base
delle seguenti circostanze.
L'istante (omissis)
si era sottoposta, durante la gravidanza, a due accertamenti ecografici
presso l'ambulatorio dell'ospedale, alla ventunesima ed alla trentesima
settimana di gestazione, senza che venisse rilevata alcuna anomalia;
invece, in data (omissis) era nato il piccolo (omissis)
affetto da amelia dell'arto inferiore sinistro, emimelia dell'arto
inferiore destro, labiopa-latoschlsi e malformazione alle mani. L'errore
del ginecologo, relativo all'interpretazione del quadro morfologico
ecografico, aveva loro precluso il diritto di esercitare l'interruzione
volontaria della gravidanza, nell'ipotesi prevista dall'art. 6 lett. b) L. n. 194/1978,
con gravissime conseguenze sia psicologiche che patrimoniali. In
particolare, gli attori dedussero un danno professionale alle rispettive
carriere, un irreparabile pregiudizio alla loro vita di relazione, un
aggravio di spese per il mantenimento del figlio, conseguente alla sua
condizione peculiare, oltre un fortissimo perturbamento, che precludeva
loro di generare altri figli.
L'ente
convenuto, costituitosi, eccepì che il presunto errore del medico non
comportava automaticamente il diritto all'interruzione della gravidanza e
che, comunque, il diritto competeva esclusivamente alla madre e non al
padre, al quale non poteva essere riconosciuto alcun tipo di
risarcimento.
Espletata l'istruttoria del
caso, il tribunale adito, con sentenza 1023/1995, ritenuto: - sulla
scorta delle consulenze tecniche disposte in causa, l'errore
dell'ecografista, che non si era avveduto delle malformazioni e,
conseguentemente, non aveva informato la (omissis)
della situazione; - che non era necessario accertare se dalla
informazione sulle reali condizioni del feto sarebbe derivato alla
gestante un grave perturbamento psichico, in quanto la mancata
informazione aveva precluso il diritto in astratto di interrompere la
gravidanza; - che anche lo (omissis) in
quanto padre, aveva subito un deterioramento della sua integrità
psicofisica, onde aveva anche egli diritto al risarcimento del danno;
riconobbe, a titolo di danno biologico, comprensivo del danno alla vita
di relazione, del pregiudizio arrecato alla carriera professionale dei
genitori, nonchè del danno alla sfera sessuale, la somma di lire
750.000.000 a ciascun genitore, oltre a 252.000.000 per spese future
necessarie per il piccolo (omissis) Avverso tale sentenza gli Ospedali Riuniti di Bergamo proposero appello.
La
corte di appello di Brescia, con sentenza depositata in data 20 luglio
2001, respinse il gravame, confermando integralmente la sentenza di
primo grado.
Per la cassazione della
suindicata sentenza gli Ospedali Riuniti di Bergamo hanno proposto
ricorso, sulla base tre motivi, cui hanno resistito con controricorso (omissis) e (omissis) Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione art. 2043, 1223, 2056 c.c.,
nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un
punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.). Assume
che, con riferimento alla lesione alla salute lamentata dallo (omissis)
la sentenza aveva riconosciuto la responsabilità dell'odierna
ricorrente utilizzando la categoria, di recente produzione
giurisprudenziale, dei cd. danni riflessi, richiamando ampi stralci
della sentenza n. 12195/98 di questa Corte. In questa ottica, quindi,
anche il marito, padre del nascituro, quale danneggiato di riflesso, il
cui equilibrio personale e familiare è stato indubbiamente leso, era
legittimato a richiedere il risarcimento del danno. Peraltro, così
ragionando la corte distrettuale non solo aveva apoditticamente
equiparato la posizione dei due coniugi, dimenticando che l'unico
interesse protetto dall'art. 6 della legge n. 194/1978 è la
salute della madre, ma non si era neppure preoccupata di verificare
quali fossero in concreto i danni eventualmente subiti dal marito
rifacendosi per la loro sussistenza a quanto riferito dalla stessa (omissis)
al c.t.u. e, per il loro ammontare, all'invocazione del solo principio
di equità, laddove proprio la giurisprudenza richiamata dalla corte
d'appello ritiene imprescindibile la rigorosa prova dell'esistenza dei
danni asseritamente subiti. In realtà, proprio nel caso di specie la
teoria dei cd. danni riflessi manifesta i suoi limiti risultando del
tutto inidonea a fondare il giudizio di responsabilità formulato dal
giudice di appello. Più precisamente, in tanto si potrebbe ritenere
responsabile della lesione patita dallo (omissis) il medico che aveva errato la diagnosi (e dunque gli Ospedali Riuniti ex art. 2049 c.c.),
in quanto tale evento potesse essergli addebitato a titolo di colpa,
stante la possibilità di prevedere che dall'errore diagnostico sarebbe
derivato al marito della (omissis) il danno alla salute di cui aveva chiesto il risarcimento. Il danno alla salute lamentato dallo (omissis)
infatti, non era configurabile come danno diretto o primario, ma
soltanto come conseguenza mediata della lesione di un diritto altrui,
per cui mettere in conto all'eventuale autore della lesione anche
l'ulteriore danno subito dallo (omissis)
significava adottare un'inammissibile valutazione allargata della colpa.
