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mercoledì 2 maggio 2018

N. 91 SENTENZA 21 febbraio - 27 aprile 2018 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato - Provvedimento del giudice ed effetti della pronuncia - Potere del giudice dibattimentale di acquisire e valutare gli atti delle indagini preliminari ai fini delle pertinenti decisioni - Disciplina del trattamento dell'imputato. - Codice di procedura penale, artt. 464-quater e 464-quinquies; codice penale, art. 168-bis, commi secondo e terzo. - (GU n.18 del 2-5-2018 )



N. 91 SENTENZA 21 febbraio - 27 aprile 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Processo penale - Sospensione del procedimento con messa  alla  prova
  dell'imputato  -  Provvedimento  del  giudice  ed   effetti   della
  pronuncia -  Potere  del  giudice  dibattimentale  di  acquisire  e
  valutare  gli  atti  delle  indagini  preliminari  ai  fini   delle
  pertinenti decisioni - Disciplina del trattamento dell'imputato.
- Codice di  procedura  penale,  artt.  464-quater  e  464-quinquies;
  codice penale, art. 168-bis, commi secondo e terzo.

(GU n.18 del 2-5-2018 )
 

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO,
     
    ha pronunciato la seguente

                              SENTENZA

    nel  giudizio  di   legittimita'   costituzionale   degli   artt.
464-quater, 464-quater, commi 1 e 4, e 464-quinquies, del  codice  di
procedura penale, e dell'art. 168-bis, commi  secondo  e  terzo,  del
codice penale, promosso dal  Tribunale  ordinario  di  Grosseto,  nel
procedimento penale a carico di S. A. e altri, con ordinanza  del  16
dicembre 2016, iscritta al  n.  81  del  registro  ordinanze  2017  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  23,  prima
serie speciale, dell'anno 2017.
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri;
    udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2018  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi.

