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Cass. pen. Sez. V, (ud. 22-01-2009) 06-05-2009, n. 19021
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1.-
La Corte di Appello di Lecce ha confermato la sentenza del Tribunale
della stessa città, in ordine alla dichiarazione di responsabilità e
alla determinazione della pena nei confronti di F.N., in relazione al
reato di cui all'art. 612 c.p., comma 2, in danno di B.A.R.,
per avere profferito, all'indirizzo di costei, che stava vietando al
primo, alla guida della propria autovettura, il transito in una zona
interdetta la seguente frase: "io sono il tuo capo e devi fare quello
che dico io;
lunedì ti voglio a rapporto,
quella è la macchina, fai la contravvenzione", una in parziale riforma
ha rideterminato i danni liquidati in favore della stessa, costituita
parte civile, in Euro 5.000,00. 2.- L'imputato propone ricorso per
cassazione, deducendo la nullità della sentenza per violazione, falsa ed
errata interpretazione e applicazione dell'art. 612 c.p.,
comma 2, in quanto: a.- la frase attribuita ad esso F. non era idonea a
coartare la libertà psichica della B. e la sua determinazione; b.- il
male minacciato non poteva dipendere da esso stesso, perchè egli, come
sindaco non era legittimato ad infliggere sanzioni disciplinari; c.-
nessuno scopo giusto aveva da perseguire perchè egli aveva già percorso
la strada in senso vietato e aveva sollecitato la compilazione del
verbale; d.- la frase profferiva doveva ritenersi una mera
manifestazione di un'intenzione priva di attuabilità; e.- la frase era
stata pronunciata in uno stato di "ira sociale" davanti all'arroganza
della B., animata dalla smania di censurare pubblicamente, anche al di
là dello zelo, il sindaco; f.- la minaccia non doveva ritenersi il
grave; g.- l'ipotesi delittuosa poteva ritenersi quella di cui all'art. 650 c.p..
3.- Il ricorso è manifestamente infondato.
I
giudici del merito hanno dato conto di come dalle dichiarazioni dei
testi escussi risultava che il F., nonostante l'impossibilità di
transitare nella zona, interdetta al traffico veicolare, peraltro su
ordinanza sindacale dello stesso F., e il divieto opposto dal vigile B.,
nel rispetto della normativa, avesse pronunciato la frase "io sono il
tuo capo, tu devi obbedire ai miei ordini, domani ti voglio nel mio
ufficio a rapporto" e subito dopo avesse, con una sgommata, ugualmente
proseguito nonostante il divieto di circolazione. Gli stessi giudici del
merito hanno di conseguenza legittimamente e con logica evidenziato che
il F. non avesse chiesto una semplice relazione di servizio sui fatti,
che peraltro erano a conoscenza dello stesso sindaco, ma avesse voluto
intimidire, facendo intravedere la possibilità di azioni disciplinari,
il vigile urbano, che aveva cercato soltanto di fare rispettare il
divieto, per "non avere ubbidito ai suoi ordini". E, difatti, la Corte
territoriale ha precisato che successivamente come risultava da un
testimonianza il F. aveva chiamato davanti a sè sia la B. che il
Comandante per verificare la possibilità di un'azione disciplinare.
Il
fatto che il potere disciplinare spettasse al Segretario comunale non
poteva escludere l'intento minaccioso tenuto conto che l'imputato
comunque era sempre il capo dell'amministrazione comunale e si trovava
in una situazione di superiorità gerarchica rispetto alla parte offesa.
Per cui la minaccia era certamente grave, come, peraltro, evidenziato
dai giudici del merito, proprio in considerazione della subordinazione
gerarchica.
Che il fatto fosse idoneo a
incutere timore e turbamento è provato da quanto evidenziato dalla Corte
territoriale e cioè che la B., nell'occasione, si trovò sconvolta e in
lacrime.
La deduzione che il fatto poteva essere riconosciuto come violazione dell'art. 650 c.p., non trova alcuna consistenza, perchè il fatto contestato non è l'inosservanza del divieto bensì la minaccia al vigile urbano.
La
manifesta infondatezza del ricorso importa che lo stesso va dichiarato
inammissibile. Ne consegue anche la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali nonchè al versamento della somma determinata,
per le ragioni di inammissibilità, in Euro 500,00 in favore della Cassa
delle Ammende, tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per
ritenere che "la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità" (Corte Cost. n.
186/2000).
P.Q.M.
La
Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 500,00 in favore
della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2009
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