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INFORTUNI SUL LAVORO - REATO IN GENERE
Cass. pen. Sez. IV, (ud. 10-12-2008) 28-01-2009, n. 4123 |
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con
la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Torino
confermava la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva
riconosciuto la penale responsabilità dell'ingegnere V. G. per il reato
di incendio colposo ex art. 449 c.p., comma 1, mentre assolveva B. e P. dallo stesso reato con la formula per non avere commesso il fatto.
Il
giorno (OMISSIS) nello stabilimento (OMISSIS) di (OMISSIS), si era
sviluppato un incendio di vaste proporzioni che aveva interessato la
zona laminatoio (OMISSIS), che era stato spento, a seguito
dell'intervento di 16 squadre dei vigili del fuoco, solo alle ore 8 del
(OMISSIS).
La predetta zona laminatoio, come
emerge dalla sentenza, era una zona ad alto rischio incendio, per la
presenza di olio da raffreddamento delle lavorazioni che, una volta
sporco, veniva convogliato in una grossa vasca in acciaio che fungeva da
polmone, e ripulito, passava in una seconda vasca, da cui veniva
rilanciato nella gabbia ove erano ubicati i rulli lubrificati, che
servivano a trasformare i nastri di acciaio arrotolati in lamine.
L'incendio aveva riguardato, in particolare, proprio le vasche
contenenti i 20.000 litri di olio incendiatosi durante la fase di
lavorazione di raffreddamento lamiere ed aveva interessato il piano
interrato, campata A e circa 60 metri di cubicoli interrati, percorsi da
cavi elettrici a servizio dello stabilimento industriale.
Al
V., nella qualità di Presidente del comitato esecutivo, costituito nel
(OMISSIS), nonchè titolare delle deleghe in materia di sicurezza ed
igiene del lavoro, veniva contestato di avere colposamente dato causa
all'incendio, per avere omesso di individuare le misure di prevenzione e
protezione da adottare contro il rischio incendio e di non avere
segnalato la necessità di interventi costosi per fronteggiare
l'imminente rischio di incendio. Per quanto rileva in questa sede, gli
altri due imputati, nella qualità di componenti del Comitato esecutivo,
erano stati assolti dal giudice di secondo grado, sul rilievo che erano
titolari di deleghe diverse da quella della sicurezza e non erano stati
sollecitati da chi era preposto alla sicurezza.
Con
riferimento alla posizione del V., il giudicante riteneva,
innanzitutto, la sussistenza delle condizioni per la configurabilità
dell'evento quale incendio anche prima dell'intervento dei vigili del
fuoco. In secondo luogo, escludeva che le "procedure maldestre" seguite
dai vigili del fuoco per fronteggiare la situazione avessero assunto il
ruolo di concausa nella raggiunta dimensione dell'evento, atteso che
l'intervento si era ispirato a protocolli consolidati e standardizzati,
in condizioni già difficili e di emergenza. Inoltre i consulenti del PM
avevano provato, anche con supporti documentali, che altri corridoi,
diversi dalla botola aperta dai vigili, avevano consentito l'accesso di
aria pulita dall'esterno che aveva alimentato le fiamme.
Quanto
alla contestazione sulle carenze dei presidi antincendio, la Corte di
merito sottolineava che i rilievi dei consulenti si erano appuntati sui
locali sottostanti al laminatoio, che non erano compartimentati, visto
che i fumi avevano trovato ampie di fuga e l'aria fresca le vie di
accesso all'interno (il locale veniva, in effetti, compartimentato nella
ristrutturazione successiva all'incendio).
Sulla
carenza di un sistema di intervento ad attivazione automatica, i
giudici di appello osservavano anche che si sarebbe dovuto preferire
questo tipo di impianto, visto che in un luogo ad elevato rischio di
incendio andava privilegiata l'immediatezza dell'intervento, anche
assumendo il rischio che l'impianto entrasse in funzione su falso
allarme.
