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ABUSO DI UFFICIO - COMUNE E PROVINCIA
Cass. pen. Sez. VI, (ud. 25-06-2009) 28-09-2009, n. 38119
Cass. pen. Sez. VI, (ud. 25-06-2009) 28-09-2009, n. 38119
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con sentenza del 20 giugno 2005 n. 2419 il Tribunale di Brescia dichiarava (OMISSIS) colpevole del reato previsto dall'art. 81 c.p., comma 2, art. 61 c.p., n. 9, e art. 329 c.p.,
commesso in (OMISSIS), perchè nella sua qualità di agente municipale,
comandava di servizio il giorno (OMISSIS) per effettuare un posto di
controllo in via (OMISSIS), dichiarava esplicitamente che non l'avrebbe
fatto e abbandonava il servizio senza giustificato motivo; inoltre,
comandata di servizio il giorno (OMISSIS) per effettuare due
sopralluoghi presso attività artigiane del luogo, rifiutava di
adempiervi e si allontanava dall'ufficio senza giustificato motivo; e la
condannava, con le attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante
contestata, alla pena di due mesi e quindici giorni di reclusione,
sostituita con la corrispondente sanzione pecuniaria di Euro 2.850,00 di
multa.
Avverso la sentenza proponeva appello
il difensore dell'imputata, chiedendone l'assoluzione, e, in subordine,
l'eliminazione dell'aggravante, già presente come elemento costitutivo
del reato, e la riduzione della pena.
Con
sentenza del 12 marzo 2007 n. 486 la Corte d'appello di Brescia, in
parziale riforma della sentenza impugnata, escludeva la contestata
aggravante dell'art. 61 c.p., n. 9, confermando nel resto.
Avverso
la sentenza di appello la (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione,
chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi:
1. contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. e)) in ordine alla palese reticenza delle testimonianze
dei colleghi dell'imputata e alla ricostruzione dell'episodio e alla
parte avutavi dalla reazione irosa del Comandante, e alla valutazione
del certificato medico, confermato da quello del medico fiscale e dai
successivi controlli medico - legali, che hanno confermato la diagnosi
di agorafobia e la conseguente incapacità di svolgere determinati tipi
di lavoro;
2. erronea applicazione dell'art. 329 c.p., (art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. b) perchè non ogni rapporto fra l'agente della Forza
Pubblica e l'Autorità competente può essere ricondotto alla tutela della
norma, ma solo quelli in cui l'agente è richiesto di esercitare i
poteri caratterizzanti, di coercizione diretta di persone e cose ai fini
della tutela dell'azione e della sicurezza pubblica, che nella specie
mancavano perchè gli ordini impartiti riguardavano un controllo della
circolazione stradale e un sopralluogo su attività commerciali, in
relazione ai quali il ricorso ai poteri d'imperio e di coercizione erano
solo potenziali, con conseguente insussistenza del presupposto che
qualifica il rapporto gerarchico oggetto della tutela normativa.
L'impugnazione è infondata.
La
sentenza impugnata riepiloga i termini della vicenda sottoposta alla
cognizione del Giudice d'appello partendo dall'esposto di (OMISSIS), già
comandante della Polizia Municipale di (OMISSIS), il quale - dopo aver
segnalato gli screzi verificatisi fra lui e la vigile (OMISSIS) che non
intendeva svolgere esercizi esterni e aspirava a cambiare ufficio, e la
propria richiesta all'Amministrazione comunale di cambiare funzioni
assegnate alla (OMISSIS) o di procedesse disciplinarmente nei confronti
della stessa - aveva riferito che quest'ultima l'(OMISSIS), richiesta di
eseguire un controllo stradale insieme con la sua collega (OMISSIS) si
era rifiutata e se n'era andata dall'ufficio sbattendo la porta, sicchè
il servizio era stato svolto dall'altra Vigile e dal Comandante.
Successivamente
- aveva aggiunto il Comandante - il (OMISSIS) la (OMISSIS) richiesta di
eseguire un controllo su attività artigianali, si era rifiutata,
affermando che non avrebbe eseguito ordini che qualificava come cazzate.
Solo più tardi aveva presentato certificati medici relativi alla
patologia detta agorafobia, di cui la stessa era sofferente.
Di
seguito la sentenza impugnata passa in rassegna la versione dei fatti
opposta dall'imputata, la quale, in ordine al primo episodio, ha solo
obiettato di aver chiesto unicamente il permesso di andare in bagno,
dopo che il Comandante l'aveva aggredita in termini molto pesane; poi si
era attardata per consentire a una signora di pagare una
“contravvenzione” e, avendo visto che nel frattempo il Comandante
allontanarsi in bicicletta, si era recata dal Sindaco che l'aveva
autorizzata a compiere altre operazioni.
Il
Giudice d'appello ha tracciato, inoltre, un bilancio delle prove
acquisite e, in particolare, delle deposizioni testimoniali assunte,
osservando come dai testi siano venute notizie vaghe ed evasive - con
reticenza ritenuta attribuibile piuttosto al rapporto attuale di
colleganza con la (OMISSIS) che all'influenza del (OMISSIS) che non era
più al suo posto, del quale nessuno dei testimoni aveva messo in
discussione correttezza e credibilità - con conferma da parte di due di
loro (OMISSIS) ed (OMISSIS), di aver sentito in epoca imprecisata, dire
dalla (OMISSIS) che avrebbe eseguito un ordine dopo essere andata in
bagno e da uno di loro ((OMISSIS)) che successivamente, essendosi il
Comandante allontanato, si doveva recarsi dal sindaco.
