Translate
mercoledì 2 maggio 2018
N. 91 SENTENZA 21 febbraio - 27 aprile 2018 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato - Provvedimento del giudice ed effetti della pronuncia - Potere del giudice dibattimentale di acquisire e valutare gli atti delle indagini preliminari ai fini delle pertinenti decisioni - Disciplina del trattamento dell'imputato. - Codice di procedura penale, artt. 464-quater e 464-quinquies; codice penale, art. 168-bis, commi secondo e terzo. - (GU n.18 del 2-5-2018 )
N. 91 SENTENZA 21 febbraio - 27 aprile 2018
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Processo penale - Sospensione del procedimento con messa alla prova
dell'imputato - Provvedimento del giudice ed effetti della
pronuncia - Potere del giudice dibattimentale di acquisire e
valutare gli atti delle indagini preliminari ai fini delle
pertinenti decisioni - Disciplina del trattamento dell'imputato.
- Codice di procedura penale, artt. 464-quater e 464-quinquies;
codice penale, art. 168-bis, commi secondo e terzo.
-
(GU n.18 del 2-5-2018 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt.
464-quater, 464-quater, commi 1 e 4, e 464-quinquies, del codice di
procedura penale, e dell'art. 168-bis, commi secondo e terzo, del
codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di Grosseto, nel
procedimento penale a carico di S. A. e altri, con ordinanza del 16
dicembre 2016, iscritta al n. 81 del registro ordinanze 2017 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima
serie speciale, dell'anno 2017.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2018 il Giudice
relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 16 dicembre 2016 (r.o. n. 81 del 2017), il
Tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo
comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater, comma 1, del codice
di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il giudice
del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente ad ogni
decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale di messa
alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle
indagini preliminari restituendoli per l'ulteriore corso in caso di
pronuncia negativa sulla concessione o sull'esito della messa alla
prova».
Con la medesima ordinanza, il giudice a quo ha sollevato, in
riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost., una questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 168-bis, secondo e terzo comma,
del codice penale, «in quanto prevede la applicazione di sanzioni
penali non legalmente determinabili», nonche', in riferimento agli
artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., «nella
parte in cui prevede il consenso dell'imputato quale condizione
meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale
recante modificazione o integrazione del programma di trattamento».
Il Tribunale rimettente ha infine sollevato, in riferimento
all'art. 27, secondo comma, Cost., questioni di legittimita'
costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc.
pen., «in quanto prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni
penali senza che risulti pronunciata ne' di regola pronunciabile
alcuna condanna definitiva o non definitiva».
Il giudice a quo premette di aver gia' sollevato le medesime
questioni di legittimita' costituzionale con tre ordinanze del 10
marzo 2015 di identico contenuto (r.o. n. 157, n. 158 e n. 159 del
2015), questioni che sono state pero' dichiarate manifestamente
inammissibili con l'ordinanza n. 237 del 2016 di questa Corte, per
insufficiente descrizione della fattispecie e, conseguentemente, per
difetto di motivazione sulla loro rilevanza nei giudizi a quibus.
«In ossequio ai dettami della Corte» e al fine di sopperire ai
precedenti profili di inammissibilita', il Tribunale rimettente
chiarisce di essere investito, «in funzione di giudice della
cognizione in primo grado», di sette procedimenti penali riuniti,
indicando specificamente i reati per cui procede a carico di ciascun
imputato e le condotte contestate.
Il giudice a quo poi specifica di essere pervenuto «allo stadio
della pronuncia sul merito di ciascuna istanza di messa alla prova
ritualmente presentata» dagli imputati, per ognuno dei quali
sussistono i requisiti soggettivi previsti dall'art. 168-bis cod.
pen., essendo tutti incensurati, tranne uno «che, tuttavia, ha
riportato un mero e irrilevante precedente di cui all'art. 614 c.p.
risalente a quattordici anni addietro».
Inoltre le istanze di sospensione del procedimento con messa alla
prova sarebbero state presentate nel «termine legalmente imposto», a
mezzo di difensore munito di procura speciale e con tempestiva
allegazione del programma di trattamento elaborato d'intesa con il
competente ufficio di esecuzione penale esterna.
Dall'ordinanza di rimessione emerge pure che «ciascuno dei
fascicoli per il dibattimento concernenti le fattispecie sostanziali
dedotte nei procedimenti penali presupposti, in ragione dello stadio
processuale in cui la procedura di messa alla prova e' stata attivata
[...] e della composizione del fascicolo legalmente prescritta in
tale stadio [...], non contiene la rappresentazione del benche'
minimo elemento di prova occorrente all'accertamento ed alla
valutazione, neppure in forma di delibazione sommaria, della
fondatezza dell'accusa sotto alcun profilo oggettivo e soggettivo».
Da qui l'impossibilita', per il giudice, di stabilire «se [il] fatto
[contestato] sussista, con quante e quali modalita' di cui all'art.
133 c.p. sia stato commesso, da chi sia stato commesso, se
costituisca reato, se sia previsto dalla legge come reato ed infine
se, a quali condizioni ed a quale titolo dia luogo ad un reato
punibile».
Cio' renderebbe le prime questioni sollevate rilevanti nei
giudizi a quibus.
Qualora si accogliessero le istanze di messa alla prova formulate
dagli imputati, il relativo provvedimento, secondo il rimettente,
dovrebbe stabilire «in forma precettiva la qualita' e soprattutto la
quantita' di ciascuna delle due sanzioni criminali previste dall'art.
168 [recte: 168-bis] commi 2 e 3 c.p.» in violazione del principio di
legalita' della pena. Ne conseguirebbe la pregiudizialita' della
seconda questione di legittimita' costituzionale sollevata.
Inoltre, poiche' «nessuno dei programmi di trattamento presentati
[dagli imputati] contiene la determinazione quantitativa delle
sanzioni ivi prefigurate», essendo stati redatti in modo incompleto,
mediante la compilazione di un modulo, nel caso di accoglimento delle
istanze di messa alla prova, il giudice dovrebbe procedere ad
integrarli, cosi' sottoponendo il relativo provvedimento alla
«condizione sospensiva di efficacia identificata nel "consenso
dell'imputato"».
Egli infine si troverebbe a dover «sancire l'espiazione di una
pena criminale in difetto di alcuna condanna sia definitiva, sia non
definitiva».
Da qui la rilevanza della terza e della quarta questione di
legittimita' costituzionale sollevate dall'ordinanza di rimessione.