Quanto alla esistenza dei rilevatori
di fumo, la sentenza sottolineava che, contrariamente a quanto sostenuto
dalla difesa, l'addebito era quello della mancata dotazione di un
sistema video e non dei rilevatori, invece, pacificamente esistenti.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'imputato V., per mezzo del difensore.
Con il primo motivo, denuncia l'erronea applicazione dell'art. 449 c.p.
e conseguente manifesta illogicità della sentenza, laddove aveva
disatteso l'impostazione difensiva fondata sulla fondamentale
distinzione tra "fuoco" ed "incendio". Si deduce sul punto che sino
all'arrivo dei vigili del fuoco erano insussistenti le caratteristiche
dell'incendio (vastità, diffusività e difficoltà di estinzione) e che
era stata proprio l'attività maldestra dei vigili del fuoco a
trasformare il fuoco in incendio. Si sottolinea, in particolare, che la
Corte di merito, pur dando atto di manovre maldestre poste in essere dai
vigili (apertura di alcune botole con la conseguente immissione di aria
che aveva favorito la combustione;
l'introduzione
di acqua, che aveva determinato il traboccamento dell'olio dalle vasche
di raccolta, cosi alimentando l'incendio), apoditticamente avrebbe
escluso la concreta possibilità di estinzione dell'incendio in assenza
di detta attività, facendo riferimento ad imprecisate correnti di aria
che avrebbero comunque alimentato il fuoco. Si sostiene, inoltre, che in
ogni caso sarebbe mancata la caratteristica della diffusività
dell'incendio in quanto il laminatoio in questione, come tutti gli
altri, era allocato al di sopra di fondi assolutamente non collegati
l'uno con l'altro.
Con il secondo motivo, strettamente connesso, si duole dell'erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p.
in tema di causalità sostenendo che erroneamente i giudici di appello
avevano escluso la configurabilità dell'intervento dei vigili del fuoco
come causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento, senza
tener conto che i vigili erano intervenuti sul luogo dell'incendio ben
18 minuti dopo la chiamata, pur essendo in posizione confinante con lo
stabilimento e che in un primo momento avevano utilizzato mezzi ordinari
(autobotte con acqua e non materiale schiumogeno), così dimostrando la
originaria banalità dell'incidente.
Con il terzo motivo, lamenta la mancanza di motivazione con riferimento all'elemento psicologico del reato sotto vari profili.
Innanzitutto
si sostiene l'erroneità della decisione nella parte in cui aveva
escluso la validità delle deleghe conferite dal V. in materia di
sicurezza, pur non contestando la veridicità delle stesse e l'idoneità
tecnica dei soggetti delegati, ma solo la non trasferibilità a terzi di
doveri e poteri in tema di sicurezza. Le violazioni contestate al V.
riguardavano, secondo l'assunto difensivo, attività delegabili, in
quanto non erano riferite nè alla elaborazione del documento di
valutazione dei rischi nè alla nomina del responsabile del servizio di
prevenzione e protezione. Si evidenzia altresì che presunte carenze
relativa al laminatoio (OMISSIS) non erano mai state portate, neanche
dagli organismi di controllo, a conoscenza dell'imputato.
Lamenta
l'omessa motivazione in merito al motivo di appello riguardante le
contestazioni sull'assenza dei rilevatori di fumo e dell'automatismo
nell'impianto di estinzione.
Sotto il primo
profilo, si sostiene che la Corte di merito, ricadendo nello stesso
errore del giudice di primo grado, non aveva tenuto conto che dalla
stessa consulenza del PM era emerso che l'allarme era stato dato proprio
dai rilevatori di fumo e che tale sistema di sicurezza, come emergeva
dal capo di imputazione, era alternativo a quello del video a circuito
chiuso.