                          Ritenuto in fatto

    1.- Con ordinanza del 16 dicembre 2016 (r.o. n. 81 del 2017),  il
Tribunale ordinario di  Grosseto,  in  composizione  monocratica,  ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo
comma,  e  27,  secondo  comma,  della  Costituzione,  questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater, comma 1, del codice
di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che  il  giudice
del  dibattimento,  ai  fini  della  cognizione  occorrente  ad  ogni
decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale  di  messa
alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle
indagini preliminari restituendoli per l'ulteriore corso in  caso  di
pronuncia negativa sulla concessione o sull'esito  della  messa  alla
prova».
    Con la medesima ordinanza, il giudice  a  quo  ha  sollevato,  in
riferimento all'art. 25,  secondo  comma,  Cost.,  una  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 168-bis, secondo e terzo comma,
del codice penale, «in quanto prevede  la  applicazione  di  sanzioni
penali non legalmente determinabili», nonche',  in  riferimento  agli
artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., questioni di  legittimita'
costituzionale dell'art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., «nella
parte in cui  prevede  il  consenso  dell'imputato  quale  condizione
meramente potestativa di efficacia del provvedimento  giurisdizionale
recante modificazione o integrazione del programma di trattamento».
    Il Tribunale  rimettente  ha  infine  sollevato,  in  riferimento
all'art.  27,  secondo  comma,  Cost.,  questioni   di   legittimita'
costituzionale degli artt.  464-quater  e  464-quinquies  cod.  proc.
pen., «in quanto prevedono la irrogazione ed espiazione  di  sanzioni
penali senza che risulti  pronunciata  ne'  di  regola  pronunciabile
alcuna condanna definitiva o non definitiva».
    Il giudice a quo premette di  aver  gia'  sollevato  le  medesime
questioni di legittimita' costituzionale con  tre  ordinanze  del  10
marzo 2015 di identico contenuto (r.o. n. 157, n. 158 e  n.  159  del
2015), questioni  che  sono  state  pero'  dichiarate  manifestamente
inammissibili con l'ordinanza n. 237 del 2016 di  questa  Corte,  per
insufficiente descrizione della fattispecie e, conseguentemente,  per
difetto di motivazione sulla loro rilevanza nei giudizi a quibus.
    «In ossequio ai dettami della Corte» e al fine  di  sopperire  ai
precedenti  profili  di  inammissibilita',  il  Tribunale  rimettente
chiarisce  di  essere  investito,  «in  funzione  di  giudice   della
cognizione in primo grado», di  sette  procedimenti  penali  riuniti,
indicando specificamente i reati per cui procede a carico di  ciascun
imputato e le condotte contestate.
    Il giudice a quo poi specifica di essere pervenuto  «allo  stadio
della pronuncia sul merito di ciascuna istanza di  messa  alla  prova
ritualmente  presentata»  dagli  imputati,  per  ognuno   dei   quali
sussistono i requisiti soggettivi  previsti  dall'art.  168-bis  cod.
pen., essendo  tutti  incensurati,  tranne  uno  «che,  tuttavia,  ha
riportato un mero e irrilevante precedente di cui all'art.  614  c.p.
risalente a quattordici anni addietro».
    Inoltre le istanze di sospensione del procedimento con messa alla
prova sarebbero state presentate nel «termine legalmente imposto»,  a
mezzo di difensore  munito  di  procura  speciale  e  con  tempestiva
allegazione del programma di trattamento elaborato  d'intesa  con  il
competente ufficio di esecuzione penale esterna.
    Dall'ordinanza  di  rimessione  emerge  pure  che  «ciascuno  dei
fascicoli per il dibattimento concernenti le fattispecie  sostanziali
dedotte nei procedimenti penali presupposti, in ragione dello  stadio
processuale in cui la procedura di messa alla prova e' stata attivata
[...] e della composizione del  fascicolo  legalmente  prescritta  in
tale stadio [...],  non  contiene  la  rappresentazione  del  benche'
minimo  elemento  di  prova  occorrente  all'accertamento   ed   alla
valutazione,  neppure  in  forma  di  delibazione   sommaria,   della
fondatezza dell'accusa sotto alcun profilo oggettivo  e  soggettivo».
Da qui l'impossibilita', per il giudice, di stabilire «se [il]  fatto
[contestato] sussista, con quante e quali modalita' di  cui  all'art.
133  c.p.  sia  stato  commesso,  da  chi  sia  stato  commesso,   se
costituisca reato, se sia previsto dalla legge come reato  ed  infine
se, a quali condizioni ed a  quale  titolo  dia  luogo  ad  un  reato
punibile».
    Cio'  renderebbe  le  prime  questioni  sollevate  rilevanti  nei
giudizi a quibus.
    Qualora si accogliessero le istanze di messa alla prova formulate
dagli imputati, il relativo  provvedimento,  secondo  il  rimettente,
dovrebbe stabilire «in forma precettiva la qualita' e soprattutto  la
quantita' di ciascuna delle due sanzioni criminali previste dall'art.
168 [recte: 168-bis] commi 2 e 3 c.p.» in violazione del principio di
legalita' della pena.  Ne  conseguirebbe  la  pregiudizialita'  della
seconda questione di legittimita' costituzionale sollevata.
    Inoltre, poiche' «nessuno dei programmi di trattamento presentati
[dagli  imputati]  contiene  la  determinazione  quantitativa   delle
sanzioni ivi prefigurate», essendo stati redatti in modo  incompleto,
mediante la compilazione di un modulo, nel caso di accoglimento delle
istanze di  messa  alla  prova,  il  giudice  dovrebbe  procedere  ad
integrarli,  cosi'  sottoponendo  il  relativo   provvedimento   alla
«condizione  sospensiva  di  efficacia  identificata  nel   "consenso
dell'imputato"».
    Egli infine si troverebbe a dover «sancire  l'espiazione  di  una
pena criminale in difetto di alcuna condanna sia definitiva, sia  non
definitiva».
    Da qui la rilevanza della  terza  e  della  quarta  questione  di
legittimita' costituzionale sollevate dall'ordinanza di rimessione.
    Ricostruita la disciplina dell'istituto della messa  alla  prova,
introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al  Governo  in
materia di pene detentive non carcerarie e  di  riforma  del  sistema
sanzionatorio.   Disposizioni   in   materia   di   sospensione   del
procedimento  con  messa   alla   prova   e   nei   confronti   degli
irreperibili), il Tribunale rimettente osserva  che  nel  caso,  come
quello in esame, in cui l'iniziativa dell'imputato  interviene  nella
fase degli  atti  preliminari  al  dibattimento  «[i]l  provvedimento
giurisdizionale di cognizione sul merito della istanza di messa  alla
prova e' pronunciato allo stato  degli  atti  del  fascicolo  per  il
dibattimento [quale] esso si  trova  nello  stadio  introduttivo  del
giudizio (antecedente la dichiarazione di apertura del  dibattimento)
in cui la procedura deve essere attivata a pena di decadenza».
    Il procedimento  speciale  introdotto  nel  2014  -  prosegue  il
giudice a quo  -  si  articola  in  una  prima  fase  amministrativa,
condotta  dall'ufficio  di  esecuzione  penale  esterna  in  funzione
istruttoria e preparatoria, in una fase giurisdizionale di cognizione
culminante  nella  formazione  di  un  titolo  esecutivo  provvisorio
emesso, allo stato degli atti del fascicolo per il  dibattimento,  in
forma di ordinanza e in una  fase  di  esecuzione  penale  culminante
nell'adozione di un provvedimento, emesso in forma di  sentenza,  «di
accertamento costitutivo della fattispecie giudiziale  estintiva  del
reato conseguentemente formatasi».
    Peraltro  l'istanza  di  messa  alla  prova  comporta,  da  parte
dell'imputato, la sua «volontaria soggezione [...] alla esecuzione di
una pena criminale, quantunque morfologicamente strutturata in  forma
alternativa  e   sostitutiva   rispetto   alle   ordinarie   sanzioni
[pecuniarie  e/o  detentive]  previste   dal   codice   penale».   Si
tratterebbe, insomma,  di  «un  trattamento  giuridico  sanzionatorio
penale   (necessariamente)   irrogato   in   funzione    retributiva,
specialpreventiva,    rieducativa    e    risocializzante     nonche'
(eventualmente)  irrogabile  anche  in  funzione  ripristinatoria   e
riparatoria».
    Ad avviso del rimettente la fattispecie della messa  alla  prova,
consistendo  nell'offerta  di  una  prestazione  il  cui  adempimento
integra  una  causa  di  estinzione  del   reato,   richiama   quella
dell'oblazione, con la differenza, da un lato,  che  «la  prestazione
offerta consiste (non nel mero versamento  di  una  somma  di  denaro
predeterminata  e/o  obiettivamente  determinabile,   bensi')   nella
soggezione dell'imputato a vincoli ablatori e conformativi della  sua