Ricostruita la disciplina dell'istituto della messa alla prova,
introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in
materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema
sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del
procedimento con messa alla prova e nei confronti degli
irreperibili), il Tribunale rimettente osserva che nel caso, come
quello in esame, in cui l'iniziativa dell'imputato interviene nella
fase degli atti preliminari al dibattimento «[i]l provvedimento
giurisdizionale di cognizione sul merito della istanza di messa alla
prova e' pronunciato allo stato degli atti del fascicolo per il
dibattimento [quale] esso si trova nello stadio introduttivo del
giudizio (antecedente la dichiarazione di apertura del dibattimento)
in cui la procedura deve essere attivata a pena di decadenza».
Il procedimento speciale introdotto nel 2014 - prosegue il
giudice a quo - si articola in una prima fase amministrativa,
condotta dall'ufficio di esecuzione penale esterna in funzione
istruttoria e preparatoria, in una fase giurisdizionale di cognizione
culminante nella formazione di un titolo esecutivo provvisorio
emesso, allo stato degli atti del fascicolo per il dibattimento, in
forma di ordinanza e in una fase di esecuzione penale culminante
nell'adozione di un provvedimento, emesso in forma di sentenza, «di
accertamento costitutivo della fattispecie giudiziale estintiva del
reato conseguentemente formatasi».
Peraltro l'istanza di messa alla prova comporta, da parte
dell'imputato, la sua «volontaria soggezione [...] alla esecuzione di
una pena criminale, quantunque morfologicamente strutturata in forma
alternativa e sostitutiva rispetto alle ordinarie sanzioni
[pecuniarie e/o detentive] previste dal codice penale». Si
tratterebbe, insomma, di «un trattamento giuridico sanzionatorio
penale (necessariamente) irrogato in funzione retributiva,
specialpreventiva, rieducativa e risocializzante nonche'
(eventualmente) irrogabile anche in funzione ripristinatoria e
riparatoria».
Ad avviso del rimettente la fattispecie della messa alla prova,
consistendo nell'offerta di una prestazione il cui adempimento
integra una causa di estinzione del reato, richiama quella
dell'oblazione, con la differenza, da un lato, che «la prestazione
offerta consiste (non nel mero versamento di una somma di denaro
predeterminata e/o obiettivamente determinabile, bensi') nella
soggezione dell'imputato a vincoli ablatori e conformativi della sua
sfera personale e patrimoniale la cui quantita' e qualita', lungi dal
recare alcuna predeterminazione normativa, deve essere determinata
dal giudice sulla base delle complesse valutazioni discrezionali di
merito finalizzate al cosiddetto trattamento»; dall'altro, che la
declaratoria dell'esito positivo della messa alla prova implica
«valutazioni di merito che trascendono di gran lunga la mera
ricognizione vincolata del dato obiettivo precostituito concernente
l'esatto adempimento di una mera dazione pecuniaria», si' da
rivestire efficacia costitutiva e non meramente dichiarativa
dell'estinzione del reato.
Ritenuto che la messa alla prova consiste in un «trattamento
sanzionatorio criminale il cui positivo esito applicativo darebbe
luogo alla causa di estinzione del reato», il giudice a quo osserva
come, secondo il vigente ordinamento processuale e costituzionale,
l'irrogazione di qualsiasi sanzione penale «postula l'indefettibile
presupposto del convincimento del giudice in ordine alla
responsabilita' dell'imputato in relazione» al reato per cui si
procede.
Cio' si desumerebbe dal tenore «dell'art. 168-bis, comma 2, c.p.,
che menziona le conseguenze "derivanti" dal reato: del quale, percio'
stesso, letteralmente si assume l'indefettibile esigenza che risulti
esaustivamente accertato non soltanto siccome commesso, ma
addirittura nei suoi eventuali effetti antigiuridici diacronicamente
persistenti; dalla stessa previsione dell'art. 464-quater, comma 3,
c.p.p., concernente la valutazione giurisdizionale della idoneita'
del "programma di trattamento" da compiersi "in base ai parametri di
cui all'art. 133 c.p.": tra i quali, come e' noto, figura anzitutto
la gravita' del reato che, percio' stesso, [si] presuppone accertato
non soltanto siccome commesso, ma anche siccome valutabile in tutte
le sue possibili concrete modalita' fenomenologiche descritte
dall'art. 133 c.p.»; nonche' «dalla stessa previsione dell'art.
464-quater, comma 3, c.p.p. che, infatti, menziona la prognosi del
giudice in ordine alla eventualita' che l'imputato si asterra' dal
commettere "ulteriori" reati: con cio' ancora una volta dando
letteralmente per scontati sia l'accertamento giurisdizionale del
reato per cui si procede, sia il correlato giudizio di
responsabilita'».
Per contro, nel procedimento con citazione diretta, in cui
l'istanza ex art. 464-bis cod. proc. pen. e' formulata nella fase
preliminare al dibattimento, la relativa procedura si svolge allo
stato degli atti del fascicolo del dibattimento, di modo che i dati
cognitivi in possesso del giudice risultano di regola largamente
insufficienti a fornire la plausibile rappresentazione del fatto
occorrente ai fini della formulazione di un giudizio positivo di
responsabilita'.
Di conseguenza l'ordinanza con cui il giudice del dibattimento
dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova si
tradurrebbe in un «un provvedimento giurisdizionale di irrogazione di
un trattamento giuridico di diritto penale criminale suscettibile di
essere pronunciato sul presupposto di un convincimento di
responsabilita' di carattere assurdo o simulatorio poiche' formulato
senza cognizione degli elementi occorrenti a stabilire se alcun fatto
sia avvenuto, come e da chi sia stato commesso e quale ne sia la
qualificazione giuridica».
L'art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen., «nella parte in cui
non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della cognizione
occorrente ad ogni decisione di merito da assumere nel [procedimento
speciale di messa alla prova], proceda alla acquisizione e
valutazione degli atti delle indagini preliminari, restituendoli per
l'ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla concessione o
sull'esito della messa alla prova», si porrebbe pertanto in contrasto
con l'art. 3 Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che le
enunciazioni risapute logicamente incongrue o simulatorie non possono
costituire presupposto o strumento di trattamenti giuridici».
Sarebbero violati, inoltre, l'art. 111, sesto comma, Cost., non
essendo assolto l'obbligo di motivazione, l'art. 25, secondo comma,
Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che la punizione
criminale puo' essere irrogata in ragione di un fatto previsto dalla
legge come reato e non della finzione radicata sul mero fatto
giuridico processuale concernente l'avvenuta contestazione del
medesimo», e infine l'art. 27, secondo comma, Cost., in quanto un
giudizio di responsabilita' dell'imputato che possa giustificare
l'irrogazione di una pena impone una «cognizione e valutazione del
fatto criminoso storicamente avverato».