Sotto il secondo profilo, si lamenta
che la Corte di merito aveva omesso di motivare sul motivo di appello
che, nel giustificare la scelta operata della manualità dell'impianto di
estinzione, aveva valorizzato la circostanza che l'entrata in funzione
dell'impianto automatico poteva determinare le ben più gravi conseguenze
della folgorazione o del soffocamento di lavoratori eventualmente
presenti nei fondi, investiti dallo schiumogeno in presenza di impianti
elettrici o soffocati dall'impianto a Co2.
Con
il quarto motivo, infine, lamenta l'erronea applicazione della pena con
riferimento alla quantificazione della pena ed alla omessa conversione
della pena detentiva in pecuniaria, in considerazione della
incensuratezza dell'imputato.
Il primo ed il
secondo motivo possono essere trattati congiuntamente essendo diretti
entrambi a censurare la logicità della motivazione nella parte in cui
afferma la responsabilità del V. ed esclude quella dei vigili del fuoco
per la trasformazione del fuoco in incendio.
In
sostanza, il ricorrente vorrebbe che fosse esclusa ogni sua
responsabilità per l'incendio, prospettando l'ipotesi che la condotta
colposa dei vigili del fuoco avrebbe integrato una causa sopravvenuta
sufficiente da sola a produrre l'evento ex art. 41 c.p., comma 2.
Le
censure sono infondate;avendo il giudicante logicamente evidenziato che
proprio la mancata adozione da parte del V., nella qualità di titolare
delle deleghe in tema di sicurezza ed igiene del lavoro, delle cautele e
dei presidi necessari e dovuti al fine di prevenire gli incendi, si era
posta in nesso di relazione causale con l'evento prodottosi.
E'
censura di merito, a fronte di una motivazione immune da palesi
illogicità, quella che contesta la riconducibilità dell'incendio alle
carenze nelle misure di prevenzione e radica il profilo di colpa
nell'opera maldestra dei vigili del fuoco, che erano intervenuti con il
buttare acqua sull'olio, con il conseguente effetto di alzare il livello
dell'olio e farlo tracimare, così favorendo l'incendio.
La
sentenza, invece, appare solida e immeritevole di censure nella
ricostruzione del nesso eziologico e nel collegamento del fatto alla
condotta omissiva del V..
La Corte di merito,
infatti, nel richiamare la ricostruzione dei fatti operata dal primo
giudice, ha innanzitutto evidenziato che il fuoco sviluppatosi
all'interno del laminatoio (OMISSIS), per la vastità della zona
interessata, per le difficoltà di spegnimento e la diffusività delle
fiamme, aveva già assunto le caratteristiche dell'incendio quando erano
intervenuti i vigili del fuoco, che impiegarono ben 3 giorni (dalle ore
12,43 del 24 alle ore 6 del 26 marzo) per domare le fiamme, con
l'utilizzo di 270 uomini e 20 mezzi fissi sul posto.
L'accertamento
di fatto compiuto dai giudici di merito con logicità argomentativa
sulla sussistenza di tali requisiti per la configurabilità
dell'incendio, in linea con l'orientamento consolidato di questa Corte
(v., tra le altre, Sez. 4, 2 luglio 2007, Di Giovanni) è incensurabile
in questa sede di legittimità.
E' stato poi
evidenziato, alle luce delle risultanze della consulenza del PM, che
tale situazione era stata la conseguenza della inadeguatezza dei presidi
antincendio che, se solo fossero stati più efficienti, avrebbero
consentito di evitarla La carenza è stata individuata, così confermando
l'ipotesi accusatoria, nella omessa compartimentazione dei locali
sottostanti il laminatoio e degli altri ad esso asserviti, nella
mancanza di un sistema di intervento ad attivazione automatica e nella
mancata dotazione di un sistema a video, o a circuito chiuso, che
consentisse l'immediata percezione del pericolo con l'entrata in
funzione degli esistenti rilevatori di fumo.
