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Lavoratore maltrattato: il sindacato( Filt Cgil) si costituisce parte civile
La
Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 16031 dello scorso 16
aprile, ha stabilito che la Consigliera di parità e il sindacato di
appartenenza di un lavoratore, sono legittimati a costituirsi parte
civile nel giudizio penale che si instauri ai danni del datore di lavoro
che abbia maltrattato il lavoratore stesso.
LAVORO (RAPPORTO) - PARTE CIVILE - PROCEDIMENTO PENALE - REATO IN GENERE
Cass. pen. Sez. VI, (ud. 05-02-2009) 16-04-2009, n. 16031
Cass. pen. Sez. VI, (ud. 05-02-2009) 16-04-2009, n. 16031
Svolgimento del processo
1.
Con la sentenza in epigrafe indicata, il giudice per le indagini
preliminari ha applicato ex art. 444 ss. c.p.p. nei confronti di A.C. e
in relazione all'accusa di maltrattamenti - per avere, nella qualità di
"supervisore", ripetutamente maltrattato cinque operatrici di sala,
dipendenti della Spa @@@@@@@ e in servizio presso l'aeroporto di
(OMISSIS) - la pena richiesta dalle parti e ha inoltre condannato
l'imputato alla rifusione delle spese di costituzione, assistenza e
rappresentanza in favore delle costituite parti civili, tra le quali,
oltre alle persone offese, vi erano l'avv.to Alida Vitali quale
Consigliera delle parità regionale del Piemonte e la Filt CGIL, in
persona del suo segretario generale pro tempore.
2.
La difesa del ricorrente impugna e l'ordinanza 10 maggio 2007 e la
sentenza de qua nella parte in cui, l'una ha ammesso la costituzione ex
parte civile della Consigliera regionale di parità e, l'altra, ha
condannato l'imputato alla refusione delle spese in favore in suo
favore.
In sintesi deduce:
1.
inosservanza o erronea applicazione della legge penale e di norme
processuali, poichè la Consigliera regionale di parità non avrebbe
potuto essere ammessa a costituirsi parti civile, essendo priva della
legitimatio ad causam.
Premesse le ragioni a
fondamento dell'ammissibilità dell'impugnazione proposta, il ricorrente
pone in rilevo che, nell'atto di costituzione, l'ente regionale persegue
un interesse pubblico, in sè astratto e diffuso, che non avrebbe potuto
giustificare la legitimatio ad causam: gli interessi diffusi, comuni a
tutti gli individui in generale non possono che essere privi di tutela
giurisdizionale poichè configurano un a pluralità di situazioni
pregiudicate o messe in pericolo e da un comportamento. La specifica
caratterizzazione della titolarità di tale situazione giuridica
soggettiva sostanziale - distinta sia rispetto ai diritti individuali
dei rappresentati che rispetto ai diritti propri degli enti
rappresentativi - richiede che sia una legge a definire, in relazione
alla specificità dei casi, la legittimazione ad agire.
La disciplina processuale vigente, alla stregua del combinato disposto dell'art. 74 c.p.p. e art. 185 c.p., richiede che presupposti della costituzione sono la sussistenza del danno criminale e del danno civile.
Gli enti e le associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato sono legittimati ex art. 91 c.p.p.
a esercitare diritti e facoltà propri della persona offesa e ciò non è
implicito riconoscimento a costituirsi parte civile. La non
sovrapponibilità tra l'istituto di cui all'art. 91 c.p.p. e la
costituzione di parte civile discende dall'art. 212 disp. coord. c.p.p.
per il quale il fondamento dell'esercizio dell'azione civile nel
processo penale non può che essere individuato dall'art. 74 c.p.p..
Si
pone in rilievo che il codice delle pari opportunità, con riguardo al
Consigliere regionale di parità, non prevede alcuna legittimazione alla
costituzione di parte civile. La legittimazione è circoscritta ad ambiti
precisi e diversi dal processo penale.