Tale operazione, oltre a porsi in netto contrasto con i principi del
nostro ordinamento, ma era stata ripetutamente stigmatizzata dalla
Consulta, la quale, nella sentenza 27.10.94, n. 372, aveva definito il
criterio della prevedibilità come la possibilità oggettiva per l'agente
di prefigurarsi l'evento dannoso nella sua totalità, e coerentemente
aveva escluso l'ipotesi in esame dall'ambito di tutela dell'art. 2043 c.c.
proprio sul presupposto della mancanza di tale requisito fondamentale
della colpa. Pertanto, pur ipotizzando che i danni lamentati dallo (omissis)
fossero casualmente riconducibili all'errore diagnostico del medico,
ciò nondimeno lo stesso non era legittimato ad agire nei confronti
dell'ospedale per il risarcimento dei suddetti danni in assenza di un
valido criterio di imputazione che permettesse appunto di fondare un
giudizio di responsabilità anche nei suoi confronti.
Il motivo va disatteso.
E'
indiscutibile che la sentenza impugnata, ai fini di pervenire alla
condanna al risarcimento dell'odierno ricorrente anche nei confronti del
padre del piccolo (omissis) si fonda,
principalmente, sulle affermazioni di principio contenute nella sentenza
di questa Corte n. 12195 del 1998, secondo cui: "Il danno va
considerato causato dall'illecito (ai sensi dell'art. 1223 cod. civ.)
quando, pur non essendo conseguenza diretta ed immediata di questo
ultimo, rientra pur sempre nel novero delle conseguenze normali ed
ordinarle del fatto. Ne consegue che, qualora l'imperizia del medico
impedisca alla donna di esercitare il proprio diritto all'aborto, e ciò
determini un danno alla salute della madre, è ipotizzabile che da tale
danno derivi un danno alla salute anche del marito", e ciò sotto il
profilo del danno riflesso, dei prossimi congiunti.
Peraltro,
se quanto precede è esatto, occorre porre in luce come la
giurisprudenza di questo Supremo Collegio, in subiecta materia, abbia
superato il precedente orientamento, affermando, in primo luogo, con la
sentenza n. 6735 del 10 maggio 2002, il principio secondo cui, in tema
di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del
feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che
costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del
ginecologo all'obbligazione di natura contrattuale gravante su di lui
spetta non solo alla madre, ma anche al padre, "atteso il complesso di
diritti e doveri che, secondo l'ordinamento, si incentrano sul fatto
della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo
alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all'interruzione della
gravidanza, atteso che, sottratta alla madre la possibilità di scegliere
a causa dell'inesatta prestazione del medico, agli effetti negativi del
comportamento di quest'ultimo non può ritenersi estraneo il padre, che
deve perciò ritenersi tra i soggetti protetti dal contratto col medico e
quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta
può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze
sul piano risarcitorio".