sfera personale e patrimoniale la cui quantita' e qualita', lungi dal
recare alcuna predeterminazione normativa,  deve  essere  determinata
dal giudice sulla base delle complesse valutazioni  discrezionali  di
merito finalizzate al cosiddetto  trattamento»;  dall'altro,  che  la
declaratoria dell'esito  positivo  della  messa  alla  prova  implica
«valutazioni  di  merito  che  trascendono  di  gran  lunga  la  mera
ricognizione vincolata del dato obiettivo  precostituito  concernente
l'esatto  adempimento  di  una  mera  dazione  pecuniaria»,  si'   da
rivestire  efficacia  costitutiva  e   non   meramente   dichiarativa
dell'estinzione del reato.
    Ritenuto che la messa alla  prova  consiste  in  un  «trattamento
sanzionatorio criminale il cui  positivo  esito  applicativo  darebbe
luogo alla causa di estinzione del reato», il giudice a  quo  osserva
come, secondo il vigente ordinamento  processuale  e  costituzionale,
l'irrogazione di qualsiasi sanzione penale  «postula  l'indefettibile
presupposto  del   convincimento   del   giudice   in   ordine   alla
responsabilita' dell'imputato in  relazione»  al  reato  per  cui  si
procede.
    Cio' si desumerebbe dal tenore «dell'art. 168-bis, comma 2, c.p.,
che menziona le conseguenze "derivanti" dal reato: del quale, percio'
stesso, letteralmente si assume l'indefettibile esigenza che  risulti
esaustivamente  accertato   non   soltanto   siccome   commesso,   ma
addirittura nei suoi eventuali effetti antigiuridici  diacronicamente
persistenti; dalla stessa previsione dell'art. 464-quater,  comma  3,
c.p.p., concernente la valutazione  giurisdizionale  della  idoneita'
del "programma di trattamento" da compiersi "in base ai parametri  di
cui all'art. 133 c.p.": tra i quali, come e' noto,  figura  anzitutto
la gravita' del reato che, percio' stesso, [si] presuppone  accertato
non soltanto siccome commesso, ma anche siccome valutabile  in  tutte
le  sue  possibili  concrete  modalita'   fenomenologiche   descritte
dall'art. 133  c.p.»;  nonche'  «dalla  stessa  previsione  dell'art.
464-quater, comma 3, c.p.p. che, infatti, menziona  la  prognosi  del
giudice in ordine alla eventualita' che l'imputato  si  asterra'  dal
commettere  "ulteriori"  reati:  con  cio'  ancora  una  volta  dando
letteralmente per scontati  sia  l'accertamento  giurisdizionale  del
reato  per  cui  si   procede,   sia   il   correlato   giudizio   di
responsabilita'».
    Per contro,  nel  procedimento  con  citazione  diretta,  in  cui
l'istanza ex art. 464-bis cod. proc. pen.  e'  formulata  nella  fase
preliminare al dibattimento, la relativa  procedura  si  svolge  allo
stato degli atti del fascicolo del dibattimento, di modo che  i  dati
cognitivi in possesso del  giudice  risultano  di  regola  largamente
insufficienti a fornire  la  plausibile  rappresentazione  del  fatto
occorrente ai fini della formulazione  di  un  giudizio  positivo  di
responsabilita'.
    Di conseguenza l'ordinanza con cui il  giudice  del  dibattimento
dispone la sospensione del  procedimento  con  messa  alla  prova  si
tradurrebbe in un «un provvedimento giurisdizionale di irrogazione di
un trattamento giuridico di diritto penale criminale suscettibile  di
essere  pronunciato  sul   presupposto   di   un   convincimento   di
responsabilita' di carattere assurdo o simulatorio poiche'  formulato
senza cognizione degli elementi occorrenti a stabilire se alcun fatto
sia avvenuto, come e da chi sia stato commesso  e  quale  ne  sia  la
qualificazione giuridica».
    L'art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen., «nella parte in  cui
non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della cognizione
occorrente ad ogni decisione di merito da assumere nel  [procedimento
speciale  di  messa  alla  prova],  proceda   alla   acquisizione   e
valutazione degli atti delle indagini preliminari, restituendoli  per
l'ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla  concessione  o
sull'esito della messa alla prova», si porrebbe pertanto in contrasto
con l'art. 3 Cost., «alla stregua del quale  deve  ritenersi  che  le
enunciazioni risapute logicamente incongrue o simulatorie non possono
costituire presupposto o strumento di trattamenti giuridici».
    Sarebbero violati, inoltre, l'art. 111, sesto comma,  Cost.,  non
essendo assolto l'obbligo di motivazione, l'art. 25,  secondo  comma,
Cost., «alla stregua  del  quale  deve  ritenersi  che  la  punizione
criminale puo' essere irrogata in ragione di un fatto previsto  dalla
legge come reato  e  non  della  finzione  radicata  sul  mero  fatto
giuridico  processuale  concernente  l'avvenuta   contestazione   del
medesimo», e infine l'art. 27, secondo comma,  Cost.,  in  quanto  un
giudizio di  responsabilita'  dell'imputato  che  possa  giustificare
l'irrogazione di una pena impone una «cognizione  e  valutazione  del
fatto criminoso storicamente avverato».
    Ad avviso  del  Tribunale  rimettente  inoltre,  il  giudice  del
dibattimento  non  potrebbe  emettere  nessun  giudizio   in   ordine
all'idoneita' o meno del programma  di  trattamento  -  che,  secondo
l'art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen., deve  essere  effettuato
in base ai parametri di cui  all'art.  133  cod.  pen.  -  in  quanto
«ignora in tutto o in parte se, come e da chi sia stato commesso»  il
reato oggetto di imputazione. Ancora una volta, insomma, il  giudizio
formulato sarebbe «illogico e/o  fittizio»,  essendo  relativo  a  un
fatto storico ignoto.
    Il giudice a quo ritiene poi non  manifestamente  infondata,  con
riferimento al principio di determinatezza  delle  pene  sancito  dal
secondo comma  dell'art.  25  Cost.,  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 168-bis, secondo e terzo comma, cod. pen.
    In particolare, ad avviso  del  rimettente,  le  norme  censurate
prescriverebbero sanzioni indeterminate  sul  piano  qualitativo,  in
quanto il trattamento a  cui  l'imputato  viene  sottoposto  potrebbe
risolversi  in  vincoli  conformativi  e  ablatori   della   liberta'
personale di diversa intensita', implicanti, «per  le  loro  concrete
determinazioni oggettuali e/o modali e/o temporali,  [...]  risultati
afflittivi e  restrittivi  della  sfera  giuridica  dell'imputato  di
intensita' paragonabile o  magari  anche  superiore  a  quella  delle
stesse pene edittali previste dalla legge in relazione al  reato  per
cui si procede».
    L'indeterminatezza del trattamento applicabile in sede  di  messa
alla prova sussisterebbe anche  sul  piano  quantitativo,  ossia  con
riferimento alla sua misura temporale.
    Poiche' l'art. 168-bis, terzo comma, cod. pen.  prevede  che  «il
lavoro di pubblica utilita' consiste  in  una  prestazione  [...]  di
durata non inferiore a dieci giorni», il trattamento in cui  consiste
la messa alla prova risulta «determinato soltanto in  relazione  alla
sanzione sostitutiva del lavoro di  pubblica  utilita'  nonche',  per
quest'ultima, soltanto  nella  parametrazione  legale  minima  (dieci
giorni); mentre in relazione alla misura alternativa dell'affidamento
al  servizio  sociale  risulta  totalmente   carente   di   qualsiasi
determinazione legale».
    Ne', ad  avviso  del  giudice  a  quo,  questa  «indeterminatezza
legale» potrebbe essere colmata mediante il ricorso  all'applicazione
analogica  dell'art.  464-quater,  comma  5,  cod.  proc.  pen.,  che
stabilisce  soltanto  la  durata  massima   della   sospensione   del
procedimento conseguente alla messa alla prova, o  dell'art.  657-bis
cod. proc. pen., che stabilisce  soltanto  i  criteri  di  ragguaglio
applicabili in sede di determinazione della pena da espiare nel  caso
di esito negativo della prova. Cio', sia per difetto del  presupposto
dell'eadem ratio, sia per il principio costituzionale di tassativita'
delle pene.
    Peraltro, «facendosi riferimento all'art.  464-quater,  comma  5,
c.p.p., l'imputato non potrebbe essere assoggettato ad un trattamento
di durata superiore ai due anni, ad onta di ogni possibile profilo di
gravita' del reato e di intensita' delle correlate esigenze di  [...]
trattamento; mentre  per  converso,  facendosi  riferimento  all'art.
657-bis c.p.p., si dovrebbe ammettere la ipotizzabilita' di  sanzioni
di messa alla prova suscettibili di durata protratta per decenni».
    L'ordinanza di rimessione censura anche l'art. 464-quater,  comma
4,  cod.  proc.  pen.,  «nella  parte  in  cui  prevede  il  consenso
dell'imputato quale condizione meramente potestativa di efficacia del
provvedimento giurisdizionale recante  modificazione  o  integrazione
del programma di trattamento».