La
sentenza impugnata si è altresì soffermata sulla ipotesi prospettata
dalla difesa secondo la quale la causa del propagarsi delle fiamme era
da individuare nel comportamento dei vigili del fuoco, affrontando
adeguatamente la questione della possibile esistenza di un fattore
causale, alternativo o quantomeno concorrente, tale da potere costituire
elemento di smentita o di correzione della ricostruzione ipotizzata ed
accolta.
Ciò il giudicante ha fatto escludendo
la sussistenza di elementi di responsabilità ascrivibili ad essi con
motivazione convincente che esclude che qui possa porsi alcun profilo di
rilevanza di detta condotta.
La ricostruzione
operata dalla difesa si poggia infatti su un'asserita condotta colposa
dei vigili del fuoco che il giudicante ha escluso, attraverso una
analitica disamina critica del materiale probatorio, pur dando atto di
maldestre procedure (apertura di botole con l'immissione di aria che
aveva favorito la combustione, utilizzo dell'acqua per lo spegnimento
delle fiamme che aveva determinato il traboccamento dell'olio, che così
era fuoriuscita dalle vasche) seguite per fronteggiare la situazione
nella fase iniziale.
Affrontando la questione
della possibile rilevanza causale di dette condotte,la Corte di merito
ha innanzitutto escluso, effettuando un giudizio controfattuale
meramente ipotetico - in linea con quanto puntualizzato dalla nota
sentenza delle Sezioni unite 10 luglio 2002, Franzese, improntata al
rispetto della regola della certezza processuale - che senza dette
manovre l'incendio si sarebbe estinto, evidenziando, alle luce delle
risultanze della CTU, che lo stesso sarebbe stato comunque alimentato da
altre correnti di aria che avevano accesso dall'esterno e ribadendo la
grave carenza dei presidi antincendio come condicio sine qua non del
rapido propagarsi e della estesa diffusività delle fiamme.
A
ciò aggiungasi che proprio l'iniziale improvvido intervento dei vigili
del fuoco, come esattamente sottolineato nella sentenza gravata, sotto
certi aspetti, anzichè togliere i profili di responsabilità, li aveva
accentuati, dando la prova che la particolarità del luogo,
caratterizzato da elevato rischio d'incendio per la presenza di olio di
raffreddamento, non era stata fatta oggetto di particolari segnalazioni
di rischio e di accorgimenti in grado di indirizzare eventuali
interventi emergenziali.
Il diverso assunto
del ricorrente al riguardo si risolve in una diversa ricostruzione
fattuale ed in un diverso apprezzamento di circostanze fattuali, non
utilmente prospettabili in sede di legittimità, rivelandosi le doglianze
del ricorrente meramente assertive. Non potrebbe quindi il giudice di
legittimità sostituirsi ai giudici di merito nella ricostruzione dei
fatti e nella valutazione dei medesimi, non essendo la sentenza
impugnata incorsa in alcun vizio logico.
Anche il terzo motivo è infondato.
A
base dell'affermato giudizio di colpevolezza i giudici di merito hanno
posto l'apprezzamento del ruolo svolto dal V. all'interno del comitato
direttivo dell'azienda, capo del settore di produzione e sicurezza, con
autonomia gestionale e di spesa.
La Corte di
appello, attraverso la disamina degli atti di causa, ha ampiamente
argomentato sui profili della ritenuta responsabilità dell'imputato,
corrispondendo del resto puntualmente rispetto alle doglianze proposte
con l'appello.
I giudici di appello,
richiamando anche le argomentazioni del primo giudice, hanno ritenuto
che la delega operata dal V. non valeva ad esonerarlo da responsabilità,
essendo taluni obblighi, tra cui quello di valutare i rischi connessi
all'attività di impresa e di individuare le misure di protezione,
ontologicamente connessi alla funzione ed alla qualifica propria del
datore di lavoro e, quindi, non utilmente trasferibili.