La successiva
sentenza di questa Corte n. 14488 del 29 luglio 2004, dopo avere
ribadito il principio che la responsabilità del ginecologo deriva
dall'inadempimento ad una obbligazione di natura contrattuale (rilevare
le condizioni del feto e formulare la corrispondente diagnosi,
impiegando in ciò la diligenza e perizia richieste), così prosegue:
"L'inadempimento espone il medico a responsabilità per i danni che ne
derivano ( art. 1218 cod. civ.)- Non sono danni che derivano
dall'inadempimento del medico quelli che il suo adempimento non avrebbe
evitato, e cioè: una nascita che la madre non avrebbe potuto scegliere
di rifiutare, una nascita che non avrebbe in concreto rifiutato; la
presenza nel figlio di menomazioni o malformazioni al cui consolidarsi
non avrebbe potuto porsi riparo durante la gravidanza in modo che il
figlio nascesse sano. La possibilità, per la madre, di esercitare il suo
diritto ad una procreazione cosciente e responsabile interrompendo la
gravidanza, assume dunque rilievo nella sede del giudizio sul nesso
causale. Non l'assume come criterio di selezione dei danni risarcibili,
non almeno come criterio di selezione tra tipi di danno. Perchè,
trattandosi di responsabilità contrattuale, ad essere risarcibili sono i
danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta
dell'inadempimento ( art. 1223 cod. civ.). Il tessuto dei
diritti e dei doveri che secondo l'ordinamento si sia incentrato sul
fatto della procreazione -quali si desumono dalla legge 194 del 1978,
sia dalla Costituzione e dal codice civile, quanto ai rapporti tra
coniugi ed agli obblighi dei genitori verso i figli ( artt. 29 e 30 Cost.; artt. 143 e 147, 261 e 279 cod. civ.)
- vale poi a spiegare perchè anche il padre rientri tra i soggetti
protetti dal contratto ed in confronto del quale la prestazione del
medico è dovuta. Ne deriva che l'inadempimento ai presenta tale anche
verso il padre ed espone il medico al risarcimento dei danni, immediati e
diretti, che pure al padre possono derivare dal suo comportamento. Nè
rileva che l'uomo possa essere coinvolto dalla donna nella decisione
circa l'interruzione della gravidanza, ma non chiederla. Ciò attiene al
nesso causale. La madre, pur informata, può scegliere di non
interrompere la gravidanza: l'ordinamento non consente al padre di
respingere da sè tale eventualità e nulla potrebbe imputarsi al medico.
Ma, sottratta alla donna la possibilità di scegliere, al che è ordinata
l'esatta prestazione del medico, gli effetti negativi di questo
comportamento si inseriscono in una relazione col medico cui non è
estraneo il padre, rispetto alla quale la prestazione inesatta o mancata
si qualifica come inadempimento e giustifica il diritto al risarcimento
dei danni che ne sono derivati. Certamente la decisione di interrompere
la gravidanza, dalla l. n. 194/1978, può essere presa solo
dalla donna, previo esame e riconoscimento delle sue condizioni di
salute (come sopra si è detto). Da ciò discende che il padre non ha
titolo per intervenire in siffatta decisione e la Corte Costituzionale
ha riaffermato la legittimità costituzionale di tale scelta legislativa
(ord. 31.3.1988, n. 389, ed in parte C.Cost.
5.5.1994,
n. 171). Sennonchè diversa questione è quella relativa al danno che il
padre del nascituro potrebbe subire, perchè altri hanno impedito alla
stessa di esercitare il diritto di interruzione della gravidanza, che
essa (e solo essa)legittimamente poteva esercitare.
Qui
non si fa questione di un diritto del padre del nascituro ad
interrompere la gravidanza della gestante, che certamente non esiste, ma
solo se la mancata interruzione della gravidanza, determinata
dall'inadempimento colpevole del sanitario, possa essere a sua volta
causa di danno per il padre del nascituro. La risposta al quesito, come
si è detto positiva, e, poichè si tratta di contratto di prestazione di
opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre
del concepito, che, per effetto dell'attività professionale
dell'ostetrico-ginecologo diventa o non diventa padre (o diventa padre
di un bambino anormale) il danno provocato da inadempimento del
sanitario, costituisce una conseguenza immediata e diretta anche nei
suoi confronti e, come tale è risarcibile a norma dell'art. 1223 c. il
Collegio condivide pienamente i menzionati principi di diritto, che
devono, pertanto, trovare ulteriore conferma nella fattispecie in esame,
per cui rettificata in tal senso sul punto la motivazione della
sentenza gravata, la censura proposta va disattesa.
Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli art. 2043, 2056, 1223 c.c. e 115 e. p. e, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia ( art. 360 c.p.c.
n. 3 e 5), deduce che la liquidazione del danno effettuata dalla corte
di appello a favore del padre risultava, comunque, in contrasto con
quanto disposto dalle menzionate norme di legge, essendo sprovvisto di
qualsiasi supporto probatorio, sia con riferimento alla stessa esistenza
del danno, sia per quanto riguarda l'eventuale riconducibilità dello
stesso alla nascita del figlio (omissis)
Al riguardo, il ricorrente pone in luce che la lesione di una situazione
giuridica soggettiva in tanto è in grado di fondare un obbligo
risarcitorio, in quanto sussista (e venga provata) la correlativa
perdita patita da chi pretende il risarcimento. Esplicitamente prevista dall'art. 1223 c.c.
con riferimento al danno patrimoniale, la norma regola anche il caso di
danno non patrimoniale, per cui, in una simile ipotesi, occorre
verificare se la lesione della situazione soggettiva si sia tradotta in
una diminuzione dei valori vitali per la vittima, il che era da
escludere nella specie, non esistendo un prova obbiettiva al riguardo.