    Qualora, nel verificare l'idoneita' del programma di  trattamento
delineato dall'ufficio di esecuzione penale esterna, ritenga  che  lo
stesso non sia esaustivamente delineato (come nel caso di specie),  o
comunque non lo condivida integralmente, il giudice puo'  modificarlo
o integrarlo solamente con il consenso dell'imputato; percio' secondo
il Tribunale rimettente la norma censurata delinea  «una  fattispecie
processuale che contempla, in funzione di  atto  definitorio  di  una
subprocedura penale, (non  alcuna  decisione  legalmente  impugnabile
emessa dal giudice in ordine alle domande  delle  parti,  bensi')  la
decisione legalmente inoppugnabile  emessa  da  una  delle  parti  in
ordine alle determinazioni del giudice».
    Cio' contrasterebbe con l'art. 101 Cost., in quanto «rimette alla
volonta'  dell'imputato  la  capacita'  sovrana   di   integrare   la
condizione  meramente   potestativa   cui   resta   indiscutibilmente
subordinato ogni profilo di efficacia formale ed utilita' sostanziale
del provvedimento giurisdizionale di messa alla prova  nonche'  [...]
dell'intera procedura gia' celebrata strumentalmente  alla  pronuncia
del medesimo».
    Inoltre, la norma censurata violerebbe «i principi costituzionali
di buon andamento ed efficienza delle attivita' dei  pubblici  poteri
(art. 97 Cost.) [e] i principi di economicita' e  ragionevole  durata
del processo penale (art. 111 comma 2 Cost.)», nella  misura  in  cui
stabilisce lo svolgimento di incombenti paragiudiziari  e  giudiziari
che, «senza riguardo al dispendio  di  tempi  e  risorse  processuali
all'uopo occorrenti, [...] devono essere immediatamente  disimpegnati
dai competenti pubblici uffici  (prima  l'ufficio  esecuzione  penale
esterna e poi il giudice procedente) per il solo fatto che ne  faccia
richiesta la medesima parte processuale  al  cui  mero  insindacabile
beneplacito, contestualmente, si attribuisce anche la prerogativa  di
deciderne a posteriori la sorte:  ossia  il  potere  di  stabilire  a
piacimento [se], una volta che tali attivita'  abbiano  avuto  luogo,
[...] siano state compiute o meno soltanto a titolo  di  dissipazione
di tempi processuali e denari pubblici».
    Da ultimo il giudice a quo ritiene non  manifestamente  infondate
le questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 464-quater  e
464-quinquies cod. proc. pen., «in quanto prevedono la irrogazione ed
espiazione di sanzioni penali senza che risulti  pronunciata  ne'  di
regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».
    Ritenendo che con l'ordinanza che dispone  la  messa  alla  prova
l'imputato venga assoggettato a una pena, l'ordinanza  di  rimessione
sottolinea come cio' avvenga «sempre e soltanto sulla base  del  mero
titolo esecutivo  provvisorio»,  senza  che  sia  intervenuta  alcuna
pronuncia di condanna ancorche' non definitiva.
    Peraltro se la prova ha esito positivo  si  ha  una  declaratoria
dell'estinzione  del  reato,  che  «elide   in   radice   la   stessa
possibilita' che alcuna  condanna  possa  intervenire  finanche  dopo
cotale espiazione della pena».
    Le norme  censurate,  quindi,  violerebbero  l'art.  27,  secondo
comma, Cost., «poiche' stabiliscono non tanto una violazione,  quanto
una radicale negazione della garanzia formale racchiusa nel principio
secondo cui  l'imputato  non  puo'  essere  considerato  e  tantomeno
trattato come colpevole sino alla condanna penale definitiva»,  senza
che vi sia alcuna contrapposta «esigenz[a] di tutela  di  valori»  di
dignita' costituzionale pari o superiore.
    Ad  avviso  del  Tribunale  rimettente,  non  sarebbe   possibile
un'interpretazione   costituzionalmente   orientata    delle    norme
censurate, le quali comporterebbero una serie di adempimenti formali,
che impegnano risorse e attivita' non inferiori a  quelle  occorrenti
per la celebrazione del giudizio ordinario, peraltro in  funzione  di
mere «utilita'  erariali»  (sfollamento  penitenziario  e  deflazione
processuale).
    Nonostante si possa «ammettere che il giudice, ogni qual volta  i
dati cognitivi risultanti dal fascicolo del dibattimento  [risultino]
insufficienti ai fini delle decisioni da adottare  sul  merito  della
procedura  di  messa  alla  prova»,  debba  procedere  all'istruzione
dibattimentale «al solo scopo di assumere le  prove  occorrenti  alla
decisione sulla istanza di messa alla prova  e  sulla  idoneita'  del
programma di trattamento», sarebbe contraddittoria la  previsione  di
un  rito  speciale  alternativo  al  dibattimento  che  «comporta  lo
svolgimento delle medesime attivita'».
    Ugualmente insuscettibili di interpretazione  conforme  sarebbero
gli artt. 168-bis cod. pen. e 464-bis cod. proc. pen.
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili e
comunque infondate.
    L'Avvocatura dello Stato  ha  eccepito  l'inammissibilita'  della
prima  questione  perche'  il  Tribunale  rimettente  avrebbe  omesso
«qualsiasi riferimento, nei vari casi sottoposti al suo vaglio,  alla
effettiva necessita' di una integrazione degli atti del fascicolo del
dibattimento al fine di decidere». In particolare non sarebbero stati
indicati gli atti  presenti  nei  fascicoli  del  dibattimento  e  le
«carenze  cognitive  che,  in  ognuna  delle  fattispecie   concrete,
impedirebbero di valutare la responsabilita' per i fatti contestati».
    L'ordinanza di rimessione  non  «argoment[erebbe]  nemmeno  circa
l'eventuale accordo delle parti all'acquisizione al fascicolo per  il
dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero»,
che, se intervenuto, «sarebbe in se' sufficiente  ad  eliminare  ogni
rilevanza alla questione di cui si tratta».
    Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato anche  la  terza  questione
sollevata sarebbe inammissibile per omessa motivazione in ordine alla
rilevanza nel giudizio a quo, in quanto l'ordinanza di rimessione non
conterrebbe  indicazioni  «riguardo  all'intervenuta  integrazione  o
modifica  del  programma  di  trattamento  ed   alla   consequenziale
manifestazione di consenso da parte dell'interessato».
    Le questioni sarebbero inoltre inammissibili perche' il Tribunale
rimettente  non  ha   previamente   sperimentato   un'interpretazione
costituzionalmente orientata.
    Nel merito le questioni sarebbero infondate  perche'  se  i  dati
risultanti dal fascicolo del dibattimento  fossero  insufficienti  il
giudice potrebbe procedere all'istruzione dibattimentale. Peraltro le
lacune lamentate dal rimettente potrebbero essere «colmate attraverso
l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel
fascicolo del pubblico ministero, ex articolo 431, comma  2,  c.p.p.,
risultando quanto  meno  improbabile  un  interesse  contrario  delle
parti».
    L'art.  464-quater,  comma  3,  cod.  proc.  pen.  indica  poi  i
parametri ai quali il giudice deve attenersi nella valutazione  della
idoneita'  del  programma  di  trattamento  e  della  sua   efficacia
riabilitativa e dissuasiva. E' sulla base di questo programma che  il
giudice e' tenuto a stabilire «la durata della messa alla prova e  il
termine  entro  il   quale   l'imputato   [dovra']   adempiere   alle
prescrizioni riparatorie e risarcitorie nonche' alla prestazione  del
lavoro di pubblica utilita'».
    Comunque la durata della messa alla prova e quindi delle relative
prescrizioni  non  puo'  eccedere  quella   della   sospensione   del
procedimento ex art. 464-quater cod. proc. pen. e  la  durata  minima
del lavoro di pubblica utilita' e'  fissata  dall'art.  168-bis  cod.
pen.; inoltre il decreto del Ministro della giustizia 8 giugno  2015,
n. 88 (Regolamento recante disciplina delle convenzioni in materia di
pubblica utilita' ai fini della messa alla  prova  dell'imputato,  ai
sensi  dell'articolo  8  della  legge  28  aprile  2014,  n.  67)  ha
specificato caratteristiche,  requisiti  e  modalita'  attuative  del
lavoro di pubblica utilita'. Non vi sarebbero quindi «sanzioni penali
non legalmente determinabili» da applicare.
    Infine l'Avvocatura dello Stato ha osservato che l'istituto della
messa alla prova, gia' sperimentato nel nostro ordinamento in  ambito
minorile,  persegue,  accanto  a  scopi   deflativi,   una   funzione
riparatoria e risocializzante, che presuppone «una convinta  adesione
al programma da parte dell'imputato, la cui volonta' gioca  un  ruolo
decisivo in vista del positivo esito del percorso di trattamento.  La
subordinazione dell'efficacia delle pronunce del giudice al  consenso
dell'imputato trova, dunque, ampia giustificazione  nell'esigenza  di
attuare il principio costituzionale della finalita' rieducativa e  di
reinserimento sociale della pena».