Il ragionamento della Corte territoriale è logico e corretto e non è pertanto sindacabile in sede di legittimità.
E' utile in proposito ricordare taluni principi affermati da questa Corte in tema di delega del datore di lavoro.
E'
vero che nelle imprese di grandi dimensioni, come sostenuto dalla
difesa, si pone la delicata questione, attinente all'individuazione del
soggetto che assume su di sè, in via immediata e diretta, la posizione
di garanzia, la cui soluzione precede, logicamente e giuridicamente,
quella della (eventuale) delega di funzioni.
In
imprese di tal genere, infatti, non può individuarsi questo soggetto,
automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di
vertice, occorrendo un puntuale accertamento, in concreto,
dell'effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità
all'interno dell'apparato strutturale, così da verificare la eventuale
predisposizione di un adeguato organigramma dirigenziale ed esecutivo il
cui corretto funzionamento esonera l'organo di vertice da
responsabilità di livello intermedio e finale (così, esattamente,
Sezione 4, 9 luglio 2003, Boncompagni; Sezione 4, 27 marzo 2001,
Fornaciari, nonchè Sezione 4, 26 aprile 2000, Mantero). In altri
termini, nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire
tout court all'organo di vertice la responsabilità per l'inosservanza
della normativa di sicurezza, occorrendo sempre apprezzare l'apparato
organizzativo che si è costituito, si da poter risalire, all'interno di
questo, al responsabile di settore.
Diversamente
opinando, del resto, si finirebbe con l'addebitare all'organo di
vertice quasi una sorta di responsabilità oggettiva rispetto a
situazioni ragionevolmente non controllabili, perchè devolute alla cura
ed alla conseguente responsabilità di altri.
E'
altrettanto vero che il problema interpretativo ricorrente è sempre
stato quello della individuazione delle condizioni di legittimità della
delega: questo, per evitare una facile elusione dell'obbligo di garanzia
gravante sul datore di lavoro, ma, nel contempo, per scongiurare il
rischio, sopra evidenziato, di trasformare tale obbligo in una sorta di
responsabilità oggettiva, correlata tout court alla posizione soggettiva
di datore di lavoro.
Sul punto, costituisce
affermazione consolidata che il datore di lavoro è il primo e principale
destinatario degli obblighi di assicurazione, osservanza e sorveglianza
delle misure e dei presidi di prevenzione antinfortunistica. Ciò
dovendolo desumere, anche a non voler considerare gli obblighi specifici
in tal senso posti a carico dello stesso datore di lavoro dal decreto
legislativo in commento, dalla "norma di chiusura" stabilita nell'art. 2087 c.c.,
che integra tuttora la legislazione speciale di prevenzione, imponendo
al datore di lavoro di farsi tout court garante dell'incolumità del
lavoratore.
Va, quindi, ancora una volta
ribadito che il datore di lavoro, proprio in forza delle disposizioni
specifiche previste dalla normativa antinfortunistica e di quella
generale di cui all'art. 2087 c.c., è il "garante"
dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del
lavoratore, con la già rilevata conseguenza che, ove egli non ottemperi
agli obblighi di tutela, l'evento lesivo gli viene addebitato in forza
del principio che "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico
di impedire equivale a cagionarlo" (art. 40 c.p., comma 2).
Altrettanto consolidato è il principio che la delega non può essere illimitata quanto all'oggetto delle attività trasferibili.
In
vero, pur a fronte di una delega corretta ed efficace, non potrebbe
andare esente da responsabilità il datore di lavoro allorchè le carenze
nella disciplina antinfortunistica e, più in generale, nella materia
della sicurezza, attengano a scelte di carattere generale della politica
aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna
capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato
alla sicurezza (v., tra le altre, Sez. 4, 6 febbraio 2007, Proc. gen.
App. Messina ed altro in proc. Chirafisi ed altro).