Ad avviso del Tribunale rimettente inoltre, il giudice del
dibattimento non potrebbe emettere nessun giudizio in ordine
all'idoneita' o meno del programma di trattamento - che, secondo
l'art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen., deve essere effettuato
in base ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen. - in quanto
«ignora in tutto o in parte se, come e da chi sia stato commesso» il
reato oggetto di imputazione. Ancora una volta, insomma, il giudizio
formulato sarebbe «illogico e/o fittizio», essendo relativo a un
fatto storico ignoto.
Il giudice a quo ritiene poi non manifestamente infondata, con
riferimento al principio di determinatezza delle pene sancito dal
secondo comma dell'art. 25 Cost., la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 168-bis, secondo e terzo comma, cod. pen.
In particolare, ad avviso del rimettente, le norme censurate
prescriverebbero sanzioni indeterminate sul piano qualitativo, in
quanto il trattamento a cui l'imputato viene sottoposto potrebbe
risolversi in vincoli conformativi e ablatori della liberta'
personale di diversa intensita', implicanti, «per le loro concrete
determinazioni oggettuali e/o modali e/o temporali, [...] risultati
afflittivi e restrittivi della sfera giuridica dell'imputato di
intensita' paragonabile o magari anche superiore a quella delle
stesse pene edittali previste dalla legge in relazione al reato per
cui si procede».
L'indeterminatezza del trattamento applicabile in sede di messa
alla prova sussisterebbe anche sul piano quantitativo, ossia con
riferimento alla sua misura temporale.
Poiche' l'art. 168-bis, terzo comma, cod. pen. prevede che «il
lavoro di pubblica utilita' consiste in una prestazione [...] di
durata non inferiore a dieci giorni», il trattamento in cui consiste
la messa alla prova risulta «determinato soltanto in relazione alla
sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilita' nonche', per
quest'ultima, soltanto nella parametrazione legale minima (dieci
giorni); mentre in relazione alla misura alternativa dell'affidamento
al servizio sociale risulta totalmente carente di qualsiasi
determinazione legale».
Ne', ad avviso del giudice a quo, questa «indeterminatezza
legale» potrebbe essere colmata mediante il ricorso all'applicazione
analogica dell'art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen., che
stabilisce soltanto la durata massima della sospensione del
procedimento conseguente alla messa alla prova, o dell'art. 657-bis
cod. proc. pen., che stabilisce soltanto i criteri di ragguaglio
applicabili in sede di determinazione della pena da espiare nel caso
di esito negativo della prova. Cio', sia per difetto del presupposto
dell'eadem ratio, sia per il principio costituzionale di tassativita'
delle pene.
Peraltro, «facendosi riferimento all'art. 464-quater, comma 5,
c.p.p., l'imputato non potrebbe essere assoggettato ad un trattamento
di durata superiore ai due anni, ad onta di ogni possibile profilo di
gravita' del reato e di intensita' delle correlate esigenze di [...]
trattamento; mentre per converso, facendosi riferimento all'art.
657-bis c.p.p., si dovrebbe ammettere la ipotizzabilita' di sanzioni
di messa alla prova suscettibili di durata protratta per decenni».
L'ordinanza di rimessione censura anche l'art. 464-quater, comma
4, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede il consenso
dell'imputato quale condizione meramente potestativa di efficacia del
provvedimento giurisdizionale recante modificazione o integrazione
del programma di trattamento».
Qualora, nel verificare l'idoneita' del programma di trattamento
delineato dall'ufficio di esecuzione penale esterna, ritenga che lo
stesso non sia esaustivamente delineato (come nel caso di specie), o
comunque non lo condivida integralmente, il giudice puo' modificarlo
o integrarlo solamente con il consenso dell'imputato; percio' secondo
il Tribunale rimettente la norma censurata delinea «una fattispecie
processuale che contempla, in funzione di atto definitorio di una
subprocedura penale, (non alcuna decisione legalmente impugnabile
emessa dal giudice in ordine alle domande delle parti, bensi') la
decisione legalmente inoppugnabile emessa da una delle parti in
ordine alle determinazioni del giudice».
Cio' contrasterebbe con l'art. 101 Cost., in quanto «rimette alla
volonta' dell'imputato la capacita' sovrana di integrare la
condizione meramente potestativa cui resta indiscutibilmente
subordinato ogni profilo di efficacia formale ed utilita' sostanziale
del provvedimento giurisdizionale di messa alla prova nonche' [...]
dell'intera procedura gia' celebrata strumentalmente alla pronuncia
del medesimo».
Inoltre, la norma censurata violerebbe «i principi costituzionali
di buon andamento ed efficienza delle attivita' dei pubblici poteri
(art. 97 Cost.) [e] i principi di economicita' e ragionevole durata
del processo penale (art. 111 comma 2 Cost.)», nella misura in cui
stabilisce lo svolgimento di incombenti paragiudiziari e giudiziari
che, «senza riguardo al dispendio di tempi e risorse processuali
all'uopo occorrenti, [...] devono essere immediatamente disimpegnati
dai competenti pubblici uffici (prima l'ufficio esecuzione penale
esterna e poi il giudice procedente) per il solo fatto che ne faccia
richiesta la medesima parte processuale al cui mero insindacabile
beneplacito, contestualmente, si attribuisce anche la prerogativa di
deciderne a posteriori la sorte: ossia il potere di stabilire a
piacimento [se], una volta che tali attivita' abbiano avuto luogo,
[...] siano state compiute o meno soltanto a titolo di dissipazione
di tempi processuali e denari pubblici».
Da ultimo il giudice a quo ritiene non manifestamente infondate
le questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 464-quater e
464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto prevedono la irrogazione ed
espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata ne' di
regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».
Ritenendo che con l'ordinanza che dispone la messa alla prova
l'imputato venga assoggettato a una pena, l'ordinanza di rimessione
sottolinea come cio' avvenga «sempre e soltanto sulla base del mero
titolo esecutivo provvisorio», senza che sia intervenuta alcuna
pronuncia di condanna ancorche' non definitiva.
Peraltro se la prova ha esito positivo si ha una declaratoria
dell'estinzione del reato, che «elide in radice la stessa
possibilita' che alcuna condanna possa intervenire finanche dopo
cotale espiazione della pena».
Le norme censurate, quindi, violerebbero l'art. 27, secondo
comma, Cost., «poiche' stabiliscono non tanto una violazione, quanto
una radicale negazione della garanzia formale racchiusa nel principio
secondo cui l'imputato non puo' essere considerato e tantomeno
trattato come colpevole sino alla condanna penale definitiva», senza
che vi sia alcuna contrapposta «esigenz[a] di tutela di valori» di
dignita' costituzionale pari o superiore.