                       Considerato in diritto

    1.- Con ordinanza del 16 dicembre 2016 (r.o. n. 81 del 2017),  il
Tribunale ordinario di  Grosseto,  in  composizione  monocratica,  ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo
comma,  e  27,  secondo  comma,  della  Costituzione,  questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater, comma 1, del codice
di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che  il  giudice
del  dibattimento,  ai  fini  della  cognizione  occorrente  ad  ogni
decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale  di  messa
alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle
indagini preliminari restituendoli per l'ulteriore corso in  caso  di
pronuncia negativa sulla concessione o sull'esito  della  messa  alla
prova».
    Con la medesima ordinanza il  giudice  a  quo  ha  sollevato,  in
riferimento all'art. 25,  secondo  comma,  Cost.,  una  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 168-bis, secondo e terzo comma,
del codice penale, «in quanto prevede  la  applicazione  di  sanzioni
penali non legalmente determinabili».
    Il Tribunale rimettente dubita inoltre, in  riferimento  all'art.
27, secondo comma, Cost.,  della  legittimita'  costituzionale  degli
artt.  464-quater  e  464-quinquies  cod.  proc.  pen.,  «in   quanto
prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali  senza  che
risulti pronunciata  ne'  di  regola  pronunciabile  alcuna  condanna
definitiva o non definitiva».
    Infine il Tribunale rimettente, in riferimento agli artt. 97, 101
e  111,  secondo  comma,  Cost.,  ha  sollevato  anche  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater, comma 4, cod. proc.
pen., «nella parte in cui prevede  il  consenso  dell'imputato  quale
condizione  meramente  potestativa  di  efficacia  del  provvedimento
giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di
trattamento».
    2.- L'Avvocatura dello Stato ha eccepito l'inammissibilita' delle
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater,  comma
1, cod. proc. pen., in quanto il Tribunale rimettente avrebbe  omesso
«qualsiasi riferimento, nei vari casi sottoposti al suo vaglio,  alla
effettiva necessita' di una integrazione degli atti del fascicolo del
dibattimento al fine di decidere». In particolare non sarebbero stati
indicati  gli  atti  presenti  nei  fascicoli  del  dibattimento  dei
procedimenti riuniti e le «carenze cognitive  che,  in  ognuna  delle
fattispecie concrete, impedirebbero di  valutare  la  responsabilita'
per i fatti contestati».
    L'ordinanza di rimessione,  inoltre,  non  argomenterebbe  «circa
l'eventuale accordo delle parti all'acquisizione al fascicolo per  il
dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero»,
che, se intervenuto, «sarebbe in se' sufficiente  ad  eliminare  ogni
rilevanza all[e] question[i] di cui si tratta».
    L'eccezione non e' fondata.
    Il giudice a quo infatti ha chiarito che «ciascuno dei  fascicoli
per il dibattimento concernenti le  fattispecie  sostanziali  dedotte
nei  procedimenti  penali  presupposti,  in  ragione   dello   stadio
processuale in cui la procedura di messa alla prova e' stata attivata
[...] e della composizione del  fascicolo  legalmente  prescritta  in
tale stadio [...],  non  contiene  la  rappresentazione  del  benche'
minimo  elemento  di  prova  occorrente  all'accertamento   ed   alla
valutazione,  neppure  in  forma  di  delibazione   sommaria,   della
fondatezza dell'accusa sotto alcun profilo oggettivo  e  soggettivo».
Da qui l'impossibilita', a suo avviso, di stabilire  «se  [il]  fatto
[contestato] sussista, con quante e quali modalita' di  cui  all'art.
133  c.p.  sia  stato  commesso,  da  chi  sia  stato  commesso,   se
costituisca reato, se sia previsto dalla legge come reato  ed  infine
se, a quali condizioni e  a  quale  titolo  dia  luogo  ad  un  reato
punibile».
    3.- Secondo l'Avvocatura generale dello Stato, anche le questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater,  comma  4,  cod.
proc. pen. sarebbero inammissibili  per  un  difetto  di  motivazione
sulla  rilevanza  nel  giudizio  a  quo,  in  quanto  l'ordinanza  di
rimessione    non    offrirebbe    alcuna    descrizione    «riguardo
all'intervenuta integrazione o modifica del programma di  trattamento
ed  alla  consequenziale  manifestazione   di   consenso   da   parte
dell'interessato».
    Anche questa eccezione e' priva di fondamento.
    Il rimettente infatti ha chiarito che, nel caso  di  accoglimento
delle istanze di messa alla prova, dovrebbe procedere ad integrare  i
programmi   di   trattamento   presentati   dagli   imputati,   cosi'
sottoponendo il relativo provvedimento alla «condizione sospensiva di
efficacia identificata nel "consenso dell'imputato"», dal momento che
nessuno  di  essi  «contiene  la  determinazione  quantitativa  delle
sanzioni ivi prefigurate», essendo stati redatti in modo  incompleto,
mediante la compilazione di un modulo.
    L'ordinanza  di  rimessione  quindi,  al  contrario   di   quanto
asserisce l'Avvocatura dello Stato, contiene un'adeguata  motivazione
sulla lacunosita' dei programmi di trattamento e sulla necessita'  di
una loro integrazione, consentendo cosi' a questa Corte il necessario
controllo sulla rilevanza delle questioni sollevate.
    4.- Infine l'Avvocatura dello Stato ha sostenuto che le questioni
sollevate sono inammissibili anche perche'  il  Tribunale  rimettente
non ha previamente sperimentato un'interpretazione costituzionalmente
orientata.
    Con riferimento alle  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art.  464-quater,  comma  1,  cod.  proc.  pen.  l'eccezione  e'
fondata.
    Il Tribunale rimettente ha censurato questa  disposizione  «nella
parte in cui non prevede che il giudice  del  dibattimento,  ai  fini
della cognizione occorrente ad ogni decisione di merito  da  assumere
nel  [procedimento  speciale  di  messa  alla  prova],  proceda  alla
acquisizione e valutazione  degli  atti  delle  indagini  preliminari
restituendoli per l'ulteriore corso in  caso  di  pronuncia  negativa
sulla concessione o sull'esito della messa alla prova».
    Nei casi  oggetto  dei  procedimenti  a  quibus  si  procede  con
citazione diretta e, poiche' la richiesta ex art. 464-bis cod.  proc.
pen. deve essere formulata prima dell'apertura del  dibattimento,  il
Tribunale rimettente ha rilevato  che  i  pochi  atti  contenuti  nel
fascicolo per il dibattimento risultano  largamente  insufficienti  a
fornire la plausibile rappresentazione del fatto occorrente  ai  fini
della formulazione di un giudizio  positivo  di  responsabilita'.  Di
conseguenza un'ordinanza di sospensione del  procedimento  con  messa
alla prova pronunciata sulla base di quegli atti  si  tradurrebbe  in
«un provvedimento giurisdizionale di irrogazione  di  un  trattamento
giuridico  di  diritto  penale  criminale  suscettibile   di   essere
pronunciato sul presupposto di un convincimento di responsabilita' di
carattere assurdo o simulatorio poiche'  formulato  senza  cognizione
degli elementi occorrenti a stabilire se alcun  fatto  sia  avvenuto,
come e da chi sia stato commesso e quale  ne  sia  la  qualificazione
giuridica».
    La norma censurata si porrebbe pertanto in contrasto con l'art. 3
Cost., «alla stregua del quale deve  ritenersi  che  le  enunciazioni
risapute logicamente incongrue o simulatorie non  possono  costituire
presupposto o strumento di trattamenti giuridici».
    Sarebbero violati inoltre l'art. 111,  sesto  comma,  Cost.,  non
essendo assolto l'obbligo di motivazione, l'art. 25,  secondo  comma,
Cost., «alla stregua  del  quale  deve  ritenersi  che  la  punizione
criminale puo' essere irrogata in ragione di un fatto previsto  dalla
legge come reato  e  non  della  finzione  radicata  sul  mero  fatto
giuridico  processuale  concernente  l'avvenuta   contestazione   del
medesimo», ed infine l'art. 27, secondo comma, Cost.,  in  quanto  il
giudizio di  responsabilita'  dell'imputato  che  possa  giustificare
l'irrogazione di una pena impone una «cognizione  e  valutazione  del