In particolare, l'asserito danno alla carriera professionale dei coniugi
(omissis) non poteva certo dirsi provato
dalle lettere prodotte adverso o dalla memoria istruttoria 8 novembre
1990. Pertanto, le motivazioni della sentenza gravata risultavano in
contrasto con i più elementari principi, secondo i quali il ricorso al
criterio equitativo - pur giustificato dal fatto che si trattava di una
valutazione proiettata nel futuro - non permetteva comunque di
prescindere dalla precisa indicazione dei parametri utilizzati per la
sua concreta quantificazione. In definitiva, la sentenza impugnata era
affetta da insufficiente e contraddittoria motivazione.
Con il terzo motivo, il ricorrente denunziando violazione e falsa applicazione degli art. 2043, 2056 e 1223 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia ( art. 360 c.p.c.
n. 3 e 5), e cioè la quantificazione del danno, deduce che la sentenza
gravata era censurabile anche in punto di liquidazione del danno alla
salute, con riferimento ad entrambi i coniugi, quanto meno perchè non
sorretta da congrua motivazione. Innanzitutto risultava del tutto
inconferente il rilievo secondo cui la contestazione del quintini non
sarebbe ammissibile "dovendosi invece impugnare i singoli parametri di
liquidazione adottati", dal momento che nella sentenza di primo grado
non vi era alcuna indicazione dei parametri utilizzati per la
liquidazione e che, quindi, la loro specifica contestazione era
impossibile. Ne discendeva l'illogicità della valutazione e della
liquidazione equitativa del danno, operata, peraltro, con riferimento ad
entrambi i coniugi. La corte aveva, poi, cercato di giustificare
l'ingente somma liquidata rifacendo, a casi ritenuti analoghi (al "noto
caso di Treviso"), dei quali non esistevano riscontri attendibili.
Occorreva, al contrario, porre luce che, in un caso analogo al presente,
la Corte di legittimità, con la sentenza 6735/2002, aveva confermato la
liquidazione effettuata dai giudici d'appello in misura ampiamente
inferiore (meno della metà) a quella in questione, e cioè lire 700
milioni per risarcire entrambi i genitori, in conclusione la corte
distrettuale aveva confermato una quantificazione equitativa del danno
non solo contraddittoria ed in contrasto con dati oggettivi (come la
diversa situazione del padre e della madre), ma anche priva di una
adeguata motivazione capace di supportare le eclatanti conclusioni
raggiunte.
Entrambi i motivi, che essendo strettamente connessi vanno esaminati congiuntamente, sono infondati.
Unica
possibile forma di liquidazione di ogni danno privo, come il danno
biologico (ed il danno morale) delle caratteristiche della
patrimonialità, è quella equitativa, per cui la ragione del ricorso a
tale criterio è insita nella natura di tale danno e nella funzione del
risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che
non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di
un pregiudizio non economico. E', dunque, escluso che si possa far
carico al giudice di non aver indicato le ragioni per le quali il danno
non può essere provato nel suo preciso ammontare - costituente la
condizione per il ricorso alla valutazione equitativa di cui all'art. 1226 cod. civ.
-, giacchè in tanto una precisa quantificazione pecuniaria è possibile,
in quanto esistano dei parametri normativi fissi di commutazione, in
difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato
nel suo preciso ammontare, fermo restando il dovere del giudice di dar
conto delle circostanze di fatto da lui considerate nel compimento della
valu- tazione equitativa e dell'"iter" logico che lo ha condotto a quel
determinato risultato. Come ripetutamente affermato da questa Corte di
legittimità, il giudice di merito, nella necessità di rendere effettiva
la valuta-zione necessariamente equitativa del danno biologico, deve
considerare le circostanze del caso concreto, e specificamente, quali
elementi di riferimento permanenti, l'età, l'attività espletata, le
condizioni sociali e familiari del danneggiato, ecc..