Ad avviso del Tribunale rimettente, non sarebbe possibile
un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme
censurate, le quali comporterebbero una serie di adempimenti formali,
che impegnano risorse e attivita' non inferiori a quelle occorrenti
per la celebrazione del giudizio ordinario, peraltro in funzione di
mere «utilita' erariali» (sfollamento penitenziario e deflazione
processuale).
Nonostante si possa «ammettere che il giudice, ogni qual volta i
dati cognitivi risultanti dal fascicolo del dibattimento [risultino]
insufficienti ai fini delle decisioni da adottare sul merito della
procedura di messa alla prova», debba procedere all'istruzione
dibattimentale «al solo scopo di assumere le prove occorrenti alla
decisione sulla istanza di messa alla prova e sulla idoneita' del
programma di trattamento», sarebbe contraddittoria la previsione di
un rito speciale alternativo al dibattimento che «comporta lo
svolgimento delle medesime attivita'».
Ugualmente insuscettibili di interpretazione conforme sarebbero
gli artt. 168-bis cod. pen. e 464-bis cod. proc. pen.
2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili e
comunque infondate.
L'Avvocatura dello Stato ha eccepito l'inammissibilita' della
prima questione perche' il Tribunale rimettente avrebbe omesso
«qualsiasi riferimento, nei vari casi sottoposti al suo vaglio, alla
effettiva necessita' di una integrazione degli atti del fascicolo del
dibattimento al fine di decidere». In particolare non sarebbero stati
indicati gli atti presenti nei fascicoli del dibattimento e le
«carenze cognitive che, in ognuna delle fattispecie concrete,
impedirebbero di valutare la responsabilita' per i fatti contestati».
L'ordinanza di rimessione non «argoment[erebbe] nemmeno circa
l'eventuale accordo delle parti all'acquisizione al fascicolo per il
dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero»,
che, se intervenuto, «sarebbe in se' sufficiente ad eliminare ogni
rilevanza alla questione di cui si tratta».
Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato anche la terza questione
sollevata sarebbe inammissibile per omessa motivazione in ordine alla
rilevanza nel giudizio a quo, in quanto l'ordinanza di rimessione non
conterrebbe indicazioni «riguardo all'intervenuta integrazione o
modifica del programma di trattamento ed alla consequenziale
manifestazione di consenso da parte dell'interessato».
Le questioni sarebbero inoltre inammissibili perche' il Tribunale
rimettente non ha previamente sperimentato un'interpretazione
costituzionalmente orientata.
Nel merito le questioni sarebbero infondate perche' se i dati
risultanti dal fascicolo del dibattimento fossero insufficienti il
giudice potrebbe procedere all'istruzione dibattimentale. Peraltro le
lacune lamentate dal rimettente potrebbero essere «colmate attraverso
l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel
fascicolo del pubblico ministero, ex articolo 431, comma 2, c.p.p.,
risultando quanto meno improbabile un interesse contrario delle
parti».
L'art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen. indica poi i
parametri ai quali il giudice deve attenersi nella valutazione della
idoneita' del programma di trattamento e della sua efficacia
riabilitativa e dissuasiva. E' sulla base di questo programma che il
giudice e' tenuto a stabilire «la durata della messa alla prova e il
termine entro il quale l'imputato [dovra'] adempiere alle
prescrizioni riparatorie e risarcitorie nonche' alla prestazione del
lavoro di pubblica utilita'».
Comunque la durata della messa alla prova e quindi delle relative
prescrizioni non puo' eccedere quella della sospensione del
procedimento ex art. 464-quater cod. proc. pen. e la durata minima
del lavoro di pubblica utilita' e' fissata dall'art. 168-bis cod.
pen.; inoltre il decreto del Ministro della giustizia 8 giugno 2015,
n. 88 (Regolamento recante disciplina delle convenzioni in materia di
pubblica utilita' ai fini della messa alla prova dell'imputato, ai
sensi dell'articolo 8 della legge 28 aprile 2014, n. 67) ha
specificato caratteristiche, requisiti e modalita' attuative del
lavoro di pubblica utilita'. Non vi sarebbero quindi «sanzioni penali
non legalmente determinabili» da applicare.
Infine l'Avvocatura dello Stato ha osservato che l'istituto della
messa alla prova, gia' sperimentato nel nostro ordinamento in ambito
minorile, persegue, accanto a scopi deflativi, una funzione
riparatoria e risocializzante, che presuppone «una convinta adesione
al programma da parte dell'imputato, la cui volonta' gioca un ruolo
decisivo in vista del positivo esito del percorso di trattamento. La
subordinazione dell'efficacia delle pronunce del giudice al consenso
dell'imputato trova, dunque, ampia giustificazione nell'esigenza di
attuare il principio costituzionale della finalita' rieducativa e di
reinserimento sociale della pena».
Considerato in diritto
1.- Con ordinanza del 16 dicembre 2016 (r.o. n. 81 del 2017), il
Tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo
comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater, comma 1, del codice
di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il giudice
del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente ad ogni
decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale di messa
alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle
indagini preliminari restituendoli per l'ulteriore corso in caso di
pronuncia negativa sulla concessione o sull'esito della messa alla
prova».
Con la medesima ordinanza il giudice a quo ha sollevato, in
riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost., una questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 168-bis, secondo e terzo comma,
del codice penale, «in quanto prevede la applicazione di sanzioni
penali non legalmente determinabili».
Il Tribunale rimettente dubita inoltre, in riferimento all'art.
27, secondo comma, Cost., della legittimita' costituzionale degli
artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto
prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che
risulti pronunciata ne' di regola pronunciabile alcuna condanna
definitiva o non definitiva».
Infine il Tribunale rimettente, in riferimento agli artt. 97, 101
e 111, secondo comma, Cost., ha sollevato anche questioni di
legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater, comma 4, cod. proc.
pen., «nella parte in cui prevede il consenso dell'imputato quale
condizione meramente potestativa di efficacia del provvedimento
giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di
trattamento».
2.- L'Avvocatura dello Stato ha eccepito l'inammissibilita' delle
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater, comma
1, cod. proc. pen., in quanto il Tribunale rimettente avrebbe omesso
«qualsiasi riferimento, nei vari casi sottoposti al suo vaglio, alla
effettiva necessita' di una integrazione degli atti del fascicolo del
dibattimento al fine di decidere». In particolare non sarebbero stati
indicati gli atti presenti nei fascicoli del dibattimento dei
procedimenti riuniti e le «carenze cognitive che, in ognuna delle
fattispecie concrete, impedirebbero di valutare la responsabilita'
per i fatti contestati».