fatto criminoso storicamente avverato».
    Cio' posto il Tribunale rimettente ha escluso di poter  conferire
alla disposizione censurata un significato compatibile con i principi
costituzionali, in  quanto  cio'  imporrebbe  di  «ammettere  che  il
giudice, ogni qual volta i dati cognitivi  risultanti  dal  fascicolo
del dibattimento [risultino] insufficienti ai fini delle decisioni da
adottare sul merito della procedura di  messa  alla  prova»,  proceda
all'istruzione dibattimentale «al solo scopo  di  assumere  le  prove
occorrenti alla decisione sull'istanza di messa alla  prova  e  sulla
idoneita' del programma di trattamento».  Pero'  un  simile  modo  di
operare sarebbe in  contrasto  con  la  ratio  di  un  rito  speciale
alternativo al dibattimento, perche'  comporterebbe  «lo  svolgimento
delle medesime attivita'» dibattimentali e, quindi,  frustrerebbe  le
finalita' di deflazione processuale.
    Percio'   non   sarebbe   possibile   dare   alla    disposizione
un'interpretazione costituzionalmente orientata.
    Questa dunque e' la conclusione del giudice a quo, che pero'  non
ha verificato compiutamente se,  pur  in  assenza  di  una  specifica
disposizione in tal senso, gli sia  ugualmente  consentito,  ai  soli
fini della decisione sulla richiesta di messa  alla  prova,  prendere
visione degli atti del fascicolo del pubblico ministero. Egli infatti
non ha considerato l'art. 135 del decreto legislativo 28 luglio 1989,
n. 271 (Norme di  attuazione,  di  coordinamento  e  transitorie  del
codice di procedura penale) e la possibilita' di una sua applicazione
analogica nel caso in esame.
    Con riferimento al patteggiamento  l'art.  135  norme  att.  cod.
proc. pen. stabilisce che «[il] giudice, per decidere sulla richiesta
di applicazione della pena rinnovata  prima  della  dichiarazione  di
apertura del dibattimento di primo grado, ordina  l'esibizione  degli
atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Se la  richiesta
e' accolta, gli atti esibiti vengono inseriti nel  fascicolo  per  il
dibattimento; altrimenti gli atti sono immediatamente  restituiti  al
pubblico ministero».
    La giurisprudenza di legittimita' ha considerato questo  articolo
applicabile in  via  analogica  anche  nel  caso  in  cui  l'imputato
rinnovi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento,  una
richiesta condizionata di  giudizio  abbreviato,  gia'  respinta  dal
giudice per le indagini preliminari  (Corte  di  cassazione,  sezioni
unite penali, sentenza 27 ottobre 2004, n. 44711), e la  dottrina  ne
ha ritenuto l'applicabilita' anche nei casi di richiesta di  un  rito
speciale  presentata  nell'udienza  di  comparizione,  a  seguito  di
citazione diretta ex art. 555 cod. proc. pen.; tra i riti speciali e'
ora compreso anche quello di messa alla prova.
    Del resto gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero
sono di regola sottratti alla cognizione dibattimentale, ma se non si
deve procedere al dibattimento  non  c'e'  ragione  di  impedirne  la
conoscenza al giudice quando cio' e' necessario ai  soli  fini  della
decisione su tale richiesta. Il fatto che cio' non sia  espressamente
previsto non significa che sia vietato, sicche'  anche  sotto  questo
aspetto puo' ritenersi che non  occorra  a  tal  fine  una  specifica
disposizione  o,  come  e'  stato  sostenuto  dal  giudice   a   quo,
un'apposita pronuncia di illegittimita' costituzionale.
    Deve quindi  concludersi  che  il  Tribunale  rimettente  non  ha
compiuto  un  accurato  esame  delle  opzioni   interpretative   rese
possibili  dal  contesto  normativo  in  cui  si  colloca  la   norma
censurata.
    Le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 464-quater,
comma 1, cod. proc. pen.  sono  allora  inammissibili,  perche'  sono
state   poste   senza   tenere   conto   della   praticabilita'    di
un'interpretazione costituzionalmente orientata,  diversa  da  quella
prospettata e coerente con la cornice normativa in cui  la  norma  si
colloca.
    In base alla costante giurisprudenza  costituzionale  infatti  lo
scrutinio nel merito della  questione  sollevata  e'  precluso  dalla
mancata o inadeguata sperimentazione, da parte  del  giudice  a  quo,
della possibilita' di una soluzione interpretativa diversa da  quella
posta a base dei prospettati dubbi di legittimita'  costituzionale  e
tale da determinare il loro superamento o da  renderli  comunque  non
rilevanti nel procedimento a quo (sentenze n. 253 e n. 45  del  2017;
ordinanze n. 97 e n. 58 del 2017).
    5.- Le altre questioni di legittimita'  costituzionale  sollevate
dall'ordinanza di rimessione non sono fondate.
    6.- Hanno carattere logicamente  pregiudiziale  le  questioni  di
legittimita' costituzionale degli artt.  464-quater  e  464-quinquies
cod. proc. pen., in riferimento all'art. 27,  secondo  comma,  Cost.,
sollevate  in  quanto  ad  avviso   del   Tribunale   rimettente   le
disposizioni censurate «prevedono la  irrogazione  ed  espiazione  di
sanzioni  penali  senza  che  risulti  pronunciata  ne'   di   regola
pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».
    Ritenendo che con il provvedimento  che  dispone  la  messa  alla
prova  l'imputato  sia  assoggettato  a  una  pena,  l'ordinanza   di
rimessione sottolinea come cio' avvenga «sempre e soltanto sulla base
del mero titolo esecutivo provvisorio»,  senza  che  sia  intervenuta
alcuna pronuncia di condanna ancorche'  non  definitiva.  Percio'  le
norme censurate violerebbero l'art. 27, secondo comma,  Cost.,  visto
che «stabiliscono non  tanto  una  violazione,  quanto  una  radicale
negazione della garanzia formale racchiusa nel principio secondo  cui
l'imputato non puo' essere  considerato  e  tantomeno  trattato  come
colpevole sino alla condanna penale definitiva»,  senza  che  vi  sia
alcuna contrapposta «esigenz[a] di  tutela  di  valori»  di  dignita'
costituzionale pari o superiore.
    In realta' pero' la situazione risultante dall'applicazione delle
norme in questione e' diversa.
    Infatti, se e' vero che nel  procedimento  di  messa  alla  prova
manca  una  condanna,  e'  anche  vero  che  correlativamente   manca
un'attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell'imputato e su sua
richiesta (non perche' e' considerato colpevole), in  difetto  di  un
formale  accertamento   di   responsabilita',   viene   disposto   un
trattamento alternativo alla pena che  sarebbe  stata  applicata  nel
caso di un'eventuale condanna.
    Con riferimento alla  mancanza  di  un  formale  accertamento  di
responsabilita'  e  di  una  specifica  pronuncia  di  condanna,   la
sospensione  del  procedimento  con  messa  alla  prova  puo'  essere
assimilata all'applicazione  della  pena  su  richiesta  delle  parti
(cosiddetto  patteggiamento:  art.  444  cod.  proc.  pen.),  perche'
entrambi i riti speciali si basano sulla volonta' dell'imputato  che,
non contestando l'accusa, in un caso si sottopone  al  trattamento  e
nell'altro accetta la  pena.  Per  queste  caratteristiche  anche  il
patteggiamento e' stato sospettato di illegittimita'  costituzionale,
sostenendosene il contrasto con la presunzione  di  non  colpevolezza
contenuta nell'art. 27, secondo comma, Cost.,  ma  questa  Corte  con
piu' decisioni ha ritenuto la questione priva di fondamento (sentenza
n. 313 del 1990; ordinanza n. 399 del 1997).
    In particolare e' stato escluso  che  nel  procedimento  previsto
dall'art. 444 cod. proc. pen. «vi sia un  sostanziale  capovolgimento
dell'onere probatorio, contrastante con  la  presunzione  d'innocenza
contenuta  nell'art.  27,  secondo  comma,  della  Costituzione».  In
effetti  -  ha  aggiunto   la   Corte   -   nel   nuovo   ordinamento
giuridico-processuale «e' preponderante l'iniziativa delle parti  nel
settore probatorio: ma cio' non immuta affatto  i  principi,  nemmeno
nello speciale procedimento in esame, dove  anzi  il  giudice  e'  in
primo luogo tenuto ad esaminare ex officio se sia gia' acquisita agli
atti la prova che il fatto non sussiste o che l'imputato  non  lo  ha