La legittimazione processuale prevista dal D.Lgs. n. 198 del 2006, artt. 36 e 37,
fa riferimento all'azione in giudizio volta a ottenere la dichiarazione
o l'accertamento di discriminazioni, eventualmente anche a carattere
collettivo. Si tratta di legittimazione specifica e caratterizzata da
situazioni ben definite e vincolata all'azione giudiziale intrapresa in
campo giuslavoristico e che, al di là delle ipotesi di azione diretta
all'accertamento di pratiche discriminatorie a carattere collettivo, la
partecipazione del Consigliere non può essere autonoma ma vincolata
all'iniziativa della persona interessata e al conferimento di delega
allo stesso ente ovvero è riconosciuta la possibilità di un intervento
ad adiuvandum ex art. 105 c.p.c..
In
tale contesto, non può trovare applicazione l'art. 212 disp. coord.
c.p.p., poichè non vi è una legge o regolamento che preveda la
costituzione di parte civile della Consigliera delle parità.
Peraltro,
anche là dove dovere ritenersi applicabile l'anzidetto disposizione, la
costituzione di parte civile o l'intervento nel processo al di fuori
delle ipotesi stabilite dall'art. 74 c.p.p., detto intervento può essere ammesso nei limiti e alle condizioni previste negli artt. 91 c.p.p. e ss. e, pertanto, solo là dove vi sia il consenso della persona offesa ex art. 94 c.p.p., risultante da atto scritto o da scrittura privata autenticata.
Altro
profilo che il ricorrente pone in rilievo è la mancanza di una lesione
alla tutela del patrimonio morale e al perseguimento dello scopo
istituzionale derivanti dalla diminuzione del prestigio e dal discredito
nei confronti dei lavoratori. Posto che dato incontrovertibile è che
l'interesse pubblico cui è collegato la posizione della Consigliera di
parità è quello della promozione e del controllo dell'attuazione dei
principi di uguaglianza di opportunità e di non discriminazione, il
ricorrente ritiene che il delitto di maltrattamenti, nella
configurazione giuridica riconosciutagli, consiste nell'offesa
indubbiamente individuale e ciò esclude che l'interesse cui è
preordinato l'ente regionale possa essere leso dalla condotta
incriminatrice de qua. La fondatezza della pretesa risarcitoria deve
derivare da un diretta e immediata lesione al diritto di personalità
dell'ente e non può derivare da un mero collegamento ideologico.
Il
delitto di maltrattamenti potrebbe arrecare alla Consigliera
esclusivamente un danno morale che nella specie non può coincidere con
una generica lesione dell'interesse dell'ente al raggiungimento dei
propri scopi.
Infine, per il ricorrente è da
escludere che configuri un danno "riflesso", inteso ne senso della
propagazione delle conseguenze dell'illecito alle cd. vittime
secondarie. Affinchè ciò possa essere ammesso e necessario che vi sia
una lesione etiologicamente collegata con il fatto illecito. Connessione
tra una condotta illecita che incida sulla integrità psicofisica e sul
patrimonio morale di un lavoratore, rispetto alla lesione dello scopo
statutario di un ente che si proponga finalità di tutela
dell'uguaglianza di opportunità e della parità di trattamento nel mondo
del lavoro.
3. La difesa della consigliera di
parità della regione Piemonte rileva la corretta applicazione della
disciplina in tema di costituzione parte civile degli enti esponenziali.
Pone in rilievo la non operatività dell'art. 212 disp. coord. c.p.p. e art. 91 c.p.p., in quanto la consigliera di parità si è costituita ex art. 74 c.p.p.
quale soggetto danneggiato. Il codice delle pari opportunità prevede
agli artt. 36 e 37, oltre che per la costituzione in giudizio con delega
dell'interessato, anche l'azione collettiva diretta della consigliera
di parità volta a ottenere il risarcimento di danni non patrimoniali in
caso di discriminazione in ambiente di lavoro.
3. Tale è la sintesi ex art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1 dei termini delle questioni poste.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato.