Orbene,
nel caso di specie, la corte, dopo avere esattamente rilevato che la
lesione del "bene salute" costituisce di per sè danno risarcibile, ex art. 32 Costituzione,
in quanto menomazione psico- fisica della persona in sè e per sè
considerata, incidente sul valore umano in tutta la sua concreta
dimensione, a prescindere da ogni rilevanza di ordine patrimoniale, per
cui provata la lesione è provato il danno, la cui liquidazione non può
che essere squisitamente equitativa, così testualmente prosegue: "Il
Tribunale, pertanto, non ha svolto generiche considerazioni per riempire
un vuoto probatorio della parte, ma al contrario, ha attentamente
esaminato tutte le voci di danno, allegate e dimostrate dai coniugi (omissis)
così accertando la lesione in concreto del diritto alla salute e,
quindi, la realizzazione di un danno biologico nella sua più ampia
accezione. Dopo ciò il Tribunale è passato alla liquidazione del danno
già provato nella sua esistenza, come per la voce attinente la negativa
incidenza sulla rispettiva carriere professionali dei genitori, per la
quale gli appellati hanno offerto prove specifiche (cfr. doce. 25 e 27
attori in primo grado e memoria istruttoria 8.11.90) e non presuntive.
Così, esaminati tutti i profili di danno enunciati ed illustrati dagli
attori, il Tribunale, ha giustamente ritenuto ricorrere una tipica
ipotesi di liquidazione del danno in via equitativa, ai sensi dell'art.
1226 e. e, applicando il potere discrezionale di liquidare il danno, in
quanto ricorreva la condizione della impossibilità o estrema difficoltà
di provare l'ammontare preciso del danno. Sotto il secondo profilo, la
critica della liquidazione ritenuta eccessiva nel suo ammontare
complessivo, si osserva che nel caso di liquidazione equitativa, non è
ammissibile la mera contestazione del quantum liquidato, dovendosi
invece impugnare i singoli parametri di liquidazione adottati, vuoi
perchè contraddittori, o illogici o addirittura non esplicitati, mentre
nessuna di queste ipotesi ricorre nel caso di specie, ove i parametri
offerti dalla parte per la liquidazione e fatti propri dal giudice, non
sono oggetto di specifica impugnazione, e sono, intuitivamente,
strettamente afferenti alla situazione per cui è causa". Inoltre... "la
gravità del danno subito dai genitori del piccolo (omissis)
è veramente eccezionale per tutte le implicazioni quotidiane, e
destinate a protrarsi nel tempo, ben evidenziate nella motivazione dei
primi giudici, che questa Corte condivide integralmente. Basti pensare
al danno alla vita di relazione dei coniugi, ma anche al danno psichico
concretamente subito dalla signora (omissis) come esaustivamente descritto nella c.t.u.....ed al danno psichico subito dal sig. (omissis)
come riferito dal consulente di parte..., basti pensare ancora alla
rottura dell'equilibrio familiare, già evidenziata, all'impegno costante
per le cure che (omissis) richiede ed
alla sofferenza dei genitori rinnovata ogni giorno, con la
preoccupazione per il futuro del loro figliolo, allorchè non potranno
più accudirlo".
Alla stregua di quanto precede
appare evidente che l'entità della liquidazione operata dalla corte di
appello è stata effettuata avendo il giudice di appello, confermando
quanto già analiticamente evidenziato dal giudice di primo grado e non
contestato se non in termini assolutamente generici in sede di appello
dall'odierno ricorrente (che, tra l'altro, solo in questa sede e,
quindi, tardivamente, contesta la documentazione prodotta in prime cure
dagli odierni resistenti) con riferimento ad entrambi i coniugi
danneggiati -il che appare corretto, per effetto di quanto posto in luce
con riferimento al primo motivo -, pervenendo così ad una valutazione
d'insieme tutto altro che apodittica. In ordine alle doglianze relative
all'entità della somma liquidata, è appena il caso di sottolineare che
trattasi di censure attinenti ad un potere discrezionale che appartiene
al giudice di merito, insindacabile in questa sede di legittimità, se,
come nella specie, sorretto da adeguata motivazione.
In
conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna del soccombente al
pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, nella misura liquidata
nel dispositivo.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi euro
20.100, 00 di cui 100, 00 per spese e 20.000, 00 per onorari, oltre
spese generali ed accessori come per legge.
Così
deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione terza Civile
della Suprema Corte di Cassazione, il 27 settembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2005
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