L'ordinanza di rimessione, inoltre, non argomenterebbe «circa
l'eventuale accordo delle parti all'acquisizione al fascicolo per il
dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero»,
che, se intervenuto, «sarebbe in se' sufficiente ad eliminare ogni
rilevanza all[e] question[i] di cui si tratta».
L'eccezione non e' fondata.
Il giudice a quo infatti ha chiarito che «ciascuno dei fascicoli
per il dibattimento concernenti le fattispecie sostanziali dedotte
nei procedimenti penali presupposti, in ragione dello stadio
processuale in cui la procedura di messa alla prova e' stata attivata
[...] e della composizione del fascicolo legalmente prescritta in
tale stadio [...], non contiene la rappresentazione del benche'
minimo elemento di prova occorrente all'accertamento ed alla
valutazione, neppure in forma di delibazione sommaria, della
fondatezza dell'accusa sotto alcun profilo oggettivo e soggettivo».
Da qui l'impossibilita', a suo avviso, di stabilire «se [il] fatto
[contestato] sussista, con quante e quali modalita' di cui all'art.
133 c.p. sia stato commesso, da chi sia stato commesso, se
costituisca reato, se sia previsto dalla legge come reato ed infine
se, a quali condizioni e a quale titolo dia luogo ad un reato
punibile».
3.- Secondo l'Avvocatura generale dello Stato, anche le questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater, comma 4, cod.
proc. pen. sarebbero inammissibili per un difetto di motivazione
sulla rilevanza nel giudizio a quo, in quanto l'ordinanza di
rimessione non offrirebbe alcuna descrizione «riguardo
all'intervenuta integrazione o modifica del programma di trattamento
ed alla consequenziale manifestazione di consenso da parte
dell'interessato».
Anche questa eccezione e' priva di fondamento.
Il rimettente infatti ha chiarito che, nel caso di accoglimento
delle istanze di messa alla prova, dovrebbe procedere ad integrare i
programmi di trattamento presentati dagli imputati, cosi'
sottoponendo il relativo provvedimento alla «condizione sospensiva di
efficacia identificata nel "consenso dell'imputato"», dal momento che
nessuno di essi «contiene la determinazione quantitativa delle
sanzioni ivi prefigurate», essendo stati redatti in modo incompleto,
mediante la compilazione di un modulo.
L'ordinanza di rimessione quindi, al contrario di quanto
asserisce l'Avvocatura dello Stato, contiene un'adeguata motivazione
sulla lacunosita' dei programmi di trattamento e sulla necessita' di
una loro integrazione, consentendo cosi' a questa Corte il necessario
controllo sulla rilevanza delle questioni sollevate.
4.- Infine l'Avvocatura dello Stato ha sostenuto che le questioni
sollevate sono inammissibili anche perche' il Tribunale rimettente
non ha previamente sperimentato un'interpretazione costituzionalmente
orientata.
Con riferimento alle questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen. l'eccezione e'
fondata.
Il Tribunale rimettente ha censurato questa disposizione «nella
parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini
della cognizione occorrente ad ogni decisione di merito da assumere
nel [procedimento speciale di messa alla prova], proceda alla
acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari
restituendoli per l'ulteriore corso in caso di pronuncia negativa
sulla concessione o sull'esito della messa alla prova».
Nei casi oggetto dei procedimenti a quibus si procede con
citazione diretta e, poiche' la richiesta ex art. 464-bis cod. proc.
pen. deve essere formulata prima dell'apertura del dibattimento, il
Tribunale rimettente ha rilevato che i pochi atti contenuti nel
fascicolo per il dibattimento risultano largamente insufficienti a
fornire la plausibile rappresentazione del fatto occorrente ai fini
della formulazione di un giudizio positivo di responsabilita'. Di
conseguenza un'ordinanza di sospensione del procedimento con messa
alla prova pronunciata sulla base di quegli atti si tradurrebbe in
«un provvedimento giurisdizionale di irrogazione di un trattamento
giuridico di diritto penale criminale suscettibile di essere
pronunciato sul presupposto di un convincimento di responsabilita' di
carattere assurdo o simulatorio poiche' formulato senza cognizione
degli elementi occorrenti a stabilire se alcun fatto sia avvenuto,
come e da chi sia stato commesso e quale ne sia la qualificazione
giuridica».
La norma censurata si porrebbe pertanto in contrasto con l'art. 3
Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che le enunciazioni
risapute logicamente incongrue o simulatorie non possono costituire
presupposto o strumento di trattamenti giuridici».
Sarebbero violati inoltre l'art. 111, sesto comma, Cost., non
essendo assolto l'obbligo di motivazione, l'art. 25, secondo comma,
Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che la punizione
criminale puo' essere irrogata in ragione di un fatto previsto dalla
legge come reato e non della finzione radicata sul mero fatto
giuridico processuale concernente l'avvenuta contestazione del
medesimo», ed infine l'art. 27, secondo comma, Cost., in quanto il
giudizio di responsabilita' dell'imputato che possa giustificare
l'irrogazione di una pena impone una «cognizione e valutazione del
fatto criminoso storicamente avverato».
Cio' posto il Tribunale rimettente ha escluso di poter conferire
alla disposizione censurata un significato compatibile con i principi
costituzionali, in quanto cio' imporrebbe di «ammettere che il
giudice, ogni qual volta i dati cognitivi risultanti dal fascicolo
del dibattimento [risultino] insufficienti ai fini delle decisioni da
adottare sul merito della procedura di messa alla prova», proceda
all'istruzione dibattimentale «al solo scopo di assumere le prove
occorrenti alla decisione sull'istanza di messa alla prova e sulla
idoneita' del programma di trattamento». Pero' un simile modo di
operare sarebbe in contrasto con la ratio di un rito speciale
alternativo al dibattimento, perche' comporterebbe «lo svolgimento
delle medesime attivita'» dibattimentali e, quindi, frustrerebbe le
finalita' di deflazione processuale.
Percio' non sarebbe possibile dare alla disposizione
un'interpretazione costituzionalmente orientata.
Questa dunque e' la conclusione del giudice a quo, che pero' non
ha verificato compiutamente se, pur in assenza di una specifica
disposizione in tal senso, gli sia ugualmente consentito, ai soli
fini della decisione sulla richiesta di messa alla prova, prendere
visione degli atti del fascicolo del pubblico ministero. Egli infatti
non ha considerato l'art. 135 del decreto legislativo 28 luglio 1989,
n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale) e la possibilita' di una sua applicazione
analogica nel caso in esame.