Il
giudice di merito ha correttamente riconosciuto alla Consigliera
regionale di parità la legitimatio ad causam in ragione degli scopi
istituzionali di intervento. In particolare, alla Consigliera di parità
l'ordinamento riconosce la tutela alla promozione dei principi di pari
opportunità e di non discriminazione sessuale tra uomini e donne
nell'ambiente di lavoro.
Mette conto rilevare che il D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, art. 15, recante "il codice delle pari opportunità" ridefinisce, rispetto alla L. n. 125 del 1991, compiti e funzioni della Consigliera o Consigliere di parità, riproducendo quanto già stabilito dal D.Lgs. n. 196 del 2000.
Tra
le molteplici funzioni spiccano, oltre alla rilevazione di "situazioni
di squilibrio" per la garanzia contro le discriminazioni, i compiti di
promozione di progetti di azioni positive, anche attraverso l'impiego di
risorse comunitarie, nazionali e locali per raggiungere le finalità
"...di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione
di pari opportunità"...azioni positive dirette ... a favorire
l'occupazione femminile e realizzare l'uguaglianza sostanziale tra
uomini e donne nel lavoro" (D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 42).
Tale
complessivo contesto normativo, ritiene il Collegio, riconosce alla
Consigliera o al Consigliere di parità un rafforzamento di strumenti per
realizzare la pari dignità dei lavoratori negli ambienti di lavoro ed
impedire che si crei un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante o offensivo.
Non è da revocare in
dubbio che i comportamenti, sui quali si fonda l'accusa formulata
all'odierno ricorrente, abbiano concretizzato il delitto di
maltrattamenti rispetto al quale si configura una posizione soggettiva
giuridicamente tutelata della consigliera di parità, quale soggetto
danneggiato dal reato.
A conclusioni analoghe
si è pervenuti per le organizzazioni sindacali, rappresentative degli
iscritti vittime di violenza sessuale commessa sul luogo di lavoro che
possono costituirsi parte civile ed ottenere il risarcimento del danno,
in quanto tale delitto lede l'integrità psico-fisica del lavoratore e
provoca un grave turbamento che viola la personalità morale e la salute
della vittima, compromettendone la stabilità psicologica ed il rapporto
con la realtà lavorativa e la percezione del luogo.
Ed
è così ritenuta legittima la costituzione di parte civile "iure
proprio" dell'organizzazione sindacale di appartenenza del lavoratore
vittima del reato di violenza sessuale posto in essere sul luogo di
lavoro, in quanto la condotta integrante tale reato è idonea a provocare
un danno sia alle persone offese che al sindacato, per la concomitante
incidenza sulla dignità lavorativa e sulla serenità del lavoratore che
ne è vittima e, inoltre, perchè tale condotta è in contrasto con il fine
perseguito dal sindacato, costituito dalla tutela della condizione
lavorativa e di vita degli iscritti sui luoghi di lavoro (Sez. 3^, 7
febbraio 2008, dep. 26 marzo 2008, n. 12738).
Ritiene
il Collegio che la Consigliere o il Consigliere regionale di parità
siano legittimati a costituirsi parte civile, non quale ente
rappresentativo di interessi diffusi ma quale "danneggiato" dal reato di
maltratti menti commessi nei confronti di più lavoratori, al fine di
ottenere il ristoro del danno non patrimoniale subito.
2.
La legittimano ad causarti e la costituzione "iure proprio", quale
parte civile, della Consigliera o del Consigliere regionale delle parità
- e nei casi di rilievo nazionale anche della Consigliera o Consigliere
nazionale - non è altro che la pretesa volta a ottenere il risarcimento
del danno non patrimoniale che il D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 37, commi 1 e 2,
"codice delle pari opportunità" espressamente riconosce loro, mediante
ricorso davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al
tribunale amministrativo regionale competenti per territorio,
nell'ipotesi in cui sia rilevata "...l'esistenza di atti, patti o
comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere
collettivo". Pretesa risarcitoria che - oltre ad essere rivolta a
ottenere la liquidazione del danno non patrimoniale, qualora richiesto e
nel caso ne ricorrano le condizioni - è diretta all'adozione di
provvedimenti idonei a alla rimozione delle discriminazioni accertate.
Una
pretesa risarcitoria che legittima i titolari di essa - e dunque non
solo i singoli lavoratori, ma anche la Consigliera o il Consigliere di
parità - a costituirsi parte civile nel caso di procedimenti per fatti
delittuosi commessi a danno di più lavoratori e dai quali emergano
comportamenti diretti o indiretti di carattere discriminatorio
"collettivo".
Non è da revocare in dubbio che i
maltrattamenti - consistiti nel pronunciare ripetutamele frasi
scurrili, indirizzate alle dipendenti, del tipo "ce lo piccolo, ma
cattivo e profumato", nel fare riferimento alle proprie doti sessuali,
lasciando intendere, con espressioni come "tutto a un prezzo", che non
sarebbero stati concessi permessi o ferie se non dietro prestazioni
sessuali, umiliando le lavoratrici davanti ai colleghi con frasi come
"stè quattro puttane che non fanno niente tutto il giorno...", nel fare
ripetute avances e imponendo alle dipendenti mansioni più gravose,
ripetitive e/o inutili rispetto a quanto ordinato agli altri lavoratori -
ledano la dignità personale e l'integrità psicofisica delle lavoratrici
o dei lavoratori. Si è in presenza di atti che realizzano per un verso
una "discriminazioni diretta" ex art. 25, comma 1, del codice delle pari
opportunità, trattandosi di comportamenti che producono un effetto
pregiudizievole discriminatorio rispetto alle lavoratrici. Per altro
verso, realizzano indubbi comportamenti indesiderati, posti in essere
per ragioni connesse al sesso e in ogni caso aventi "...lo scopo o
l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e
di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o
offensivo" (art. 26, comma 1, del codice).
3.
La diversità di sedi giudiziarie davanti alle quali far valere la
pretesa risarcitoria e indubbiamente correlata alla tutela richiesta per
ottenere il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale.
Come noto, il danno non
patrimoniale è risarcibile nei soli casi "previsti dalla legge", e cioè,
secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ.:
a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato;
in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della
persona tutelato dall'ordinamento, ancorchè privo di rilevanza
costituzionale; b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge
espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche il di
fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento
dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la
discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al
risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei
soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare
attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali,
rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire
discriminazioni); c) quando il fatto illecito abbia violato in modo
grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela
costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del
danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che,
al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati "ex ante"
dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice
(Sez. un. civ., 11 novembre 2008, 26972).
Una
azione collettiva, dunque, che la Consigliera di parità della regione
Piemonte ha promosso, allo scopo di sentirsi riconosce il diritto a
ottenere il danno patrimoniale ture proprio, nell'ambito del processo
penale per la realizzazione di diritti e interessi che la legge
espressamente le riconosce e tutela.
Si è, infatti, in presenza di un vero e proprio danneggiato dal reato, cui è consentito azionare l'art. 74 c.p.p.
per il ristoro del danno subito. Per tal motivo, è da escludere
l'operatività nella concreta fattispecie dell'art. 212 disp. coord.
c.p.p. - più volte richiamato dal ricorrente a fondamento
dell'impugnazione proposta - là dove l'ente rivesta, in ragione del
ruolo e finalità che l'ordinamento gli riconosce, la posizione di
soggetto danneggiato dal reato tutelata dall'art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p..
4. Il ricorso è infondato e va rigettato. Il ricorrente, a norma dell'art 616 c.p.p.,
va condannato al pagamento delle spese processuali, nonchè al rimborso
in favore della parte civile, Consigliera regionale di parità, delle
spese del grado che si liquidano in complessive Euro 2.000,00, oltre IVA
e CPA.
P.Q.M.
Rigetta
il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali. Condanna altresì a rimborsare alla parte civile,
Consigliere regionale di parità, le spese del grado che si liquidano in
complessive Euro 2.000,00, oltre IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 5
febbraio 2009.
Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2009
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