commesso. Dopodiche', risultando negativa questa prima  verifica,  se
l'imputato ritiene di possedere  elementi  per  l'affermazione  della
propria innocenza, nessuno lo obbliga a richiedere l'applicazione  di
una pena, ed egli ha a disposizione le garanzie del  rito  ordinario.
In altri termini, chi chiede l'applicazione di una pena vuol dire che
rinuncia ad avvalersi della facolta' di  contestare  l'accusa,  senza
che  cio'  significhi  violazione  del   principio   di   presunzione
d'innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a  quando  non
sia irrevocabile la sentenza» (sentenza n. 313 del 1990).
    Invero  la  possibilita'  di  chiedere  i  riti  speciali,  e  in
particolare il patteggiamento o la  messa  alla  prova,  costituisce,
come generalmente si ritiene, una delle facolta' difensive  e  appare
illogico considerare costituzionalmente illegittimi per la violazione
delle garanzie riconosciute all'imputato questi procedimenti che sono
diretti ad assicurargli un trattamento piu' vantaggioso di quello del
rito ordinario.
    7.-  Per  giungere  alla  conclusione   dell'infondatezza   delle
questioni di legittimita' costituzionale  degli  artt.  464-quater  e
464-quinquies cod. proc. pen.,  in  riferimento  all'art.  27  Cost.,
sarebbe sufficiente  richiamare  gli  argomenti  gia'  utilizzati  da
questa Corte per decidere la questione  relativa  al  patteggiamento,
per vari aspetti analoga. Tuttavia anche altri  e  assai  consistenti
argomenti orientano in tal senso e valgono a dimostrare ulteriormente
l'infondatezza   delle   altre   due   questioni   di    legittimita'
costituzionale sollevate dal giudice a quo.
    La messa alla prova, anche se puo' assimilarsi al  patteggiamento
per  la  base  consensuale  del  procedimento   e   del   conseguente
trattamento, presenta aspetti che  da  questo  la  differenziano,  al
punto, come si vedra', da non consentire un riferimento  nei  termini
tradizionali alle  categorie  costituzionali  penali  e  processuali,
perche' il carattere innovativo della  messa  alla  prova  «segna  un
ribaltamento dei tradizionali sistemi  di  intervento  sanzionatorio»
(Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31  marzo  2016,
n. 36272).
    Come  hanno  riconosciuto  le  sezioni  unite  della   Corte   di
cassazione, «[q]uesta  nuova  figura,  di  ispirazione  anglosassone,
realizza una rinuncia statuale alla potesta' punitiva condizionata al
buon esito di un periodo  di  prova  controllata  e  assistita  e  si
connota per una accentuata dimensione  processuale,  che  la  colloca
nell'ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio  (Corte
cost., n. 240 del 2015). Ma di essa va riconosciuta, soprattutto,  la
natura  sostanziale.  Da  un  lato,  nuovo  rito  speciale,  in   cui
l'imputato che rinuncia al processo ordinario trova il  vantaggio  di
un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall'altro, istituto  che
persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene
"infranta" la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in  funzione
del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (Cass., sez.
un., n. 36272 del 2016).
    Da qui la differenza tra l'istituto in esame e il patteggiamento,
in quanto la  sentenza  che  dispone  l'applicazione  della  pena  su
richiesta  delle  parti,   «pur   non   potendo   essere   pienamente
identificata con una  vera  e  propria  sentenza  di  condanna  (cfr.
sentenza n. 251 del 1991), e' tuttavia a questa "equiparata" ex  art.
445 del codice di procedura penale» (ordinanza  n.  73  del  1993)  e
conduce all'irrogazione della pena prevista per il reato  contestato,
anche se diminuita fino a un terzo,  mentre  l'esito  positivo  della
prova conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione
del reato.
    Inoltre la  sentenza  di  patteggiamento  costituisce  un  titolo
esecutivo per l'applicazione  di  una  sanzione  tipicamente  penale,
mentre l'ordinanza che dispone la sospensione del processo e  ammette
l'imputato alla prova non costituisce un titolo per  dare  esecuzione
alle relative prescrizioni. Il trattamento programmato non e' infatti
una  sanzione  penale,  eseguibile  coattivamente,  ma  da'  luogo  a
un'attivita' rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni  da
parte dell'imputato, il quale  liberamente  puo'  farla  cessare  con
l'unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso.
    Si tratta  di  una  caratteristica  fondamentale,  perche'  viene
riservata alla volonta' dell'imputato non soltanto la decisione sulla
messa alla prova, ma anche la sua esecuzione.
    In questa struttura procedimentale tuttavia  non  manca,  in  via
incidentale  e  allo  stato  degli   atti   (perche'   l'accertamento
definitivo e' rimesso all'eventuale prosieguo del giudizio, nel  caso
di  esito   negativo   della   prova),   una   considerazione   della
responsabilita' dell'imputato, posto che il giudice, in base all'art.
464-quater, comma  1,  cod.  proc.  pen.,  deve  verificare  che  non
ricorrono le condizioni per «pronunciare sentenza di  proscioglimento
a norma dell'articolo 129» cod. proc. pen., e anche a tale scopo puo'
esaminare  gli  atti  del  fascicolo  del  pubblico  ministero,  deve
valutare la richiesta dell'imputato,  eventualmente  disponendone  la
comparizione (art. 464-quater, comma 2, cod. proc. pen.),  e,  se  lo
ritiene necessario, puo' anche acquisire ulteriori  informazioni,  in
applicazione dell'art. 464-bis, comma 5, cod. proc. pen.
    Cosi' ricostruite le caratteristiche  del  nuovo  istituto,  deve
concludersi che le questioni  di  legittimita'  costituzionale  degli
artt. 464-quater e  464-quinquies  cod.  proc.  pen.  in  riferimento
all'art. 27, secondo comma, Cost. sono prive di fondamento.
    8.- Una terza questione di legittimita' costituzionale investe il
secondo  e  il  terzo  comma  dell'art.  168-bis   cod.   pen.,   che
violerebbero l'art. 25, secondo comma, Cost.,  «nella  parte  in  cui
sancisce il principio di tassativita' e determinatezza  legale  delle
pene», in quanto  prescriverebbero  sanzioni  indeterminate  sia  sul
piano qualitativo, potendo il  trattamento  a  cui  l'imputato  viene
sottoposto  risolversi  in  vincoli  conformativi  e  ablatori  della
liberta' personale di diversa intensita', sia sul piano quantitativo,
ossia con  riferimento  alla  sua  misura  temporale.  Infatti,  «nel
disegno legislativo che definisce il procedimento speciale [di  messa
alla prova], le determinazioni qualitative e quantitative concernenti
il trattamento sanzionatorio penale applicabile  [sarebbero]  rimesse
alla libera scelta delle autorita' procedenti (prima l'ufficio locale
di esecuzione penale che predispone il programma  di  trattamento,  e
poi il giudice che tale programma convalida o modifica)».
    Quanto alla misura temporale degli elementi del  trattamento,  va
considerato che, anche se le norme censurate non lo  specificano,  la
durata   massima   del   lavoro   di   pubblica   utilita'   «risulta
indirettamente  dall'art.  464-quater,  comma  5,  cod.  proc.   pen.
perche', in mancanza di una sua diversa  determinazione,  corrisponde
necessariamente alla durata della sospensione  del  procedimento,  la
quale non puo' essere: "a) superiore a due anni quando si procede per
reati per i quali e' prevista una pena detentiva, sola,  congiunta  o
alternativa alla pena pecuniaria; b) superiore a un  anno  quando  si
procede per reati per i quali e' prevista la sola  pena  pecuniaria"»
(ordinanza n. 54 del 2017), e per determinare in concreto tale durata
il giudice «deve tenere conto dei criteri previsti dall'art. 133 cod.
pen.  e  delle  caratteristiche  che  dovra'  avere  la   prestazione
lavorativa» (ordinanza n. 54 del 2017).
    Analoghe   considerazioni   valgono   per   la   durata   massima
dell'affidamento in prova al servizio sociale.
    Quanto agli aspetti qualitativi va considerato che  un  programma
di   trattamento   per   sua   natura   puo'    essere    determinato
legislativamente solo attraverso l'indicazione dei tipi  di  condotta
che ne possono formare oggetto, rimettendone la specificazione,  come
infatti e' avvenuto, all'ufficio di esecuzione penale  esterna  e  al
giudice, con il consenso dell'imputato.
    Il trattamento per sua natura e' caratterizzato  dalla  finalita'
specialpreventiva  e  risocializzante  che  deve  perseguire  e  deve
percio'   essere   ampiamente   modulabile,   tenendo   conto   della
personalita' dell'imputato  e  dei  reati  oggetto  dell'imputazione,
sicche', considerata anche la sua base consensuale, non  se  ne  puo'
prospettare l'insufficiente determinatezza  in  riferimento  all'art.
25, secondo comma, Cost.
    Come  questa  Corte  ha  gia'  rilevato,  «la   normativa   sulla
sospensione del  procedimento  con  messa  alla  prova  comporta  una
diversificazione dei  contenuti,  prescrittivi  e  di  sostegno,  del
programma  di  trattamento,  con  l'affidamento  al  giudice  di  "un
giudizio sull'idoneita' del programma,  quindi  sui  contenuti  dello
stesso, comprensivi  sia  della  parte  'afflittiva'  sia  di  quella
'rieducativa', in una valutazione complessiva  circa  la  rispondenza
del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche
una prognosi di non recidiva"  (Sezioni  unite,  31  marzo  2016,  n.
33216)» (ordinanza n. 54 del 2017).
    Emerge percio' in  modo  chiaro  l'inconferenza  del  riferimento
all'art. 25, secondo comma, Cost.
    9.- Infine, secondo il giudice a quo l'art. 464-quater, comma  4,
cod. proc. pen. si porrebbe in contrasto con  l'art.  101  Cost.,  in
quanto «rimette alla volonta' dell'imputato la capacita'  sovrana  di
integrare   la   condizione   meramente   potestativa    cui    resta
indiscutibilmente subordinato ogni profilo di  efficacia  formale  ed
utilita' sostanziale del provvedimento giurisdizionale di messa  alla
prova   nonche'   [...]   dell'intera   procedura   gia'    celebrata
strumentalmente alla pronuncia del medesimo».
    La norma censurata contrasterebbe altresi' sia  con  «i  principi
costituzionali di buon andamento ed efficienza  delle  attivita'  dei
pubblici poteri (art. 97 Cost.) sia con i principi di economicita'  e
ragionevole durata del processo penale (art.  111  comma  2  Cost.)»,
nella  misura  in  cui  stabilisce  lo   svolgimento   di   attivita'
paragiudiziarie e giudiziarie che, «senza riguardo  al  dispendio  di
tempi e risorse processuali all'uopo occorrenti, [...] devono  essere
immediatamente disimpegnat[e] dai competenti pubblici  uffici  (prima
l'ufficio esecuzione penale esterna e poi il giudice procedente)  per
il solo fatto che ne faccia richiesta la medesima  parte  processuale
al  cui   mero   insindacabile   beneplacito,   contestualmente,   si
attribuisce anche la prerogativa di deciderne a posteriori la  sorte:
ossia il potere di stabilire a piacimento [se], una  volta  che  tali
attivita' abbiano avuto luogo, [...]  siano  state  compiute  o  meno
soltanto a titolo di  dissipazione  di  tempi  processuali  e  denari
pubblici».
    Si tratta ancora una volta di questioni non fondate.
    Basandosi l'istituto  della  messa  alla  prova  sulla  richiesta
dell'imputato, che allega il programma di trattamento fatto elaborare
dall'ufficio di esecuzione  penale  esterna,  e'  evidente  che  ogni
integrazione o modificazione di questo programma ritenuta  necessaria
dal giudice richiede il consenso dell'imputato.
    Qualora  infatti  il  giudice  consideri  il  programma  proposto
inidoneo a perseguire le finalita' del trattamento,  l'imputato  deve
poter scegliere se  accettare  le  integrazioni  o  le  modificazioni
indicate oppure proseguire il giudizio nelle  forme  ordinarie:  cio'
non menoma le prerogative dell'autorita' giudiziaria  e  non  integra
quindi la violazione dell'art. 101 Cost., dato  che  la  facolta'  e'
conforme al modello legale del procedimento.
    Invero, come e' gia' stato rilevato da questa Corte, l'integrita'
delle attribuzioni costituzionali dell'autorita' giudiziaria «non  e'
violata quando il legislatore ordinario  non  tocca  la  potesta'  di
giudicare, ma opera sul  piano  generale  ed  astratto  delle  fonti,
costruendo il modello normativo cui la  decisione  del  giudice  deve
riferirsi (sentenze n. 170 del 2008 e n. 432 del 1997;  ordinanza  n.
263 del 2002)» (sentenza n. 303 del 2011).
    Percio' con la  disposizione  censurata  il  legislatore  non  ha
violato  la  sfera  riservata   al   potere   giudiziario,   perche',
subordinando le integrazioni e  le  modificazioni  del  programma  di
trattamento al consenso dell'imputato, ha legittimamente  ricollegato
l'accesso al procedimento speciale a un accadimento  processuale  (il
consenso, appunto) naturalmente rimesso a una parte del processo.
    Anche  con  riferimento  all'art.  97  Cost.  la   questione   e'
infondata, data l'inconferenza del parametro  evocato;  infatti,  per
costante  giurisprudenza  costituzionale,  «il  principio  del   buon
andamento e' riferibile all'amministrazione della giustizia  soltanto
per quanto attiene all'organizzazione e al funzionamento degli uffici
giudiziari,  non  all'attivita'  giurisdizionale  in  senso  stretto»
(ordinanza n. 84 del 2011; in tal senso, sentenze n. 65 del 2014 e n.
272 del 2008; ordinanza n. 408 del 2008).
    E' infine infondata anche la censura di violazione dell'art. 111,
secondo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata,  oltre  ad
essere funzionale alle  peculiari  caratteristiche  dell'istituto  in
esame, non comporta, contrariamente a quanto ritenuto dal  giudice  a
quo, alcun dispendio di tempi  e  risorse  processuali.  Il  consenso
infatti e' richiesto per le integrazioni e le  modificazioni  che  il
giudice ritenga di apportare prima della sospensione del procedimento
e dell'ammissione alla prova dell'imputato, e quindi  prima  che  sia
svolta qualsivoglia attivita' processuale.
    Peraltro, in relazione al principio  di  ragionevole  durata  del
processo, la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato
che  -  «alla  luce   dello   stesso   richiamo   al   connotato   di
"ragionevolezza", che compare nella formula costituzionale -  possono
arrecare  un  vulnus  a  quel  principio  solamente  le  norme   "che
comportino una dilatazione dei tempi del  processo  non  sorrette  da
alcuna logica esigenza" (ex plurimis, sentenze n. 23 del 2015, n.  63
e n. 56 del 2009, n. 148 del 2005)» (sentenza n. 12 del 2016). E  non
e'  questo  il  caso  in  esame,  dato  che  la  norma  censurata  e'
necessitata dalla struttura del rito  speciale,  che  si  basa  sulla
volonta' dell'imputato ed e' diretto, tra l'altro, a semplificare  il
procedimento, riducendone anche i tempi.
     

                          per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    1)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 464-quater, comma 1, del codice di procedura
penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25,
secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale
ordinario di Grosseto, con l'ordinanza indicata in epigrafe;
    2)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale degli artt.  464-quater  e  464-quinquies  cod.  proc.
pen., sollevate, in riferimento all'art. 27,  secondo  comma,  Cost.,
dal medesimo Tribunale, con l'ordinanza indicata in epigrafe;
    3)  dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 168-bis, secondo e terzo comma,  del  codice
penale, sollevata, in riferimento all'art. 25, secondo comma,  Cost.,
dal medesimo Tribunale, con l'ordinanza indicata in epigrafe;
    4)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  464-quater,  comma  4,  cod.  proc.  pen.,
sollevate, in riferimento agli artt. 97, 101 e  111,  secondo  comma,
Cost., dal medesimo Tribunale, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.

                                F.to:
                    Giorgio LATTANZI, Presidente
                             e Redattore
                    Filomena PERRONE, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 27 aprile 2018.

                           Il Cancelliere
                       F.to: Filomena PERRONE

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