Con riferimento al patteggiamento l'art. 135 norme att. cod.
proc. pen. stabilisce che «[il] giudice, per decidere sulla richiesta
di applicazione della pena rinnovata prima della dichiarazione di
apertura del dibattimento di primo grado, ordina l'esibizione degli
atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Se la richiesta
e' accolta, gli atti esibiti vengono inseriti nel fascicolo per il
dibattimento; altrimenti gli atti sono immediatamente restituiti al
pubblico ministero».
La giurisprudenza di legittimita' ha considerato questo articolo
applicabile in via analogica anche nel caso in cui l'imputato
rinnovi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, una
richiesta condizionata di giudizio abbreviato, gia' respinta dal
giudice per le indagini preliminari (Corte di cassazione, sezioni
unite penali, sentenza 27 ottobre 2004, n. 44711), e la dottrina ne
ha ritenuto l'applicabilita' anche nei casi di richiesta di un rito
speciale presentata nell'udienza di comparizione, a seguito di
citazione diretta ex art. 555 cod. proc. pen.; tra i riti speciali e'
ora compreso anche quello di messa alla prova.
Del resto gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero
sono di regola sottratti alla cognizione dibattimentale, ma se non si
deve procedere al dibattimento non c'e' ragione di impedirne la
conoscenza al giudice quando cio' e' necessario ai soli fini della
decisione su tale richiesta. Il fatto che cio' non sia espressamente
previsto non significa che sia vietato, sicche' anche sotto questo
aspetto puo' ritenersi che non occorra a tal fine una specifica
disposizione o, come e' stato sostenuto dal giudice a quo,
un'apposita pronuncia di illegittimita' costituzionale.
Deve quindi concludersi che il Tribunale rimettente non ha
compiuto un accurato esame delle opzioni interpretative rese
possibili dal contesto normativo in cui si colloca la norma
censurata.
Le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater,
comma 1, cod. proc. pen. sono allora inammissibili, perche' sono
state poste senza tenere conto della praticabilita' di
un'interpretazione costituzionalmente orientata, diversa da quella
prospettata e coerente con la cornice normativa in cui la norma si
colloca.
In base alla costante giurisprudenza costituzionale infatti lo
scrutinio nel merito della questione sollevata e' precluso dalla
mancata o inadeguata sperimentazione, da parte del giudice a quo,
della possibilita' di una soluzione interpretativa diversa da quella
posta a base dei prospettati dubbi di legittimita' costituzionale e
tale da determinare il loro superamento o da renderli comunque non
rilevanti nel procedimento a quo (sentenze n. 253 e n. 45 del 2017;
ordinanze n. 97 e n. 58 del 2017).
5.- Le altre questioni di legittimita' costituzionale sollevate
dall'ordinanza di rimessione non sono fondate.
6.- Hanno carattere logicamente pregiudiziale le questioni di
legittimita' costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies
cod. proc. pen., in riferimento all'art. 27, secondo comma, Cost.,
sollevate in quanto ad avviso del Tribunale rimettente le
disposizioni censurate «prevedono la irrogazione ed espiazione di
sanzioni penali senza che risulti pronunciata ne' di regola
pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».
Ritenendo che con il provvedimento che dispone la messa alla
prova l'imputato sia assoggettato a una pena, l'ordinanza di
rimessione sottolinea come cio' avvenga «sempre e soltanto sulla base
del mero titolo esecutivo provvisorio», senza che sia intervenuta
alcuna pronuncia di condanna ancorche' non definitiva. Percio' le
norme censurate violerebbero l'art. 27, secondo comma, Cost., visto
che «stabiliscono non tanto una violazione, quanto una radicale
negazione della garanzia formale racchiusa nel principio secondo cui
l'imputato non puo' essere considerato e tantomeno trattato come
colpevole sino alla condanna penale definitiva», senza che vi sia
alcuna contrapposta «esigenz[a] di tutela di valori» di dignita'
costituzionale pari o superiore.
In realta' pero' la situazione risultante dall'applicazione delle
norme in questione e' diversa.
Infatti, se e' vero che nel procedimento di messa alla prova
manca una condanna, e' anche vero che correlativamente manca
un'attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell'imputato e su sua
richiesta (non perche' e' considerato colpevole), in difetto di un
formale accertamento di responsabilita', viene disposto un
trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata nel
caso di un'eventuale condanna.
Con riferimento alla mancanza di un formale accertamento di
responsabilita' e di una specifica pronuncia di condanna, la
sospensione del procedimento con messa alla prova puo' essere
assimilata all'applicazione della pena su richiesta delle parti
(cosiddetto patteggiamento: art. 444 cod. proc. pen.), perche'
entrambi i riti speciali si basano sulla volonta' dell'imputato che,
non contestando l'accusa, in un caso si sottopone al trattamento e
nell'altro accetta la pena. Per queste caratteristiche anche il
patteggiamento e' stato sospettato di illegittimita' costituzionale,
sostenendosene il contrasto con la presunzione di non colpevolezza
contenuta nell'art. 27, secondo comma, Cost., ma questa Corte con
piu' decisioni ha ritenuto la questione priva di fondamento (sentenza
n. 313 del 1990; ordinanza n. 399 del 1997).
In particolare e' stato escluso che nel procedimento previsto
dall'art. 444 cod. proc. pen. «vi sia un sostanziale capovolgimento
dell'onere probatorio, contrastante con la presunzione d'innocenza
contenuta nell'art. 27, secondo comma, della Costituzione». In
effetti - ha aggiunto la Corte - nel nuovo ordinamento
giuridico-processuale «e' preponderante l'iniziativa delle parti nel
settore probatorio: ma cio' non immuta affatto i principi, nemmeno
nello speciale procedimento in esame, dove anzi il giudice e' in
primo luogo tenuto ad esaminare ex officio se sia gia' acquisita agli
atti la prova che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha
commesso. Dopodiche', risultando negativa questa prima verifica, se
l'imputato ritiene di possedere elementi per l'affermazione della
propria innocenza, nessuno lo obbliga a richiedere l'applicazione di
una pena, ed egli ha a disposizione le garanzie del rito ordinario.
In altri termini, chi chiede l'applicazione di una pena vuol dire che
rinuncia ad avvalersi della facolta' di contestare l'accusa, senza
che cio' significhi violazione del principio di presunzione
d'innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non
sia irrevocabile la sentenza» (sentenza n. 313 del 1990).