E'
da ritenere, quindi, senz'altro fermo l'obbligo per il datore di lavoro
di intervenire allorchè apprezzi che il rischio connesso allo
svolgimento dell'attività lavorativa si riconnette a scelte di carattere
generale di politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto
alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente
attribuirsi al delegato alla sicurezza.
Tali principi hanno trovato conferma nel D.Lgs. n. 81 del 2008,
che prevede, infatti, gli obblighi del datore di lavoro non delegatali,
per l'importanza e, all'evidenza, per l'intima correlazione con le
scelte aziendali di fondo che sono e rimangono attribuite al
potere/dovere del datore di lavoro (v. art. 17).
Trattasi:
a) dell'attività di valutazione di tutti i rischi per la salute e la
sicurezza al fine della redazione del documento previsto dal cit.
D.Lgs., art. 28, contenente non solo l'analisi valutativa dei rischi, ma
anche l'indicazione delle misure di prevenzione e di protezione
attuate; nonchè b) della designazione del responsabile del servizio di
prevenzione e protezione dai rischi (RSPP).
La
sentenza impugnata è in linea con i principi sopra tratteggiati, tenuto
conto che il profilo di colpa contestato all'imputato e ritenuto dai
giudici di merito era stato ravvisato, in sostanza, nella mancata
analisi del rischio incendio e nella violazione degli obblighi di
individuare le misure di protezione, di definire il programma per
migliorare i livelli di sicurezza, di fornire gli impianti ed i
dispositivi di protezione individuali, tutti aspetti che riguardano le
complessive scelte aziendali inerenti alla sicurezza delle lavorazioni e
che, quindi, coinvolge appieno la sfera di responsabilità del datore di
lavoro.
Nella specie, in definitiva,
correttamente è stata ravvisata la posizione di garanzia del prevenuto,
apprezzandone sia il ruolo di vertice che la diretta competenza nel
settore della sicurezza, oltre che i limiti entro cui il medesimo poteva
avvalersi della delega a terzi.
Per gli altri
profili di censura, contenuti nel terzo motivo, afferenti la
contestazione dei profili di colpa ritenuti in capo al V., con
riferimento ai rilevatori di fumo ed all'impianto di estinzione, valgono
i principi affermati in relazione al primo e secondo motivo, con i
quali è stato contestato il giudizio di responsabilità del ricorrente.
Anche
il quarto motivo è infondato, giacchè le censure proposte vorrebbero
che in questa sede si procedesse ad una rinnovata valutazione delle
modalità mediante le quali i giudici di merito hanno esercitato del
potere discrezionale loro concesso dall'ordinamento ai fini della
determinazione della pena.
Il ricorrente non
considera che, ai fini della determinazione della pena, il potere
discrezionale del giudice di merito, correlato all'apprezzamento degli
elementi indicati nell'art. 133 c.p., è incensurabile se supportato da coerente e congrua motivazione.
Quanto
detto vale, a fortiori, anche per il giudice d'appello, il quale, pur
non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell'appellante, non è
tenuto ad un'analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o
sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni
particolarità del caso, è sufficiente che dia l'indicazione di quelli
ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego
delle attenuanti e della determinazione della pena, rimanendo
implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di
stretta contestazione (cfr., ex pluribus, Sez. 4, 19 giugno 2006, Del
Frate).
A ciò dovendosi aggiungere, con
specifico riguardo al contenuto dell'obbligo di motivazione, che questo
si attenua sia nel caso in cui il giudice ritenga di applicare la pena
in misura prossima o vicina al minimo edittale (come nella specie in cui
è stato effettuato un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche
sulla contestata aggravante), tanto più se si consideri che
l'applicazione del minimo edittale non è correlata ad un diritto
assoluto dell'imputato (in tal senso, cfr. la sentenza sopra citata).
Analoghe considerazioni valgono per la omessa conversione della pena detentiva in pena pecuniaria.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 dicembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2009
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