Le
conclusioni, sui si è pervenuti in sede di merito, della veridicità
della versione accusatoria, appare logicamente conseguente all'analisi
critica svolta, a seguito della quale emerge che la giustificazione
offerta dall'imputata in ordine al primo episodio appare in realtà
inconsistente, in quanto la stessa, lungi dall'eseguire l'ordine, aveva
tergiversato finchè era data dal sindaco a farselo revocare.
E
lo stesso può dirsi della giustificazione del secondo episodio in
quanto il certificato dell'agorafobia è giunto successivamente e il
disturbi certificato non aveva in precedenza determinato problemi
sull'esecuzione dei servizi esterni da parte dell'imputata.
Di conseguenza il vizio di motivazione dedotto col primo motivo d'impugnazione appare infondato.
Lo stesso deve dirsi del secondo motivo.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale in materia sono da considerare soggetti attivi del reato di cui all'art. 329 c.p.,
da un lato, i militari, dall'altro lato, gli agenti della forza
pubblica, comprendendo in tale categoria gli agenti di pubblica
sicurezza, i carabinieri, le guardie di finanza, i vigili del fuoco, gli
agenti di custodia e le persone ad essi equiparate, nonchè tutti quegli
organismi pubblici non militarizzati i cui dipendenti sono investiti di
potestà di coercizione diretta sulle persone e sulle cose ai fini
dell'ordine e della sicurezza pubblica (Sez. 6^, 5 dicembre 1986,
D'Ascoli).
L'inserimento degli appartenenti
alla polizia municipale nella categoria degli agenti della forza
pubblica (meglio, nella categoria degli agenti di polizia giudiziaria) è
stato affermato dalla giurisprudenza, sia pure a fini diversi
dall'applicazione dell'art. 329 c.p..
Secondo tale linea interpretativa il vigile urbano ha la qualità di agente di polizia giudiziaria a norma della L. 7 marzo 1986, n. 65, art. 5,
che attribuisce simile qualità al personale che svolge servizio di
polizia municipale nell'ambito del territorio dell'ente di appartenenza e
nei limiti delle proprie attribuzioni esercita anche funzioni di
ufficiale di polizia giudiziaria il responsabile del servizio o del
corpo degli addetti al coordinamento ed al controllo (Sez. 1^, 30
ottobre 1992, Pignatiello).
Pertanto il c.d. rifiuto di obbedienza di cui all'art. 329 c.p.,
ha come destinatari, i militari e gli agenti della forza pubblica (una
nozione, quest'ultima, che non coincide con quella di agenti della
polizia giudiziaria, perchè la qualità di agente della forza pubblica
impone che il soggetto sia investito di un potere di coercizione diretta
su persone o cose ai fini di tutela dell'ordine o della sicurezza
pubblica; coerentemente, dunque, anche alla luce dei profili teleologici
a base della norma in esame, assume rilievo esponenziale il potere
coercitivo così da escludere la sussistenza del reato tutte le volte che
la condotta omissiva riguardi l'espletamento di un'attività meramente
amministrativa (arg. da Sez. 6^; 19 giugno 2000, Grech).
La
qualità soggettiva di agente della forza pubblica assume, allora, ai
fini della qualificazione del fatto nell'ambito dell'ipotesi di reato in
esame, una duplice significazione; da un lato sta a designare una
soggettività più ampia rispetto a quella propria dell'agente di polizia
giudiziaria; dall'altro lato, acquistando rilevanza esclusiva il profilo
funzionale, richiede che - sempre avendo di mira gli scopi perseguiti dall'art. 329 c.p.
- quale condizione ineludibile che l'atto oggetto del rifiuto di
obbedienza si incentri sul mancato esercizio di poteri coercitivi
(Cass., Sez. 6^, 13 ottobre 2005 n. 5393, ric. Tobia).
Con l'ulteriore specificazione che l'art. 329 c.p.,
per quel che attiene l'elemento materiale del reato, considera come
fatto punibile il rifiuto di obbedienza agli ordini emanati dalle
competenti autorità e quindi si riferisce, quanto agli agenti della
forza pubblica non militarizzata, sia dagli orini impartiti da autorità
civili non sovraordinate (es: i giudici ex art. 220 c.p.p.) sia
ai superiori gerarchi ai quali il relativo potere è riconosciuto dai
singoli ordinamenti interni (Cass., Sez. 6^, 5 dicembre 1986 n. 4259,
ric. Dascola).
Tra poteri coercitivi, intesi
come caratterizzati dal legittimo uso della forza in funzione del
conseguimento di finalità di natura pubblica precisamente determinate,
rientrano quelli connessi con i settori della pubblica amministrazione
riservati per legge alla competenza dei vigili urbani e inerenti alla
funzione istituzionale loro propria, e, in particolare, quelli relativi
alla disciplina della circolazione stradale ed al controllo della
regolarità degli esercizi commerciali.
Pertanto si rende colpevole del reato di cui all'art. 329 c.p.,
il vigile urbano che si rifiuta di obbedire agli ordini impartitigli
dal superiore gerarchico, comandante del corpo di appartenenza, di
instaurare un posto di controllo della circolazione stradale e di
eseguire sopralluoghi per la verifica di regolarità presso centri di
attività artigianale.
La decisione impugnata
si è correttamente uniformata ai principi suesposti ed è perciò immune
dalla violazione di legge dedotta col secondo motivo di ricorso.
Pertanto il ricorso dev'essere rigettato.
Segue per legge la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 25 giugno 2009.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2009
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