Invero la possibilita' di chiedere i riti speciali, e in
particolare il patteggiamento o la messa alla prova, costituisce,
come generalmente si ritiene, una delle facolta' difensive e appare
illogico considerare costituzionalmente illegittimi per la violazione
delle garanzie riconosciute all'imputato questi procedimenti che sono
diretti ad assicurargli un trattamento piu' vantaggioso di quello del
rito ordinario.
7.- Per giungere alla conclusione dell'infondatezza delle
questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 464-quater e
464-quinquies cod. proc. pen., in riferimento all'art. 27 Cost.,
sarebbe sufficiente richiamare gli argomenti gia' utilizzati da
questa Corte per decidere la questione relativa al patteggiamento,
per vari aspetti analoga. Tuttavia anche altri e assai consistenti
argomenti orientano in tal senso e valgono a dimostrare ulteriormente
l'infondatezza delle altre due questioni di legittimita'
costituzionale sollevate dal giudice a quo.
La messa alla prova, anche se puo' assimilarsi al patteggiamento
per la base consensuale del procedimento e del conseguente
trattamento, presenta aspetti che da questo la differenziano, al
punto, come si vedra', da non consentire un riferimento nei termini
tradizionali alle categorie costituzionali penali e processuali,
perche' il carattere innovativo della messa alla prova «segna un
ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio»
(Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 marzo 2016,
n. 36272).
Come hanno riconosciuto le sezioni unite della Corte di
cassazione, «[q]uesta nuova figura, di ispirazione anglosassone,
realizza una rinuncia statuale alla potesta' punitiva condizionata al
buon esito di un periodo di prova controllata e assistita e si
connota per una accentuata dimensione processuale, che la colloca
nell'ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio (Corte
cost., n. 240 del 2015). Ma di essa va riconosciuta, soprattutto, la
natura sostanziale. Da un lato, nuovo rito speciale, in cui
l'imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di
un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall'altro, istituto che
persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene
"infranta" la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione
del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (Cass., sez.
un., n. 36272 del 2016).
Da qui la differenza tra l'istituto in esame e il patteggiamento,
in quanto la sentenza che dispone l'applicazione della pena su
richiesta delle parti, «pur non potendo essere pienamente
identificata con una vera e propria sentenza di condanna (cfr.
sentenza n. 251 del 1991), e' tuttavia a questa "equiparata" ex art.
445 del codice di procedura penale» (ordinanza n. 73 del 1993) e
conduce all'irrogazione della pena prevista per il reato contestato,
anche se diminuita fino a un terzo, mentre l'esito positivo della
prova conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione
del reato.
Inoltre la sentenza di patteggiamento costituisce un titolo
esecutivo per l'applicazione di una sanzione tipicamente penale,
mentre l'ordinanza che dispone la sospensione del processo e ammette
l'imputato alla prova non costituisce un titolo per dare esecuzione
alle relative prescrizioni. Il trattamento programmato non e' infatti
una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma da' luogo a
un'attivita' rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da
parte dell'imputato, il quale liberamente puo' farla cessare con
l'unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso.
Si tratta di una caratteristica fondamentale, perche' viene
riservata alla volonta' dell'imputato non soltanto la decisione sulla
messa alla prova, ma anche la sua esecuzione.
In questa struttura procedimentale tuttavia non manca, in via
incidentale e allo stato degli atti (perche' l'accertamento
definitivo e' rimesso all'eventuale prosieguo del giudizio, nel caso
di esito negativo della prova), una considerazione della
responsabilita' dell'imputato, posto che il giudice, in base all'art.
464-quater, comma 1, cod. proc. pen., deve verificare che non
ricorrono le condizioni per «pronunciare sentenza di proscioglimento
a norma dell'articolo 129» cod. proc. pen., e anche a tale scopo puo'
esaminare gli atti del fascicolo del pubblico ministero, deve
valutare la richiesta dell'imputato, eventualmente disponendone la
comparizione (art. 464-quater, comma 2, cod. proc. pen.), e, se lo
ritiene necessario, puo' anche acquisire ulteriori informazioni, in
applicazione dell'art. 464-bis, comma 5, cod. proc. pen.
Cosi' ricostruite le caratteristiche del nuovo istituto, deve
concludersi che le questioni di legittimita' costituzionale degli
artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen. in riferimento
all'art. 27, secondo comma, Cost. sono prive di fondamento.
8.- Una terza questione di legittimita' costituzionale investe il
secondo e il terzo comma dell'art. 168-bis cod. pen., che
violerebbero l'art. 25, secondo comma, Cost., «nella parte in cui
sancisce il principio di tassativita' e determinatezza legale delle
pene», in quanto prescriverebbero sanzioni indeterminate sia sul
piano qualitativo, potendo il trattamento a cui l'imputato viene
sottoposto risolversi in vincoli conformativi e ablatori della
liberta' personale di diversa intensita', sia sul piano quantitativo,
ossia con riferimento alla sua misura temporale. Infatti, «nel
disegno legislativo che definisce il procedimento speciale [di messa
alla prova], le determinazioni qualitative e quantitative concernenti
il trattamento sanzionatorio penale applicabile [sarebbero] rimesse
alla libera scelta delle autorita' procedenti (prima l'ufficio locale
di esecuzione penale che predispone il programma di trattamento, e
poi il giudice che tale programma convalida o modifica)».
Quanto alla misura temporale degli elementi del trattamento, va
considerato che, anche se le norme censurate non lo specificano, la
durata massima del lavoro di pubblica utilita' «risulta
indirettamente dall'art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen.
perche', in mancanza di una sua diversa determinazione, corrisponde
necessariamente alla durata della sospensione del procedimento, la
quale non puo' essere: "a) superiore a due anni quando si procede per
reati per i quali e' prevista una pena detentiva, sola, congiunta o
alternativa alla pena pecuniaria; b) superiore a un anno quando si
procede per reati per i quali e' prevista la sola pena pecuniaria"»
(ordinanza n. 54 del 2017), e per determinare in concreto tale durata
il giudice «deve tenere conto dei criteri previsti dall'art. 133 cod.
pen. e delle caratteristiche che dovra' avere la prestazione
lavorativa» (ordinanza n. 54 del 2017).
Analoghe considerazioni valgono per la durata massima
dell'affidamento in prova al servizio sociale.
Quanto agli aspetti qualitativi va considerato che un programma
di trattamento per sua natura puo' essere determinato
legislativamente solo attraverso l'indicazione dei tipi di condotta
che ne possono formare oggetto, rimettendone la specificazione, come
infatti e' avvenuto, all'ufficio di esecuzione penale esterna e al
giudice, con il consenso dell'imputato.
Il trattamento per sua natura e' caratterizzato dalla finalita'
specialpreventiva e risocializzante che deve perseguire e deve
percio' essere ampiamente modulabile, tenendo conto della
personalita' dell'imputato e dei reati oggetto dell'imputazione,
sicche', considerata anche la sua base consensuale, non se ne puo'
prospettare l'insufficiente determinatezza in riferimento all'art.
25, secondo comma, Cost.
Come questa Corte ha gia' rilevato, «la normativa sulla
sospensione del procedimento con messa alla prova comporta una
diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del
programma di trattamento, con l'affidamento al giudice di "un
giudizio sull'idoneita' del programma, quindi sui contenuti dello
stesso, comprensivi sia della parte 'afflittiva' sia di quella
'rieducativa', in una valutazione complessiva circa la rispondenza
del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche
una prognosi di non recidiva" (Sezioni unite, 31 marzo 2016, n.
33216)» (ordinanza n. 54 del 2017).
Emerge percio' in modo chiaro l'inconferenza del riferimento
all'art. 25, secondo comma, Cost.
9.- Infine, secondo il giudice a quo l'art. 464-quater, comma 4,
cod. proc. pen. si porrebbe in contrasto con l'art. 101 Cost., in
quanto «rimette alla volonta' dell'imputato la capacita' sovrana di
integrare la condizione meramente potestativa cui resta
indiscutibilmente subordinato ogni profilo di efficacia formale ed
utilita' sostanziale del provvedimento giurisdizionale di messa alla
prova nonche' [...] dell'intera procedura gia' celebrata
strumentalmente alla pronuncia del medesimo».
La norma censurata contrasterebbe altresi' sia con «i principi
costituzionali di buon andamento ed efficienza delle attivita' dei
pubblici poteri (art. 97 Cost.) sia con i principi di economicita' e
ragionevole durata del processo penale (art. 111 comma 2 Cost.)»,
nella misura in cui stabilisce lo svolgimento di attivita'
paragiudiziarie e giudiziarie che, «senza riguardo al dispendio di
tempi e risorse processuali all'uopo occorrenti, [...] devono essere
immediatamente disimpegnat[e] dai competenti pubblici uffici (prima
l'ufficio esecuzione penale esterna e poi il giudice procedente) per
il solo fatto che ne faccia richiesta la medesima parte processuale
al cui mero insindacabile beneplacito, contestualmente, si
attribuisce anche la prerogativa di deciderne a posteriori la sorte:
ossia il potere di stabilire a piacimento [se], una volta che tali
attivita' abbiano avuto luogo, [...] siano state compiute o meno
soltanto a titolo di dissipazione di tempi processuali e denari
pubblici».
Si tratta ancora una volta di questioni non fondate.
Basandosi l'istituto della messa alla prova sulla richiesta
dell'imputato, che allega il programma di trattamento fatto elaborare
dall'ufficio di esecuzione penale esterna, e' evidente che ogni
integrazione o modificazione di questo programma ritenuta necessaria
dal giudice richiede il consenso dell'imputato.
Qualora infatti il giudice consideri il programma proposto
inidoneo a perseguire le finalita' del trattamento, l'imputato deve
poter scegliere se accettare le integrazioni o le modificazioni
indicate oppure proseguire il giudizio nelle forme ordinarie: cio'
non menoma le prerogative dell'autorita' giudiziaria e non integra
quindi la violazione dell'art. 101 Cost., dato che la facolta' e'
conforme al modello legale del procedimento.
Invero, come e' gia' stato rilevato da questa Corte, l'integrita'
delle attribuzioni costituzionali dell'autorita' giudiziaria «non e'
violata quando il legislatore ordinario non tocca la potesta' di
giudicare, ma opera sul piano generale ed astratto delle fonti,
costruendo il modello normativo cui la decisione del giudice deve
riferirsi (sentenze n. 170 del 2008 e n. 432 del 1997; ordinanza n.
263 del 2002)» (sentenza n. 303 del 2011).
Percio' con la disposizione censurata il legislatore non ha
violato la sfera riservata al potere giudiziario, perche',
subordinando le integrazioni e le modificazioni del programma di
trattamento al consenso dell'imputato, ha legittimamente ricollegato
l'accesso al procedimento speciale a un accadimento processuale (il
consenso, appunto) naturalmente rimesso a una parte del processo.
Anche con riferimento all'art. 97 Cost. la questione e'
infondata, data l'inconferenza del parametro evocato; infatti, per
costante giurisprudenza costituzionale, «il principio del buon
andamento e' riferibile all'amministrazione della giustizia soltanto
per quanto attiene all'organizzazione e al funzionamento degli uffici
giudiziari, non all'attivita' giurisdizionale in senso stretto»
(ordinanza n. 84 del 2011; in tal senso, sentenze n. 65 del 2014 e n.
272 del 2008; ordinanza n. 408 del 2008).
E' infine infondata anche la censura di violazione dell'art. 111,
secondo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata, oltre ad
essere funzionale alle peculiari caratteristiche dell'istituto in
esame, non comporta, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a
quo, alcun dispendio di tempi e risorse processuali. Il consenso
infatti e' richiesto per le integrazioni e le modificazioni che il
giudice ritenga di apportare prima della sospensione del procedimento
e dell'ammissione alla prova dell'imputato, e quindi prima che sia
svolta qualsivoglia attivita' processuale.
Peraltro, in relazione al principio di ragionevole durata del
processo, la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato
che - «alla luce dello stesso richiamo al connotato di
"ragionevolezza", che compare nella formula costituzionale - possono
arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme "che
comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da
alcuna logica esigenza" (ex plurimis, sentenze n. 23 del 2015, n. 63
e n. 56 del 2009, n. 148 del 2005)» (sentenza n. 12 del 2016). E non
e' questo il caso in esame, dato che la norma censurata e'
necessitata dalla struttura del rito speciale, che si basa sulla
volonta' dell'imputato ed e' diretto, tra l'altro, a semplificare il
procedimento, riducendone anche i tempi.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 464-quater, comma 1, del codice di procedura
penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25,
secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale
ordinario di Grosseto, con l'ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimita'
costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc.
pen., sollevate, in riferimento all'art. 27, secondo comma, Cost.,
dal medesimo Tribunale, con l'ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 168-bis, secondo e terzo comma, del codice
penale, sollevata, in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost.,
dal medesimo Tribunale, con l'ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen.,
sollevate, in riferimento agli artt. 97, 101 e 111, secondo comma,
Cost., dal medesimo Tribunale, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
e Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 aprile 2018.
Il Cancelliere
F.to: Filomena PERRONE
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento